Micheal Hampe è uno di quei rari registi tedeschi che seguono i libretti alla lettera, amano i dettagli, sanno fare recitare i cantanti. In Italia, il suo “Così fan tutte” per La Scala di circa vent’anni fa ha fatto epoca ed è stato ripreso più volte (dal Carlo Felice di Genova nel 2006). Meno noto il suo “Der Rosenkavalier” per il San Carlo nel 1993, uno spettacolo sontuoso da non fare invidia a quello che da quarant’anni si replica a Vienna. Al Rof aveva presentato nel 1989 una “Gazza Ladra” accusata di essere troppo tradizionale ma in cui la vicenda scorreva ed era comprensibilissima a tutti gli spettori.
Avere affidato a Hampe la regia di “Maometto Secondo” è stato un colpo di genio da parte della direzione artistica del Rof. L’opera, infatti, può essere un fin troppo facile pretesto per attualizzare la vicenda ai giorni nostri, portarla nelle guerre balcaniche, caucasiche o medio-orientali. Intingerla in molto più sangue di quanto non sia prevista nel buon libretto di Cesare Della Valle. La vicenda, infatti, tratta del “fanatismo” (è il titolo della tragedia di Voltaire da cui l’opera è tratta) dei mussulmani nella guerra santa per conquistare l’occidente. Un “fanatismo” che dilania Maemetto Secondo, il conquistatore di Constantinopoli, della Crimea, della Bosnia e dell’Albania, pur innamorato di una giovane ed intrepida veneziana che ha incontrato, anni prima, in un viaggio in cui era mascherato da greco. Al centro vi è lo scontro tra due civiltà, che non possono comunicare.
Hampe rinuncia a facili sotterfugi. Ispira il visivo alla pittura del Settecento e dell’Ottocento, fa disegnare splendidi costumi, cura la recitazione dei cantanti (come dimentica l’ultimo bacio tra Maometto e Anna che si è tolta la vita per difendere i cristiani?). Uno spettacolo, quindi, molto bello e perfettamente in linea con la direzione musicale di Gustav Kuhn. Spettacolo premiato non solo dagli applausi del pubblico ma anche dalla decisione di uno dei maggiori impresari giapponesi di organizzare una tournèe nell’Impero del Sol Levante – l’”esportar cantando” è uno degli strumenti più efficaci per diffondere il “made in Italy” nel mondo – e del teatro di Brema (che lo ha co-prodotto) di metterlo in repertorio.
La tradizione, quando è buona e solida, è innovazione. E, quel che più conta, paga.
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