sabato 25 ottobre 2008

LA CRISI NON CANCELLERA' IL SISTEMA DEL LIBERO MERCATO, Libero 25 ottobre

Da due anni circa il mondo finanziario è alle prese con una crisi che starebbe mettendo a repentaglio l’ordine economico mondiale tanto che si parla (lo abbiamo viso su “Libero Mercato” del 23 ottobre) di una nuova “Bretton Woods” per fissare nuove regole. Tutti gli Stati, anche i più liberisti, intervengono per tamponare questa o quella banca o questa e quella istituzione finanziaria. Mentre i Governi si arrabattano chiedendosi dove è la cittadina del New Hampshire in cui nel luglio 1944 è stato definito il quadro con il quale, bene o male, si è operato sino ad ora, e mentre le sempre più numerose Cassandre si rotolano per terra e si strappano i capelli, poniamoci alcune domande terra-terra per chi lavora, risparmia ed opera in un contesto destinato a durare sino alla fine del 2009. I telegiornali non ci mostrano banchieri e bancari che si sfracellano dai piani alti dei grattacieli di Wall Street e della City o file di disoccupati in attesa di una zuppa alla mensa dei poveri (immagini tipiche dei cinegiornali del 1929-1931). Ciò dovrebbe indurre a pensare che la crisi è pesante ma non tale da schiacciare economia e finanza.
Innanzitutto, qualche cifra. Il vostro “chroniqueur” insegna economia e collabora a quotidiani; è a reddito medio-alto ma non appartiene certo alla “classe agiata” di weberiana memoria. Cura un proprio giardinetto di titoli mobiliari, dedicando a tale funzione circa un’ora al giorno (un’ora però molto intensa non come l’attenzione di molti trader on line che guardano i titoli che scorrono sullo schermo di Tv finanziarie e, al tempo stesso, preparano l’ossobuco o il sugo per la pasta). Non opera direttamente in proprio; lavora con un trader professionale con cui è al telefono ogni giorno (più o meno ad ora fissa). Dal primo gennaio ad oggi, la valorizzazione del giardinetto è diminuita sì, ma appena delL’8% circa (di cui un terzo negli ultimi 120 giorni), mentre nello stesso periodo le Borse mondiali hanno accusato una contrazione del 45% e l’obbligazionario internazionale una caduta del 4%. Non mi considero né particolarmente abile né specialmente fortunato. Non ho consigli o suggerimenti specifici da fornire. Ho, però, seguito alcune convinzioni e prassi che ritengo doveroso condividere con i lettori di “Libero Mercato”.
In primo luogo, ho considerato la crisi (che vedeva approssimarsi sin dall’inizio del 2006) grave ma non sistemica- ossia tale da provocare dolori e sofferenze ma non da mettere a repentaglio il sistema (ad onta di tutta la pubblicistica sulla fine del capitalismo che imperversa in questi giorni). Interessante notare che nell’ultimo fascicolo del Financial Analysts Journal . tre esperti di rango – Vinee Bhanall della Pacific Investiment Management , Robert Gingrich e Francis Longstaff della Università della California a Los Angeles, arrivano a conclusioni analoghe al termine di un’analisi rigorosamente quantitativa. Costruiscono un nuovo indicatore composito di rischio sulla base di un modello complesso che consente di estrarre informazioni da spezzoni di indici di liquidità e distinguono tre tipologie di rischio : rischio idiosincratrico a livello di singole aziende, rischio di settore (a livello di un comparto), e rischio sistemico per uno o più Paesi. Applicando il modello alla crisi in atto, ne derivano un indice di rischio sistematico pari al doppio di quello della crisi creditizia per il settore dell’auto (negli Usa ed in Europa) nel maggio 2005. Ciò vuole dire che la situazione merita senza dubbio di essere tenuta sotto controllo, che essa potrà avere ripercussioni pesanti sull’economia reale ma che siamo lontani dalla “fine della storia” del capitalismo e del libero mercato.
In secondo luogo, da quando (nel gennaio 2006) ho visto nuvolosi neri all’orizzonte, mi sono tenuto lontano da derivati esotici, oppure prima di avvicinarmi al loro profumo ho chiesto che fossero sottoposti ad analisi di rischio, tramite le forma relativamente più avanzata di “simulazione di Montecarlo” (quella chiamata in gergo “barrier shifting techniques, BAST). Se ne troverà una descrizione compiuta nel manuale di Emmanuel Gobet, della Universià di Grenoble, su metodi matematici per l’analisi finanziaria, in corso di stampa (l’uscita è prevista, in Francia e negli Usa, all’inizio del 2009).
In terso luogo, ho preso con le pinze le analisi tecniche (specialmente quelle che appaiono sulla stampa) e la qualità delle relazioni finanziarie pubblicate dalle aziende. In uno studio memorabile apparso un anno fa sul Journal of Economic Surveys (Vol. 2, N. 4, pp.786-826) , le analisi tecniche venivano divise in due categorie: quelle finalizzate a portare a casa utili nei mercati delle divise e dei futures (ma non nelle Borse dei singoli Paesi) e quelle finalizzate ai mercati speculativi interni. Quindi, per interpretarle occorre sapere a cosa è “finalizzata” ciascuna di loro. La rassegna ne analizza 95: in generale, hanno raggiunto i loro obiettivi sino all’inizio degli Anni 90 (prima dell’esplosione della net economy e, successivamente, della bolla immobiliare); sino a 15 anni fa, 56 analisi tecniche hanno delineato strategie di trading che si sono rivelate soddisfacenti, 20 hanno comportato perdite (per chi ha seguito i loro suggerimenti) e 19 hanno avuto esiti misti. In generale – è scritto nel saggio – “gran parte delle analisi tecniche hanno mostrato di essere afflitte da vari problemi” ed il “testing” della loro efficacia si rivela molto difficile.
Veniamo adesso alla qualità delle relazioni finanziarie pubblicate dalle aziende. Daniel Cohen ne ha esaminato un vasto campione ed ha pubblicato i risultati nel fascicolo di agosto dell’Asia-Pacific Journal of Accounting and Economics: c’è un nesso negativo tra il rischio totale associato all’impresa e la qualità delle relazioni finanziarie (in parole povere, si tende ad incipriare i numeri). Lo ribadiscono sue saggi nel fascicolo di ottobre nel Journal of Business, Finance & Accounting.
Sino a qui, cosa non fare. Per il cosa fare, la ricetta è semplice: lavorare duro, acquisire conoscenza delle aziende e di fondi comuni in cui si investe e diversificare il rischio tra azioni ed obbligazioni (di qualità)

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