sabato 18 ottobre 2008

CHE FARE DOPO IL PIANO PAULSON ED IL G15 EUROPEO? Libero 18 ottobre

Il “G 7” tenuto a Washington il 10 ottobre, nell’ambito dell’assemblea annuale del Fondo monetario e della Banca mondiale, ed il “G 15” (dei Ministri economici e finanziari dei Paesi dell’Unione monetaria europea) sono stati in grado di fare passo avanti superiore alle previsione sulla via della soluzione dei problemi più immediati (il tracollo dei valori mobiliari) risultanti dalla crisi finanziaria esplosa nell’estate 2007, ma prevista da molti sin dal 2006 e che probabilmente ci accompagnerà sino al 2010 (per l’edilizia residenziale in Europa le stime parlano del 2012).
Tuttavia molto resta ancora da fare. E forse i risultati sarebbero stati maggiori, e soprattutto, non di breve periodo, se si fossero presi alcuni accorgimenti di stile e di metodo. Da un lato, sotto il profilo dello stile (ma in quest’area le buone maniere si accavallano con il medodo, i vari “G” dovrebbero essere tenuti alla chetichella, di nascosto (come quello in video conferenza organizzato a fine settembre) ed i loro risultati dovrebbero essere annunciati solamente al termine della riunione ed unicamente se concreti. E’ un assunto basilare della teoria economica dell’informazione; un’analisi recente di due economisti dell’Università di Chicago, Matthew Gentzkow e Jesse Shapiro, lo rafforza nel recente lavoro “Competition and Truth in the Market for News” (Chicago GSB Research Paper n. 16, 2008). Da un altro, una lettura attenta dei comunicati mostra che il programma in cinque punti varato dal G7 è una promessa di un miglior coordinamento (tra i Ministeri economici e le Banche centrali dei 7) ma non contiene nessun dettaglio puntuale su cosa fare e come farlo. Non molto differente il comunicato del “G 15” dell’area dell’euro, dove tuttavia si avvertono differenze profonde tra le posizioni di Stati la cui finanza pubblica è in condizione relativamente florida e quelle invece di chi (come Francia ed Italia) ha conti piuttosto in bilico: i primi temono che un’azione comune (ed ancora di più un fondo comune) faccia sì, nella migliore delle ipotesi, che le formiche finiscano con il sussidiare le cicale e, nella peggiore, faccia saltare l’unione monetaria. Il coordinamento, in effetti, c’è stato ma dopo una prima ondata d’entusiasmo, i mercato non sembrano essere stati convinti.
Una ragione risiede probabilmente nel fatto che sia il “G7” sia il “G 15” hannp omesso di fare una distinzione essenziale: quella tra misure urgenti di breve, anzi di brevissimo, periodo e tra misure strutturali a più lungo termine. Le prime sono la premessa per le seconde: è futile chiamare architetti per programmare come ricostruire una casa in fiamme (ossia definire una nuova regolazione) se, prima, non si chiamano i pompieri per spegnere l’incendio.
Dalla documentazione a disposizione dell’assemblea annuale del Fondo monetario e della Banca mondiale, si possono trarre alcuni dati interessanti per aiutare a definire i provvedimenti più urgenti: a) il mercato dei derivati ha adesso un valore facciale nominale pari a 600 milioni di miliardi di dollari (circa 11 volte la produzione mondiale di beni e servizi) mentre dieci anni fa era 75 milioni di miliardi di dollari (due volte e mezzo l’output mondiale) – nessuno ha idea di quale sia il valore effettivo, ossia di quale sia la percentuale della spazzatura e di come si suddivide la tra le varie tipologie di derivati ; b) un tasso di crescita così rapido è stato agevolato da un’integrazione dei mercati finanziari (lo stock di attività finanziarie straniere nei portafogli dei Paesi Ocse è raddoppiato negli ultimi dieci anni) che ha superato anche le ipotesi più ottimiste; c) la deregolamentazione ha avuto un ruolo inferiore a quello di cui si parla oggi su quotidiani e periodici perché gran parte dei nuovi strumenti derivati sono stati studiati proprio per aggirare le regole in vigore (prima che, negli Usa, l’Amministrazione Clinton le smantellasse; d) dalle due parti dell’Atlantico, i politici (quale fosse il colore dei differenti Governi) hanno incoraggiato il processo nella convinzione (diffusa peraltro anche nel mondo accademico) secondo una finanza dinamica avrebbe trainato l’economia reale (specialmente in aree dove i costi di produzione nel manifatturiero incidono pesantemente sulla competitività e la concorrenza dei Paesi emergenti morde di più). Nell’assuntoi che questa diagnosi è corretta, per rimettere in gareggiata il sistema ci vorrà, senza dubbio, tempo ed una nuova regolazione.
