martedì 2 settembre 2008

CARI MINISTRI ECONOMICI, GUARDATE ALLA FRANCIA, Libero 2 settembre

Il programma triennale approvato dal Parlamento all’inizio d’agosto pone enfasi sull’investimento pubblico (specialmente in infrastrutture) come strumento per rimettere in moto l’Italia, nel breve periodo, e aumentare, nel medio e lungo, la produttività pure dell’investimento privato e dei fattori di produzione in generale. Sono obiettivi condivisibili, soprattutto a ragione della qualità delle infrastrutture italiane (riconosciuta inadeguata in tutta la documentazione Ue) e della riduzione della spesa pubblica in conto capitale effettuata nel 1996-2001 e, di nuovo, nel 2006-2007. Sono temi anche d’immediata attualità; ad esempio, nel vagliare il programma di riassetto per Alitalia ed AirOne le autorità europee dovranno valutare quali sono le alternative realisticamente fattibili perché l’Italia mantenga un’infrastruttura all’altezza nel campo del trasporto aereo. Domande analoghe si pongono rispetto al Ponte sullo Stretto di Messina e sull’apporto pubblico al miglioramento delle reti di comunicazione sia fisica sia telematica (ad esempio, banda larga).
L’Italia – come molti altri Paesi europei (la Francia è la principale eccezione) – è stata piuttosto carente di studi retrospettivi sia sui rendimenti dell’investimento pubblico sia sugli effetti di spiazzamento (crowding out, nel lessico degli economisti) rispetto al potenziale investimento privato (l’investimento pubblico richiede gettito fiscale od indebitamento pubblico, riducendo le risorse disponibili per i privati) sia sugli effetti, invece, di attrazione (crowing in) del privato (fornendo le strutture di base). Ci sono stati numerosi studi sul crowding out della spesa pubblica negli Anni 70 ed 80; tali studi hanno, però, riguardato in gran parte gli aspetti macro-economici generali (senza differenziare tra spesa di parte corrente e spesa in conto capitale). Che io sappia c’è stato un unico studio empirico della produttività marginale dell’investimento pubblico: quello di Maurizio Tenenbaum dell’Università La Sapienza di Roma, condotto all’inizio degli Anni 80 su incarico del Ministero del Bilancio, e, in seguito, pubblicato dalla casa editrice Il Mulino. Fuori catalogo da anni, il saggio esaminava l’investimento pubblico nel periodo 1950-80 con metodo aggregato e concludeva che la spesa pubblica in conto capitale aveva una produttività-marginale dell’8-12% - parametro utilizzato per lustri come riferimento (ad esempio, come tasso di attualizzazione) nella valutazione di piani e progetti. Occorre tenere presente che il periodo analizzato da Tenenbaum copre in larga misura gli anni del “miracolo economico” (1959-1958) quando, secondo analisi di Charles Kindleberger e Ferenc Janossy (due numi del pensiero economico, uno liberista ed uno marxista, distinti e distanti dalle nostre beghe) l’investimento pubblico (e quello privato) in Italia avevano rendimenti particolarmente elevati in quanto attivavano l’utilizzazione di capitale umano potenzialmente molto ben addestrato e molto produttivo, ma costretto ad una relativa improduttività dal 1936 (guerra d’Africa) alla fine della seconda guerra mondiale.
Di recente Il servizio studi della Banca europea degli investimenti ha completato un’analisi (Antonio Afonso e Miguel St Aubyn “Macro-economic rates of returns of public and private investment – Crowding- in and crowing-out effects” Ebc Working Paper n. 864) che merita di essere meditata non tanto in Banca d’Italia (dove studi di questa natura trovano il maggior numero di lettori) quanto nei Ministeri dell’Economia e delle Finanze, dello Sviluppo Economico e delle Infrastrutture. E’, infatti, nonostante il lessico tecnico, ricca di lezioni operative.
