domenica 12 ottobre 2008

DI QUEL VERDI A CUI MANCO' LA FEDE Il Domenicale 11 ottobre

Verdi – raccontano le storie delle musica- si avvicinò al pentagramma suonando l’organo nella piccola Chiesa di Le Roncole (frazione di Busseto) di fronte alla casa della sua famiglia –poco più di una cappella dove venne battezzato “Giuseppe Fortunino Francesco”, nomi augurali ed ispirati ad un cristianesimo frugale. E’ probabile che con il passar degli anni si cimentasse con l’organo di Santa Maria degli Angeli in Busseto , accanto al magnifico complesso policromo in terracotta (con figure a grandezza umana) di Guido Mazzoni raffigurante la deposizione dalla Croce e la sofferenza della Vergine e degli Apostoli. E’ in Chiesa che il 4 maggio 1836 (a meno di 24 anni) sposa Margherita Barezzi, figlia del suo benefattore, e va con lei in viaggio di nozze a Milano dove, dopo molte amarezze, conta di perseguire un percorso di successi nella vita musicale nella capitale del Lombardo-Veneto dell’Impero austro-ungarico. Le amarezze diventano, però, insuccessi professionali, tragedie personali ed una crescente crisi filosofica religiosa: “Oberto”, la sua prima opera, ha un buon esito, ma la seconda (“Un giorno di regno”) viene travolta dai fischi. I suoi figli, Virginia Maria Luigia e Icilio Romano (ambedue battezzati secondo i riti di Santa Romana Chiesa) muoiono bambini – e Verdi non avrà più il dono della paternità (dramma che compare in gran parte delle sue opere); muore anche Margherita.
Pochi studiosi hanno affrontato il tema della perdita della Fede nella poetica e nella musica di Verdi. Alcune sue opere (si pensi “Don Carlo”, a “Aida”, alla prima versione de “La forza del destino”) hanno passaggi violentemente anticlericali – in linea, si dice normalmente, con l’atmosfera di un Risorgimento in cui il Papa ed il clero venivano percepiti tra i maggiori ostacoli all’unità d’Italia. Che il Verdi maturo fosse ateo è noto: commentando la “Messa da Requiem”- che dovrebbe essere un lavoro religioso per eccellenza - Massimo Mila ha scritto “protagonista ne è l’uomo vivo, non il defunto, è l’azione è in questa terra, non nell’aldilà”. Per Hans von Bülow, il direttore d’orchestra favorito da Wagner, il “Requiem” è “un’opera lirica in veste ecclesiastica” – “che solo un genio può avere scritto”, aggiunge Johannes Brahms.
Il Festival Verdi 2008 (in corso dal primo al 28 ottobre) offre un’occasione per esaminare questo passaggio in modo inconsueto: attraverso quattro opere che collocandosi tra il 1842 ed il 1851, sono rappresentative del decennio in cui Verdi transitò dalla Fede ad un ateismo inquieto, molto differente da quello della sua compagna di vita e seconda moglie Giuseppina Strepponi , atea coltissima in tema (di ateismo) e felice di esserlo (come rivela il suo epistolario). Vogliamo cogliere questo aspetto di Verdi esaminando regie e direzione musicale (non unicamente i libretti e le partiture) e seguendo non l’ordine in cui i lavori sono stati presentati a Parma, a Busseto ed a Reggio Emilia (le tre città maggiormente coinvolte nella manifestazione) ma quello cronologico di concezione.
Cominciamo con “Nabucco” messo in scena nel magnifico Teatro “Romolo Valli” di Reggio Emilia. Sull’opera grava una leggenda “metropolitana”: deluso e psicologicamente distrutto, Verdi avrebbe deciso di buttare la spugna e fare un altro mestiere, ma il suo editore Ricordi gli fece trovare, quasi per caso, il libretto di “Nabucco” aperto sulla pagina del coro “Va pensiero”; patriotticamente, il compositore sarebbe stato acceso di sacro fuoco risorgimentale ed avrebbe ri-cominciato la carriera. Da leale suddito del Granducato di Parma e Piacenza, invece, il nostro poco aveva a che fare con le tensioni pre-risorgimentali ed i movimenti carbonari già nell’aria a Milano. Non fu tanto “Va pensiero” (coro che peraltro passò del tutto inosservato alla prima alla Scala il 9 marzo1842) quando quello conclusivo “Immenso Jehova” (bissato al debutto alla Scala) ma colmo di ambiguità in quanto esprime una forte volontà di potenza , sotto una patina religiosa.