Nel frattempo, però, occorre evitarne il collasso. Il G7 ed il G15 hanno tentato tre strategie simultanee e parallele: a) sbloccare il mercato del credito (specialmente l’interbancario paralizzato da mancanza di fiducia tra gli istituti in quanto nessuno sa quanta e quale è la spazzatura nelle casseforti degli altri); b) agevolare la ricapitalizzazione delle banche (un documento del Fondo sostiene che sono necessari 675 milioni di dollari per impedire che la riduzione del credito abbia effetti sull’economia reale); d) impedire il propagarsi di una recessione (tanto più fattibile quanto più le quotazioni dei prodotti di base, travolte pure esse dalla crisi finanziaria, stanno calando rapidamente. E’ mancato , però, il parallelismo essenziale per dare ad esse efficacia rafforzandosi a vicenda Il “piano Paulson” riguarda i primi due di questi punti ma non tocca il terzo nella convinzione, diffusa e radicata negli Usa, che i fondamentali dell’economia americana vanno nella direzione giusta. Le misure europee hanno ingenerato il legittimo dubbio che si metta a repentaglio il “patto di stabilità” e con esso l’unione monetaria. Oggi paghiamo lo scotto di avere posto eccessivamente l’accento su parametri (quelli di Maastricht prima e del patto di stabilità poi) che lo stesso Prodi ha chiamato “stupidi”.
L’onere è in gran misura negli Stati Uniti non perché là la crisi è scoppiata ma perché l’Ue (e la stessa Unione monetaria) non sembra in grado di dare una risposta coordinata ed incisiva anche poiché una risposta che vada oltre i comunicati incoraggianti e le pacche sulle spalle ingenera dubbi sul futuro dell’unione monetaria. Il TARP (Trouble Asset Relief Program- Programma di sollievo per le attività finanziarie in difficoltà, il nome tecnico-legislativo del piano Paulson) deve essere, al più presto, integrato con una serie di misure interne (agli Usa), alcune delle quali in vario stadio di progettazione od anche realizzazione. In primo luogo, occorre ricapitalizzare la FDIC , l’istituto federale di assicurazione di conti correnti bancari, al fine di evitare panico e corse allo sportello. In secondo luogo, urge stabilire la regola (insolita negli Usa) che i titoli saranno acquistati da Pantalone soltanto alla scadenza (tutti i derivati hanno scadenze di qualche sorta) per non favorire bracconieri e cacciatori di frodo (i quali si annidano ogni volta scoppia una crisi finanziaria); ciò vuol dire, in termini tecnici, abbandonare la prassi dell’”opzione all’americana” per seguire quella dell’”opzione all’europea”. Attenzione: nel Vecchio Continente pochi conoscono questa differenza essenziale tra “opzioni americane” ed “opzioni europee” – due dei più diffusi quotidiani finanziari hanno fatto in questi giorni una grande confusione in materia; ancora peggiore ovviamente quella dei telecronisti economico-finanziari in video. In terzo luogo, si devono definire procedure d’asta per gli acquisti di titoli “troubled”; è l’unico modo per farne emergere, dall’ombra, un’idea, pur se approssimativa, della valorizzazione, ma il “piano Paulson” è tutt’altro che chiaro in materia. In quarto luogo, la gestione dei titoli acquistati nell’ambito del TARP non deve essere fatta dal Tesoro o da sue agenzie ma tramite gestori (incaricati in seguito ad asta e con regole stringenti in materia di conflitti d’interesse). In quinto luogo, è essenziale evitare il tracollo dell’immobiliare – la molla che ha scatenato la crisi, ponendo una moratoria temporanea (un paio d’anni) sulle sanzioni pecuniarie ed agli sfatti per i ritardi nei pagamenti dei ratei dei mutui. In sesto luogo, varare un programma d’assunzioni (se del caso a termine) per fare sì che il Tesoro e l’Agenzia per il TARP abbiamo il personale necessario per trattare le numerose crisi e possibili procedure fallimentari (si parla di un migliaio) di banche locali e re-istituire la Resolution Trust Corporation per facilitare transazioni e liquidazioni in caso di fallimenti bancari (specialmente delle banche locali).
Dal canto suo, l’Europa, quanto meno quella dell’unione monetaria, deve almeno estendere agli altri derivati la prassi dell’”opzione all’europea” (con esercizio del diritto di esercizio, e di compravendita, unicamente alla scadenza) ed applicarla a qualsiasi tipologia di acquisto di derivati. In terzo luogo, si devono definire procedure europee d’asta per gli acquisti di titoli che sembrano marci (e probabilmente lo sono); se ciascun Paese dell’area dell’euro segue “proprie” procedure in questa materia, sarebbe l’inizio di un (più o meno lungo) addio all’euro. In quarto luogo, la gestione dei titoli così acquistati non deve essere fatta dal Tesoro o da sue agenzie (come si vocifera) ma tramite gestori (incaricati in seguito ad asta e con regole stringenti in materia di conflitti d’interesse). In quinto luogo, la vigilanza deve essere più rigorosa e più semplice (il rigore si coniuga bene con la semplicità): unicamente nell’area dell’euro ci sono 40 autorità nazionali di vigilanza che si accavallano con quelle europee – i doppioni fanno sempre confusione. Noi in Italia non diamo certo il buon esempio. Dovremmo darci rapidamente una risistemata, chiudendo doppioni inutili ove non dannosi. Anche se ciò comporta l’abolizione di poltrone e prebende.
Soprattutto, però, è essenziale una politica di crescita. Pure se ciò vuole dire sospendere il patto di stabilità od interpretarlo in modo flessibile. Sino a quando “à nuttata è pessata”.

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