Ricorre un venticinquennale di cui, in Italia, pochi si sono accorti: l’introduzione, nei teatri d’opera, dei “sovratitotili (“surtitles”, termine brevettato nel 1983 dalla Canadìan Opera Company di Toronto). Lo si deve a Lofti Mansouri. Nato da magnanimi lombi dell’aristocrazia persiana, formato all’University of California di Los Angeles, dopo avere iniziato una carriera di cantante (ed anche d’attore cinematografico), ha trovato la propria strada maestra nella gestione di teatri (dopo Toronto, Los Angeles e San Francisco). Nel 1983, a Toronto si programmava “Elektra” di Hugo von Hofmannsthal e Richard Strauss , un ‘ora e tre quarti di estrema tensione dove parole e musica si fondono in tutt’uno. Cosa avrebbero apprezzato gli spettatori canadesi, poco usi al tedesco di von Hofmannsthal? L’idea fu semplicissima: proiettare il testo su una striscia sovrastante il palcoscenico. La recepì subito Beverly Sills allora alla guida della New York City Opera, e sempre alla ricerca di nuovi strumenti per attrarre pubblico. Si estese rapidamente a tutti i teatri del Nord America (con l’eccezione del “Met” di New York) ed ai maggiori teatri europei: a Bruxelles, a “La Monnaie”, ci sono due strisce (una destra ed una sinistra del palcoscenico) – una in fiammingo ed una in francese, ad ogni atto la lingua cambia lato. Dopo una lunga resistenza, guidata dal direttore musicale, James Levine, in persona, il “Met” ha capitolato nel 1995; al posto delle strisce sul palcoscenico, si può leggere il testo (scegliendo la lingua) sul dorso della poltrona di fonte. Ha capitolato pure “La Scala” (applicando un sistema analogo a quello del “Met”) nonostante Riccardo Muti avesse minacciato che si sarebbe dovuto marciare sul suo cadavere, prima di avere marchingegni del genere nella Sala del Piermarini.
Secondo gli oppositori, i “surtitles” distraggono il pubblico. La vasta diffusione nell’arco di un quarto di secolo dimostra che, invece, aiutano attenzione, comprensione, concentrazione. Come seguire commedie in musica quali “I maestri cantori di Norimberga” o “Il cavaliere della rosa” senza gustarne il dialogo? Adesso, i “surtitles” vengono individuati come delle cause per cui i teatri d’opera in America, Asia e gran parte d’Europa sono sempre affollati. Li adottano quasi tutti i teatri italiani; hanno probabilmente frenato l’emorragia di pubblico ma non agevolato il ricambio generazionale.
Ci riusciranno le altre innovazioni che vengono dagli Usa- adesso dalla nuova gestione del “Met” affidata a Paul Gerb? Alcune (apertura delle prove generali a studenti, proiezioni in piazza in diretta) sono già entrate nell’uso d’alcuni teatri italiani. La principale sono i “simulcasts” (la proiezione ad alta definizione, e su maxi-schermo, in diretta di alcune “prime”) in circa 600 sale cinematografiche (normalmente di lusso) negli Usa, in Australia, in Europa e Giappone (ad un prezzo medio di $ 22 a spettacolo, ma si privilegiano gli abbonamenti): nella stagione 2007-2008 del “Met” i “simulcasts” hanno attratto 920.000 spettatori in 23 Paese – una parte di loro, se andranno a New York- vorranno vedere “the real thing” dal vivo. In molte città, la serata al “simulcast” è un evento mondano: ci si veste con eleganza, si organizzano cene o prime colazioni (dipende dal fuso orario). La produzione del “simulcast” è dispendiosa: richiede un regista televisivo, 15 telecamere, una troupe di 60 tecnici. Il primo anno, il “Met” ha riportato una perdita, ma si prevede un profitto nel 2008-2009.
In Italia si è tentato qualcosa d’analogo, con una cinquantina di “microcinema” dove , per € 10 a biglietto, si sono viste ed ascoltate le serate inaugurali della Scala, del Comunale di Bologna, del Festival Verdi a Parma, e via discorrendo. Ha inaugurato il sistema nella primavera 2007 il Teatro dell’Opera di Roma con il nuovo allestimento di “Traviata” (regia di Franco Zeffirelli, direzione musicale Gianluigi Gelmetti). Esiti? Prematuro fare un bilancio. Tuttavia, non paiono comparabili a quelli dei “simulcasts” del “Met”. Per due ordini di motivi. In primo luogo, si sono scelti piccoli cinema di comuni di piccole dimensioni (spesso sale parrocchiale): in un ambiente piccolo, l’alta definizione è più facile ed un comune di campagna non fa concorrenza ai teatri. Non si crea, però, l’evento. In secondo luogo, non si sono dispiegate forze tecniche analoghe a quelle messe in campo dal “Met” con il risultato che le immagini sono più statiche. Soluzione possibile: coalizzarsi con gli altri maggiori teatri europei per migliorare sia la qualità sia la diffusione.
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