Su “Il Sole-24 Ore” del 7 agosto, il Consigliere d’Amministrazione RAI Sandro Curzi suggerisce che la Rai diventi una public company ad azionariato diffuso come unico rimedio per uscire dall’attuale impasse. Non è una missione impossibile. Anzè è percorso fattibile ed auspicabile che ho suggerito un anno fa su “Il Domenicale” e più recentemente nel “Sesto Rapporto di Società Libera sulla Liberalizzazione della Società Italiana”. Nella quadro attuale di conti in bilico e profonde liti interne a tutti i livelli, si potrebbe pensare che la Rai avrebbe difficoltà a trovare altri acquirenti che non fossero la Croce Rossa, la Comunità di Sant’Egidio, la Caritas o simili (sempre che la avessero a prezzo zero e con mani libere nel rimettere in sesto ciò che resta di un’azienda per decenni in monopolio e desiderosa di tornare ad essere tale)
Una via, tuttavia, c’è.. Occorre utilizzare immaginazione, esperienza e fegato. Il primo passo può sembrare bizzarro: collegare la privatizzazione della Rai alla nascita di una vera previdenza complementare per gli italiani. Il secondo consiste nel renderla una vera public company C’è un precedente importante: il modo in cui sono state realizzate le privatizzazioni ed i fondi pensioni in Bolivia negli Anni Novanta, seguendo i suggerimenti di Steve H. Hanke, Direttore del Centro di Economia Applicata della Università Johns Hopkins di Baltimore e Senior Fellow del Cato Institute.
In pratica, ciò vuol dire dare azioni Rai a tutti gli italiani. Seguendo quale metodo? Uno semplicissimo: l’età anagrafica, quanto più si è anziani tanto più si è pagato il canone (e ci si è sorbiti Santoro, Baudo e quant’altro), avendo, dunque, titolo ad un risarcimento con azioni da impiegare per la tarda età. Le azioni sarebbero vincolate per un lasso di tempo – ad esempio, cinque anni – a non essere poste sul mercato ma ad essere destinate ad un fondo pensione aperto (ed ad ampia portabilità) a scelta dell’interessato il quale, però, manterrebbe tutti i diritti (elezione degli organi di governo, vigilanza sul loro operato, definizione dei loro emolumenti) di un azionista (in base alle azioni di cui è titolare sin dal primo giorno). Gli azionisti deciderebbero se scorporare le reti. Unica regola: applicazione delle stesse norme contabili che si applicano al resto dell’universo delle s.p.a. (con fallimento e liquidazione se i consuntivi vanno da profondo rosso a profondo rosso ed i debiti diventano non sostenibili) Il management dell’intera Rai (o di una rete) che non ci riesce sarebbe passabile di azione di responsabilità e, ai sensi della normativa societaria in vigore, se l’indebitamento supera certi parametri la liquidazione diventerebbe obbligatoria.
Ed il “servizio pubblico”? Nell’età della rete delle reti, ci bada Internet: già adesso tutti i dicasteri, le Regioni, le Province, i Comuni, le Comunità Montane dispongono di siti interattivi. I siti di informazione e contro-informazione pullulano – tanto generalisti quanto specializzati. Non siamo più ai tempi dell’Eiar , anche se il Partito Rai vorrebbe tornare al passato, come la protagonista del film “Good bye, Lenin”.
E la cultura? In primo luogo, pensiamo che gli italiani siano meno imbecilli di chi compila gli attuali palinsesti: una Rai che risponde al popolo azionista proporrà più cultura dell’attuale (come dimostrano gli abbonamenti a canali culturali digitali). In secondo, si potrebbe prevedere agevolazioni tributarie per gli sponsor.
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