martedì 2 settembre 2008

QUALE E’ IL VERO PROBLEMA DELLA TRATTATIVA SINDACALE SU ALITALIA, L'Occidentale 2 settembre

E’ iniziata ieri una complessa trattativa sindacale sul futuro dell’Alitalia. L’Esecutivo ha posto l’accento sull’esigenza di chiuderla al più presto, se possibile entro i prossimi dieci giorni, poiché la liquidità in cassa è così limitata che si rischia di dover mettere gli aerei a terra ed iniziare una procedura fallimentare. Per gravi che siano questi aspetti, la trattativa ha dimensioni anche più profonde di politica pubblica, Esse non riguardano unicamente il futuro di Alitalia. Il negoziato è uno dei prima banchi concreti di prova (l’altro sarà la revisione della contrattazione collettiva) di cosa si debba, e si possa, intendere per “economia sociale di mercato” in questo primo scorcio di XXI secolo. E’ un termine menzionato spesso a proposito della politica economica di lungo periodo del Governo tesa a coniugare le libertà di mercato con la mobilità sociale e la tutela delle fasce più deboli della popolazione. Se i suoi contenuti non sono esplicitati (e non se ne vedono applicazione concrete), il termine rischia di restare uno slogan confuso e disorientante come lo è, da anni, la locuzione “compassionate capitalism”, coniata negli Usa.
Forse pochi di coloro che parlano di “capitalismo sociale di mercato” ricordano che questo approccio alla politica economica trae origine dall'Ordoliberalismo della Scuola di Friburgo di Walter Eucken, durante la crisi della Repubblica di Weimar. L’Ordoliberalismo già riconosceva la necessità di un controllo, però decisamente non dirigista, dello Stato nei confronti del sistema economico capitalista. Chi elabora per primo una vera e propria teoria dell’economia sociale di mercato è Wilhelm Röpke (1899-1966). Röpke propone una "terza via" tra liberalismo e collettivismo, in cui lo stato svolge una funzione garantista nei confronti del libero mercato. , ed è consapevole della necessità di una profonda revisione delle regole che "monopolizzano" il sistema economico. La “terza via” – occorre ricordarlo – è stata rilanciata, nel pensiero socio-economico occidentale, nella seconda metà degli Anni Novanta dal politologo Anthony Giddens, consigliere di Tony Blair , e diventò , per una breve stagione, una delle architravi di quello che, secondo Romano Prodi, sarebbe dovuto essere “l’Ulivo Mondiale” (per promuovere il quale si celebrò anche un curioso “vertice” a Firenze).

In precedenza, la letteratura sulla “terza via” (l’etichetta era proprio quella) aveva avuto una buona diffusione non solamente in Germania (dove dai tempi di Bismarck si è sempre cercato di trovare un equilibrio tra intervento statale, più precisamente imperiale, e mercato) ma aveva anche pullulato nel periodo tra il 1945 ed il 1965, ad opera in gran misura di socio-economisti indiani (quali Partha Dasgupta) e di intellettuali africani (Nyerere, Sénghor, Kaunda) che, all’indomani dell’accesso all’indipendenza, assumevano responsabilità di governo. Aveva affascinato pure “political economists” europei ed americani (Myrdal, Scitovsky, Hirschman). Già allora non era una scuola di pensiero, non un’ideologia; era a metà strada tra una spiegazione ed un pretesto per razionalizzare l’intervento pubblico nella produzione di beni giudicati “d’interesse sociale”, distinguendosi nettamente da quella programmazione centralizzata. Dalla metà degli Anni 60, anche la spiegazione ed il pretesto hanno perso lustro: inizia la lunga fase della “crisis in planning” – si rileggano il brillante saggio giovanile del Premio Nobel Amartya Sen -; la “terza via” viene abbandonata quasi con imbarazzo proprio in quell’India che aveva tentato di teorizzarla – si mediti sull’analisi impietosa fattane da Deepak Lal ; in Africa diventa, invece, veicolo per Governi “patrimoniali” (che si appropriano, tramite la “terza via”, dei beni di tutti). La “terza via” non è nuova, ma vecchia e ha già fallito. Occorre tenerlo ben presente quando si parla di “un’economia sociale di mercato” adatta alle esigenze di un’Italia in trasformazione in questo primo scorcio di XXI secolo.
Il rebus consiste nel trovare un punto d’equilibrio tra intervento pubblico, da un lato, ed integrazione economica internazionale, dall’altro. La trattativa tra il Governo ed i sindacati è un test particolarmente eloquente perché il punto d’equilibrio è, al tempo stesso, stretto e “dinamico” (nel senso di un “equilibrio di Nash”- il protagonista dl film di alcuni anni fa “A Beautiful Mind”). E’ stretto perché deve tenere conto sia delle esigenze delle fasce più disagiate (e con maggiori difficoltà a trovare un’occupazione alternativa o ad essere avviati al pensionamento), dei vincoli della finanza pubblica (particolarmente severi perché siamo alle prese di ammortizzatori sociali finanziati dall’erario non da contributi delle imprese e dei lavoratori), delle regole e prassi europee. E’ “dinamico” perché le sue specifiche dipendono alle azioni e reazioni, nel tempo, dei soggetti coinvolti.
La strategia corretta sarebbe quella del “maximin” (nel lessico di “ Una Teoria della Giustizia” di John Rawls): massimizzazione i vantaggi dei più disagiati e fare funzionare il mercato per le altre fasce di reddito. E’ questa probabilmente la strategia del Governo – diversi Ministri saranno al tavolo della trattativa. Se avrà successo, potrà diventare un tassello importante di un’”economia sociale di mercato” per il XXI secolo ancorata a liberalismo (Rawls è stato uno dei maggiori esponenti del pensiero liberale del XX secolo) ma rivolta a giustizia sociale. Dalle dichiarazioni di leader sindacali alla vigilia del negoziato non sembra, però, che un’”economia sociale di mercato” rawlsiana” (liberale ma attenta ai più deboli) sia condivisa. Si avvertono troppi rigurgiti corporativi da parte di quelli che sono, o si ritengono ancora, i più forti. Tali rigurgiti potrebbero fare saltare non soltanto la trattativa (con implicazioni molte serie per ciò che resta di Alitalia) ma anche il disegno complessivo sottostante una politica economica per molti aspetti ancora in via di formazione.

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