Nello scombinato libretto di Temistocle Solera( lui sì patriota, ma anche libertino, politicante, cospiratore ed antiquario fallito), tutti perdono la Fede (e più o meno la ritrovano): la principessa assira Fenena si converte all’ebraismo, Zaccaria gran sacerdote degli ebrei minaccia di accoltellare la figlia del Re Assiro, questi impazzisce e, quando rinsavisce, distrugge la statua del Dio dei suoi avi e si piega a quello degli ebrei (senza , però, convertirsi e restando, quindi, in un limbo),la protagonista Abigaille ha un solo nume – il potere politico assoluto – e conosce una sola strada – il tradimento di tutto e di tutti (anche di sé medesima). Uno dei meriti della messa in scena di Daniele Abbado (scene e costumi di Luigi Perego) – peraltro basata in gran misura su uno spettacolo già visto a Ferrara 11 anni fa - è di fare percepire questa perdita di Fede e questi tradimenti, almeno agli spettatori più accorti. Gli ebrei sono in abiti novecenteschi (tranne Zacaria, Abdallo e Ismaele), gli altri in costumi da film biblico. Efficace l’impianto: il muro del pianto che si trasforma in più ambienti (i giardini pensili, il deserto, la prigione, e via discorrendo). Verdi aveva 29 anni quando compose “Nabucco”; gran parte del successo dello spettacolo è da attribuirsi alla direzione musicale del 29nne Michele Mariotti, il quale regala un “Nabucco” terso, impetuoso, pieno dell’irruenza, i tratti che dovevano caratterizzare un Verdi non ancora trentenne e tormentato da vicende personali, professionali e religioso-filosofiche. Mariotti si pone come la risposta italiana a Gustavo Dunadel, a Robin Ticciati ed a concertatori della più giovane generazione.
Mentre “Nabucco” è spesso nei nostri palcoscenici, “Giovanna D’Arco” è una rarità (ma si può vedere con una certa frequenza negli Usa ed in Germania). Non so se Verdi abbia mai pensato di comporne una su Anita Garibaldi. Negli Anni 50, quelli della trilogia popolare, ci sarebbero stati tutti gli ingredienti: un primo atto in America Latina, la difese della breve Repubblica Romana con scene di battaglia sul Gianicolo, amore e morte tra le paludi del Comacchio. Probabilmente, non lo fece perché aveva già composto (in un mese) qualcosa del genere nel 1845, ossia quando Anita era ancora viva, vivace e combattente. All’epoca la Pulzella d’Orléans non era stata ancora canonizzata (ciò avvenne nel 1920). Sulla falsariga di una tragedia di Schiller, era stata argomento di opere di Michele Carafa, Nicola Vaccai, Giovanni Pacini . In tutte si era posta enfasi sull’unità nazionale (in Francia nel XV secolo) per trarne paralleli con l’Italia. La tragedia di Schiller riguardava la tensione tra missione sovrannaturale e natura umana , con pochi accenni di contorno al processo di unificazione nazionale. Temistocle Solera (librettista pure del “Nabucco”) era un patriota rivoluzionario da non poco: il padre era stato condannato a morte dagli austro-ungarici per sovversione (ma fu poi amnistiato), Temistocle scappò all’estero con un bel soprano , fece di tutto e di più. Verdi, in quel periodo, viveva “in peccato” con Giuseppina . Quindi, la “sua” Giovanna ascoltava le voci più della carne che dall’Alto. In breve siamo alle prese con una vicenda di passione amorosa (tra la fanciulla e il Re di Francia). Giovanna non muore sul rogo , ma combattendo e salvando la Patria. Che fosse “indiavolata” ne era convinto il padre Giacomo, il quale, nel libretto, la consegna agli inglesi, prima di pentirsene