ROSSI “Cleopatra” melodramma in quattro atti di Marco D’Arenzio. D.Theodosiou, T. Carraro, P. Gardina, A. Liberatore, P. Pecchioli, S. Catana, W. Corrò, G. Medici- Prima ballerina A. Toromani – Regia Scene e Costumi Pier Luigi Pizzi. Coreografie Gheorghe Iancu, Direzione musicale David Crescenzi. Fondazione Orchestra Regionale delle Marche. Coro Lirico Marchigiano “Vincenzo Bellini”. Complesso di palcoscenico di banda “Salvadei”.
Macerata, Teatro Lauro Rossi 24 luglio
La prima rappresentazione in tempi moderni di “Cleopatra” di Lauro Rossi rappresenta un evento importante. Il lavoro è un esempio di quel “grand-opéra” padano (per distinguerlo dal progenitore francese) che ebbe notevole fortuna in Italia nella seconda metà del XIX secolo e di cui soltanto poche opere (“Aida” e “La Gioconda” in primo luogo) sono rimaste nei programmi delle nostre “stagioni”. Ha, invece, ancora una certa fortuna all’estero (si pensi alle opere di Gomes e Marchetti, frequentemente nei cartelloni delle Americhe). Si distingue dal “grand-opéra”francese per diversi aspetti. La drammaturgia rispecchia il perbenismo un po’ bigotto degli anni in cui si faceva l’unità degli italiani, mentre nel “grand opéra” francese si respira l’aria licenziosa e lasciva del Secondo Impero e della Terza Repubblica. Le convenzioni musicali sono differenti: la struttura è in quattro atti ed in grandi “tableaux” musicali (con un sinfonismo continuo di marca wagneriana), diminuiscono i “numeri chiusi”, il balletto è presente anche al primo atto (anatema all’Opéra, come sperimentò Wagner con l’edizione parigina del “Tannhäuser”). Nonostante queste differenze, la base è il senso del maestoso nell’organico orchestrale (spesso una seconda orchestra od una banda è in scena o nel retro palcoscenico), ed in quello corale (sovente si richiede un doppio coro), nella ricchezza delle voci (sovente cinque protagonisti: soprano, mezzo, tenore, baritono, basso). Lauro Rossi, nato a Macerata e direttore dei Conservatori di Milano e San Pietro a Majella, compose una trentina d’opere e si cimentò, con successo, anche in questo genere.
Riascoltata dopo circa 130 anni, nell’edizioni critica approntata da Bernardo Ticci, “Cleopatra” appare come un’opera interessante con momenti diseguali (ad serratissimo terzo atto corrispondono momenti piuttosto convenzionali, e pure un po’ stanchi, negli altri) ed una buona tenuta drammaturgica complessiva. E’ lavoro che potrebbe curiosamente trovare spazio più che nei cartelloni italiani in quelli di teatri come la New York City Opera o della School of Music dell’Indiana University oppure ancora lo Hartke Theatre di Washington, votati alle riscoperte ed renderle accattivanti al grande pubblico. La “Cleopatra” di Rossi è – come quella di Barber- tratta dal dramma storico di Shakespeare, ma- attenzione!- non ha nulla d’erotico o sensuale; a differenza delle Cleopatre di Hasse e Händel, al limite del libidinoso, la regina egiziana è un’amante abbandonata (molto borghese) che va a riprendersi il proprio Marc’Antonio a Roma, scatenando la tragedia finale.
Nell’elegante Teatro Lauro Rossi (una piccola di 400 posti ideata dai fratelli Bibiena), Pier Luigi Pizzi crea, con pochi mezzi, il “grand opéra”: colori essenziali – bianco, nero, rosso e oro-, una scena fissa che di volta in volta diventa palazzo di Alessandria, Foro di Roma, spiaggia da dove si vede la battaglia di Azio e Mausoleo di Tolomeo. Una regìa che merita un encomio. Meritevole anche David Crescenzi, chiamato all’ultimo minuto a sostituire il collega designato alla direzione musicale. In pochi giorni, Crescenzi ha dovuto imparare una partitura non eseguita dal 1878 e darne una lettura disciplinata (tenendo a bada gli effetti “bandistici”). Degno di lode il coro, sempre importante nei grand-opéra padani.
Tra le voci primeggia Dimitra Theodossiou; il ruolo richiede una vocalità “Falcon” (ai limiti tra soprano drammatico e mezzo soprano), coniugata con grande agilità. Eccelle nel secondo e terzo atto, nonché nel finale dell’opera, Raggiunge tonalità altissime (ed anche piuttosto basse) senza fare percepire, agli ascoltatori, alcuno sforzo Una Cleopatra dolente (splendido il suo “mi naturale”) più che sensuale particolarmente efficace nei confronti-scontri con Sebastan Catan (il suo antico amante Diomede, un baritono di stampo “verdiano”) e Ottavio Cesare (Paolo Pecchioli, un giovane basso da tenere d’occhio). In confronto con questi tre elementi centrali, il Marc’Antonio d’Alessandro Liberatore appare sbiadito: non è un tenore lirico spinto (come richiesto dalla partitura) e (dopo un buon inizio nel duetto del primo atto) ha avuto più di un problema di emissione nel terzo e soprattutto nel quarto atto. Brava Tiziana Carraro (ma il ruolo è relativamente modesto).Efficaci gli altri.
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