“A’ Dottò!” risuona in molte “commedie all’italiana”. Il titolo di “dottore” (nel senso di laureato) pare non si neghi a nessuno. Già 50 anni fa, era considerato un “pezzo di carta” privo di significato sostanziale, ma essenziale per potere accedere a varie categorie d’impiego (non solo nel settore pubblico) e come tale “protetto” con una batteria di sanzioni nei confronti di chi se ne fregia senza che gli è stato conferito.
Il contrasto tra autonomia e libertà accademica, da un lato, e il “valore legale” del titolo di studio è antico: “valore legale” implica conformarsi a programmi definiti in via amministrativa. Storicamente, in Francia e Germania (rari Paesi che, come l’Italia, conferiscono tale “valore legale”) è stato lo strumento per consentire al Principe di mettere le mani sull’università. Lo Stato Sabaudo lo mutuò dalla Francia e lo estese all’Italia in via di unificazione al fine di controllore (ed uniformare) istruzione superiore spesso offerta da ordini religiosi. In gran parte del mondo, è in vigore un sistema d’accreditamento (per assicurare che le università abbiano standard minimi di strutture e docenza) ma il valore dei titoli è dato dal mercato. Nel 1973, il Premio Nobel Michael Spence dimostrò come il titolo di studio è segnale utilissimo : i datori di lavoro sono agevolati nelle loro scelte differenziando tra titoli di valore (conferiti da buone università) e titoli-bidone (conferiti da università mediocri). In tal modo, si riducono i costi di selezione del personale con vantaggio per tutti.
La proposta di Mariastella Gelmini di abolire il “valore legale” si situa in un contesto in cui le tutele per i “dottori” ci stanno allontanando sempre più dal resto d’Europa e dei Paesi Ocse. Non soltanto la Convenzione di Lisbona (ratificata nel 2002) comporta il riconoscimento automatico dei titoli di studio conferiti da altri Paesi Ue (in gran parte dei quali non esiste il “valore legale”) ma anche Francia e Germania stanno abbandonando questo mezzo di controllo (politico e burocratico) sulle università. In Francia, ormai i titoli che contano (sul mercato del lavoro) sono rilasciati dalle “grandes écoles” non dalle università; l’intero sistema è in fase di riforma. In Germania, l’unificazione ha accelerato un processo in atto, nei Länder occidentale, sin dal dopoguerra.
Tuttavia, non basta cancellare il “valore legale” con un colpo di spugna. Ne risulterebbe non una sana concorrenza tra università alla ricerca dei migliori studiosi, dei migliori docenti e dei migliori allievi, ma un vero e proprio proliferare di simil-università a carattere commerciale. Occorre non solo un sistema forte d’accreditamento (quale in atto nei Paesi che non danno alcun “valore legale” ai titoli di studio) ma anche un potenziamento degli strumenti di valutazione esistenti ed una loro maggiore divulgazione in modo che i “clienti” (studenti e famiglie) possano fare scelte informate.
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