amaramente, farla fuggire dal carcere e ridarla al campo di battaglia. Al Regio di Parma le produzione regge grazie principalmente alla regia di Gabriele Lavia, alle scene di Alessandro Votti, ai costumi di Andrea Viotti e soprattutto alla concertazione di Bruno Bartoletti. Con un’ambientazione quattrocentesca ma tra quinte risorgimentali ed una direzione d’orchestra tersa riescono a dare unità drammaturgica e musicale ad un lavoro che poca ne ha. Attenzione: i diavoli (che tentano Giovanna) assomigliano alla confraternita mafiosa dei Beati Paoli, gli angeli hanno coretti privi di spessore. Nell’opera non mancano momenti musicalmente buoni (ed anticipazioni, ad esempio, di “Macbeth”. Sotto il profilo che ci interessa, il lavoro rispecchia il tormento di chi si riconosce ancora nell’iconografia della Fede (specialmente la scena nella Cattedrale di Reims) ma non comprende (o non capisce più), la tensione intima di Giovanna d’Arco (che, nella messa in scena di Lavia, vediamo stesa su un prato sotto il giovane Re Carlo.
Per quanto composto negli anni di maggiori pulsioni risorgimentali (il 1848), e tratto da un romanzo in versi di Byron, “Il Corsaro” ha poco o nulla di patriottico. In Byron, il protagonista Conrad (diventato Corrado nel libretto di Francesco Maria Piave), è un introverso; a guida sì di una ciurma che difende i mari dagli ottomani ma preso soprattutto da meste riflessioni sul significato dell’esistenza in un mondo senza speranza e senza aldilà. Per il librettista Francesco Maria Piave e Verdi siamo invece in una vicenda di avventure analoga a quelle di molti film degli Anni 40. Il bel Corrado è amato da due donne, Medora e Gulmara. La seconda è la favorita del crudele, e sadico, Pascià Seid. Corrado tenta di bloccare, con uno stratagemma (si travesta da Derviscio), le scorrerie di Seid, ma viene preso prigioniero e condannato a morte lenta tramite tortura. Gulmara lo aiuta a fuggire(visto che c’è la fanciulla ne approfitta anche per accoltellare Seid nel sonno) ed a tornare sulle suo coste, dove però Medora, sapendolo morto, sta spirando avvelenata. Byroniamente, Corrado si suicida buttandosi in mare – in Byron non c’è suicidio ma il protagonista sparisce alla ricerca di altre avventure. La regia di Lamberto Puggelli , le funzionali scene di Marco Capuana ed i bei costumi di Vera Marzot danno a questo “feuilleton” un ritmo quasi cinematografico. Siamo in un mondo in cui Allah è sadico ed il Dio dei Cristiani semplicemente non esiste: due dei “buoni” si suicidano e la terza ammazza il proprio antagonista nel sonno. Forse qualche reminiscenza della cappella de Le Roncole e del polittico di Mazzoni ci sono ancora, ma sono molto, molto lontani.
Sono del tutto assenti da “Rigoletto” del 1851, punto d’approdo di un ateismo tormentato che troverà (forse) pace solo nel suo testamento musicale: la “fuga” con cui termina Falstaff “Tutto il mondo è una burla!”. Un addio, però, tutt’altro che sereno. Nella regia di Stefano Vizioli e nelle scene e costumi di Pierlugi Samaritani (riprese da Alessandro Ciammarughi, il mondo di “Rigoletto” non è dominato solo dalla mancanza di Dio ma anche e soprattutto dalla solitudine di ciascun protagonista. Mauro Mariani, docente al conservatorio di Santa Cecilia, ricorda, in un saggio recente, una frase di Verdi : “Penso che la vita è la cosa più stupida, peggio inutile”. Segno, forse, tra i più eloquenti del suo ateismo tormentato.

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