venerdì 1 agosto 2008
GIOCONDA, CLEOPATRA .Il Foglio 1 agosto
Torna di moda il “grand-opéra” padano? Il Metropolitan di New York presenta, il 24 settembre quella “Gioconda” d’Amilcare Ponchielli che è forse stato il frutto più duraturo di questo genere di teatro in musica (la durata di “Gioconda” equilibra la breve “Salome” con cui il teatro riapre i battenti il 23 settembre). In Italia, si annunciano scampoli di “grand-opéra” padano nei cartelloni della prossima stagione. Il Festival dello Sferisterio a Macerata è stato inaugurato con la prima esecuzione in tempi moderni di “Cleopatra” di Lauro Rossi (nato nel capoluogo marchigiano anche se direttore dei conservatori di Milano e di Verdi ed uno degli esponenti, oltre che dell’opera comica italiana di fine Ottocento, proprio del “grand-opéra” padano).
In cosa consiste il genere (che ebbe notevole successo per circa tre lustri)? Si era in uno dei rari periodi in cui la “musa bizzarra ed altera” (ossia la lirica) era, in Italia, puramente commerciale con guerre tra editori (e tra teatri) alla ricerca di nuovi talenti e di nuove strade che attirassero un pubblico sempre più borghese.
Nella padania (ossia tra Torino e Bologna avendo come punto di riferimento La Scala ed il Dal Verme di Milano) nacque un genere che mutuava elementi dal “grand-opéra” francese (allora ormai superato) e dal wagnerismo (che dopo la prima italiana del “Lohengrin” nella città felsinea influiva anche sui compositori che vi si opponevano). La letteratura sul genere è stringata: un saggio fondamentale di Guido Salvetti (alla fine degli Anni 70) e lavori più recenti di Giancarlo Landini e di Antonio Caroccia. Il “grand-opéra” padano aveva alcune sue caratteristiche: intrecci complicati in terre lontane (vediamo alcuni titoli: “I Lituani” di Ponchielli , “Guarany” di Gomes, “Ruy Blas” di Marchetti, “I Goti” di Gobatti) che consentivano di coniugare ballo con canto e davano la stura a “effetti speciali” (incendi, battaglie, crolli); si completava il superamento nei “numeri chiusi” privilegiando “tableaux” con sinfonismo continuo. A questi due elementi – il primo d’origine francese, il secondo d’ispirazione wagneriana – si aggiungeva il perbenismo di un’Italia in via di diventare umbertina ed in cui la borghesia padana aveva la consapevolezza di responsabilità e doveri speciali nell’amalgamare le culture degli Statarelli su cui si costruivano le ambizioni di un nuovo Stato proteso ad entrare nel novero delle Grandi Potenze (per utilizzare il lessico dell’epoca).
La “Cleopatra” di Lauro Rossi vista ed ascoltata nella deliziosa sala dei Bibiena (un teatrino di 400 posti con tre ordini di palchi ed un loggione, incardinato nel Palazzo di Città) ha tutte le caratteristiche del grand-opéra padano. Il regista (Pier Luigi Pizzi) le evidenzia con cura nonostante l’esiguità dello spazio (l’opera era stata concepita per il Regio di Torino ed il San Carlo di Napoli). Interessante lo sviluppo drammaturgico (tratto dalla tragedia di Shakespeare, allora di repertorio in versioni molto tagliate): Cleopatra non è la donna vampiro del mito ma un’amante abbandonata che va a Roma a fare una scenata al suo Marc’Antonio in procinto di fare un matrimonio d’interessi. Sembra di essere a Piazza Barberini (od anche a Piazza Mastai) nonostante le scene in bianco e nero ed in costumi (in cui al bianco e nero si aggiungono il rosso ed il giallo oro) tratteggino l’Egitto alessandrino e la Roma sulla via di diventare Impero. Per il buon Marco D’Arenzio (autore del libretto) e per Lauro Rossi, però, il mondo di riferimento è quello di “Come le foglie” e “Tristi amori” di Giuseppe Giocosa. L’Egitto e Roma servono per le danze (al primo atto mentre il “grand-opéra” francese le vietava prima del secondo) e come spunto per una partitura maestosa. La protagonista (a Macerata, l’applauditissima Dimitra Theodossiou) ha una vocalità Falcon a metà tra soprano drammatico e mezzo-soprano, è anche quella della borghese tradita, inalberata e proto-femminista (una “Nora” in sedicesimo ed in ambientazione esotica). Travolto in Italia sia dal verismo sia dai tentativi di teatro in musica favolistica, ha avuto per diversi lustri successo nelle Americhe (dove ad esempio Gomes e Marchetti sono rappresentati abbastanza spesso). Si riallaccia al “grand-opéra” padano il compositore napoletano, ma di cultura parigina – milanese (e critico musicale dell’Osservatore Romano), Antonio Braga: “1492, epopea lirica d’America”, una commissione dell’Opera di Santo Domingo per i 500 anni dalla scoperta dell’America, ancora spesso in scena oltreoceano riflette stilemi e convenzioni del “grand opéra” padano.
E’ interessante notare come drammaturgia e musica rispecchiano il perbenismo dell’Italia appena divenuta uno Stato nazionale. “Cleopatra”, da questo punto di vista, è molto più eloquente dell’ironico “Il Domino Nero”, sempre di Lauro Rossi, riesumato a Jesi nell’autunno 2001.
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