In primo luogo, lo studio riguarda il periodo 1960-2005 – sui suoi risultati, dunque, l’eccezionalità del “miracolo economico” conta relativamente poco ma pesano molto più periodi meno entusiasmanti di quella che i giornalisti chiamano la Prima Repubblica. In secondo luogo, è un’analisi comparata che include 14 Paesi dell’Ue, il Canada, Giappone e Stati Uniti. In terzo luogo, utilizza una metodologia VAR (una tecnica econometrica per esaminare serie storiche da non confondere con VaR – Value at Risk una tecnica finanziaria per quantizzare valorizzazioni di titoli tenendo conto dell’elemento di rischio) sviluppata, in applicazioni operative, a partire dalla metà degli Anni 90. Quindi, il lavoro ha un contenuto informativo molto più aggiornato e molto più utile di quello condotto all’inizio degli Anni 80.
Vediamo, in linguaggio non tecnico, quali sono le conclusioni principali dello studio e quali le implicazioni per l’Italia. Innanzitutto, nel lungo periodo di tempo considerato, l’investimento pubblico ha contratto quello privato (crowding-out) in Belgio, Irlanda, Canada, Regno Unito e Paesi Bassi. Ha invece dato un impulso attivo agli investimenti privati (crowding-.in ) in Austria, Danimarca, Germania, Grecia, Portogallo, Spagna e Svezia.
L’Italia è l’unico Paese per il quale, con i dati disponibili, non risulta che l’investimento pubblico abbia spiazzato od attivato investimento privato. Un effetto “neutro”? Non esattamente. L’analisi entra anche nei tassi di rendimenti medi (tanto “parziali”, quindi del solo investimento pubblico, quanto “totali”, computando anche l’investimento privato attivato dalla mano pubblica). In Italia, Finlandia, Giappone e Svezia, i tassi di rendimento “parziali” dell’investimento pubblico sono negativi. Il quadro cambia se si guarda ai tassi di rendimento “totali”; il tasso dei rendimenti privati diventa più basso se associato generalmente in tutti i Paesi (la sola eccezione è la Francia) e diventa addirittura negativo in Austria, Finlandia, Grecia, Portogallo e Svezia. Questa seconda conclusione mette l’investimento pubblico in Italia in luce migliore di quanto non lo faccia la prima.
Ci sono implicazioni operative? Certo. Lo studio non spiega le ragioni dell’”eccezione francese”; non era suo obiettivo trattandosi di un’analisi econometrica non istituzionale od amministrativa.
Una spiegazione possibile è negli effetti di lungo periodo del “programma di razionalizzazione delle scelte di bilancio” per diversi anni in vigore Oltralpe. Non solamente ai Ministeri si richiedeva di effettuare analisi sia dei costi sia dei benefici sia degli effetti dell’investimento pubblico di rispettiva competenza ma una rivista semestrale de “La Documentation Française” ne pubblicava le migliori ed incoraggiava il dibattito. Negli Anni 90, ho riprodotto alcuni di questi studi nel libro “Tecniche di valutazione degli investimenti pubblici”. La prassi stimolava le amministrazioni non solamente a condurre analisi “degne di pubblicazioni” ma le metteva in competizione ed a confronto. In Italia una norma del 1999 (circa dieci anni fa) ha previsto appositi nuclei di valutazione verifica dell’investimento pubblico in tutte le amministrazioni. Non solo è stata applicata parzialmente ma ha spesso prevalso un approccio socio-organizzativo privo del necessario rigore economico e finanziario (tipico, carte alla mano, dell’esperienza e dell’eccezione francese).
E’ tema su cui i Ministri Matteoli, Scajola e Tremonti (l’ordine è meramente alfabetico) dovrebbero riflettere. Forse, l’iniziativa potrebbe essere presa dal Ministro Brunetta non solamente in quanto fuori dalla mischia (i suoi uffici non gestiscono i maggiori investimenti pubblici) ma anche in quanto la normativa del 1999 (un po’ inapplicata ed un po’ malapplicata) fu frutto dell’iniziativa di uno dei suoi predecessori a Palazzo Vidoni.
E’ tema cruciale per il presente ed il futuro del Paese: “Libero Mercato” si impegna, di fronte ai suoi lettori, di continuare a seguirlo con attenzione.

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