Il paragone tra stampa, su carta, e la “musa bizzarra e altera” (come l’opera lirica fu definita, accuratamente, dal musicologo Herbert Lindenberger in libro tradotto in più lingue, pure in italiano) è meno avventato di quanto pensano i lettori frettolosi de “Il Foglio”. E’ un paragone noto da decenni a quegli economisti per i quali “la triste scienza” non s’interessa solamente a problemi di crescita, di moneta e di conti pubblici. Tanto la stampa quanto la “musa bizzarra e altera” sono afflitte dalla stessa malattia – “il morbo di Baumol” – e vanno trattate più o meno con la stessa terapia.
Il “morbo” prende il nome da un economista americano, William Baumol, che lo ha teorizzato, nel lontano 1961, in un libro scritto a quattro mani con il collega Willian Bowens (“Perfoming Arts: the Economic Dilemma”). Il libro (considerato una pietra miliare nel settore) riguardava le arti sceniche e sosteneva l’esigenza economica di supporto pubblico per impedire che a noi, e soprattutto, alle prossime generazioni ne sia vietata la fruizione. Le arti sceniche – non soltanto la lirica di cui Baumol e sua moglie sono appassionati ma anche la sinfonica, la cameristica ed il teatro di prosa – sono a tecnologia fissa: ci vogliono oggi gli stessi musicisti per un quartetto di Haydn, una sinfonia di Beethoven ed l’opera considerata da Adorno come l’espressione più completa del genio occidentale (“I maestri cantori di Norinberga” di Wagner) di quanti ce ne volevano quando vennero realizzate. Non potendo, quindi, fruire della riduzione di costi di produzione connessa al progresso tecnologico perderebbero sempre più competitività e verrebbero spiazzate da muse meno bizzarre e meno altere, più tecnologiche ma meno appassionanti. Con tale spiazzamento – dice, e modellizza, Baumol – si perde il nesso con il nostro passato. Ed una parte importante di quanto si può e si deve lasciare in eredità ai nostri figli e nipoti.
Baumol non è un socialdemocratico e probabilmente neanche un “liberal”- i suoi testi profumano d’amore per il mercato. Documenta, però, come senza l’intervento pubblico, il “morbo” che da lui prende il nome comporti la morte di mal sottile della lirica, della sinfonica, della cameristica ed anche di buona parte del teatro di qualità. Si sarebbe rimasti in mondo di “vaudeville”, di “isole dei famosi”, di giochi a premio. Alla lunga anche il rock ed il pop “d’arte” (si pesi al mirabile jazz di Shostakovic) sarebbero stati contagiati e travolti. Nel 1993, Baumol è tornato sul tema con un altro librone “The Next 25 Years of Public Choice” in cui analizza come il “morbo” non riguardi solamente o principalmente le arti sceniche ma tutte le forme di produzione di servizi – come la sanità e l’istruzione- in cui c’è alta intensità di lavoro ed una forte componente relazionale (si guarisce meglio con il medico con cui c’è un rapporto umano, si apprende di più dal docente carico di empatia). Anche in questi casi , sostiene Baumol, l’intervento pubblico è essenziale perché sanità ed istruzione impartite unicamente da macchine (oggi è fattibile) non avrebbero ingredienti (la carica relazionale) tali da raggiungere gli obiettivi più veri e più profondi.
La stampa su carta ha un’altra caratteristica che la assimila alla “musa bizzarra e altera”: nascono ambedue nel Quattrocento e nel Cinquecento come espressione della civiltà occidentale e delle sue libertà. La possibilità di stampare, grazie alle invenzioni di Johannes Gutemberg, consentì alle idee della Riforma di circolare ed al savoiardo, vescovo di Ginevra, San Francesco di Sales (patrono dei giornalisti) di contrapporre “fogli”, così li chiamava, liberal-cattolici in polemica con il nascente calvinismo. In parallelo, nei teatri della Venezia oscurantista dalla controriforma (dominata dall’Inquisizione), Claudio Monteverdi e Giovanni Cavalli mettevano in scena il mondo libertario e lascivo che esisteva nelle calli e dietro i portoni dei Palazzi.
Se curiamo il “mondo di Baumol” con intervento pubblico (regolazione, finanziamenti, deduzioni e detrazioni d’imposta) è equo ed efficiente generalizzare la cura (nei limiti delle disponibilità) a tutti gli ammalati. Il filosofo John Rawls direbbe che è un obbligo perché i “beni primari” (tali che tutti gli essere raziocinanti vorrebbero fruirne) sono l’essenza del consesso civile e vanno trasmessi a chi viene dopo di noi.
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