A circa 70 anni dal termine della composizione (lasciata in certi dettagli incompleta dalla morta del compositore di Leoš Janáček ha la sua prima italiana. In effetti, l’opera è già stata messa in scena un paio di volte (ricordo rappresentazioni nel 1963 alla Sagra Umbra a Perugia e nel 1968 alla Scala) ma in edizioni rimaneggiate dagli allievi dell’autore i quali pensavano che il manoscritto (era la terza stesura) fosse troppo “ruvido” per essere definitivo. Lo abbellirono (aggiungendo un finale romanticheggiante). Soltanto nel 1974, l’edizione critica (ed la registrazione di Charles Mackerras con i Wiener Philarmoniker) ha mostrato che l’originale aveva una carica innovativa da anticipare, con la sua semplicità ed integrazione con temi “popolari”, sviluppi della seconda metà del Novecento. La “prima”italiana avrebbe dovuto avere luogo alla Scala con l’edizione presentata tre anni fa al Festival di Aix en Provence (Regia: Patrice Chéreau, direzione musicale Pierre Boulez). Il Massimo di Palermo ha battuto Milano (dove l’opera arriverà forse nel 2010) mettendo in scena un allestimento co-prodotto la Welsh National Opera, Opera Nazionale del Galles (Regia: David Puuntey ; Scene e costumi: Maria Björson; Direzione musicale: Gabriele Ferro; un cast internazionale per i 23 ruoli) che, dopo una settimana di repliche in Sicilia, sarà in tournée in Europa continentale ed in repertorio in Gran Bretagna. Gran parte della critica italiana era presente il 16 ottobre, un vero e proprio nel panorama del teatro in musica.
Al pari della versione Chéreau-Boulez , i tre anni sono eseguiti senza soluzione di continuità : 90 minuti di estrema tensione (in cui c’è solo, e per pochi minuti, una voce femminile ma si devono sfoggiare varie gradazioni di tenori). Tratta dal romanzo di Dostoevskij non ha una vicenda nel senso convenzionale. Si svolge in un campo di lavoro siberiano tra l’arrivo di un intellettuale (prigioniero politico) e, alcuni mesi dopo, il suo rilascio. In parallelo, i galeotti trovano un’aquila ferita che riacquista la libertà il giorno stesso dell’intellettuale. I prigionieri sono, in gran misura, assassini, ladri, stupratori – ossia un’accozzaglia di brutali delinquenti comuni a cui si giustappongono carcerieri sadici. In questo mondo, l’intellettuale riscopre un’umanità ed una “pietas” ignota anche a lui, dissidente politico nella confortevole San Pietroburgo zarista.
L’impianto scenico cupo – il carcere è scavato in una miniera ed in superficie gli ufficiali e la borghesia siberiana ostentando falsa commiserazione per i prigionieri – accentua, da un lato, il clima ossessiva ma il sapiente gioco delle luci evidenzia “le scintille di Dio” di cui Janáček parla negli appunti scritti prima di morire e che, in un lavoro che precorre i lager nazisti ed i gulag sovietici, dovrebbe essere il tema dominante.
Gabriele Ferro ha affrontato la difficile partitura scavandone nei dettagli e mostrandone la modernità. Impossibile ricordare i numerosi interpreti (i principali sono in gran misura noti in Italia unicamente agli specialisti). Di livello il coro filarmonico di Praga chiamato ad integrare gli organici palermitani.
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