domenica 7 settembre 2008

ECCO FINKIELTRAUT CONTRO LE DISUMANE “GUERRE ETNICHE” Il Domenicale 6 settembre

Quando apparve, per i tipi di Gallimard, nell’ormai lontano 1987, in Italia se ne accorsero in pochi – la piccola pattuglia di liberal socialisti che alimentava “MondOperaio”. Non ricevette neanche un rigo di commento né sulle riviste vicine al Pci – “Politica ed Economia”, “Rinascita”- né nel settimanale del Pli- “L’Opinione”. Adesso la ri-pubblicazione , in edizione tascabile, di “La Défaite de la Pensée” (“La disfatta del pensiero”) di Alain Finkielkraut ha accesso un animato dibattito in Francia. Meriterebbero di diventare la molla per un dibattito analogo in Italia. Allora – sono passati poco più di venti anni – altri due saggi su argomenti simili sono stati discussi da un manipolo di liberal-socialisti (ed ignorati sia dai marxisti sia da liberal-liberisti): “Eloge des Intellectuels” del più noto (a ragione dell’intesa attività pubblicistica) Bernard-Henry Lévy e “The Closing of American Mind” di Allan Bloom. I tre volumi, apparsi quasi simultaneamente, trattano del significato di cultura nella società a cavallo tra la fine del XX e l’inizio del XIX secolo. La loro matrice comune è l’attacco frontale al relativismo culturale imperante da quando, nel 1951, Claude Lévi-Strauss con “Race et Histoire” (prontamente fatto proprio e dal pensiero marxista e da alcune frange di quello liberal-radicale) ha accusato l’Europa di etnocentrismo culturale.
Finkielkraut, figlio di differenti “culture” (da quella polacca a quella ebraica a quella francese), afferma, invece, che esiste una cultura sola che possa avere un carattere universale: quella che coniuga azione con pensiero razionale – in essenza quella che ha le proprie fondamenta nell’illuminismo. Le altre forme, per Finkielkraut, non sono cultura perché contemplano, ed a volte, esaltano azioni ed attività “in cui il pensiero razionale è assente”. Non c’è, quindi, Finkielkraut per spazio per relativismo culturale. Sulla stessa linea, ma con toni più smussati, Bernard-Henry Lévy (uno dei caposcuola, alla fine degli Anni 70, dei “nouveaux philosophes” francesi nettamente anti-marxisti) e, ma con accenti fortemente americani, Allan Bloom.
Il filo conduttore del pensiero di Finkielkraut, allora paragonato (da alcuni) a Hannah Arendt, è particolarmente attuale. Prende l’avvio, infatti, non da un ragionamento teorico ma dalla contrapposizione di due concetti di “Nazione” che si sono confrontati nel XIX secolo e che si confrontano ancora di più oggi: la “Nazione” etnica (il Volkgeist tedesco) e la “Nazione” elettiva (di impronta illuministica). Nella visione etnica, gli individui sono emanazione del Volkgeist (nelle sue varie forme storiche e geografiche). In quella elettiva, gli individui sono protagonisti associati volontariamente tra di loro. Per Finkielkraut, il pensiero raziocinante si coniuga all’azione solamente nella “Nazione” elettiva; anzi, ne costituisce il fondamento culturale. Non solo ma ogni volta che la “Nazione” etnica ha avuto il sopravvento su quella elettiva, l’Europa ha fatto passi indietro. Nel 1987, Finkielkraut vedeva, nel relativismo culturale strisciante, l’inizio di un nuovo “tradimento dei chierici” (quale quello descritto, lustri prima, da Julien Benda) che avrebbe portato alla “disfatta del pensiero” (liberale) ed al gran bazar delle diversità culturali, tutte considerate equivalenti, anche quando non basano l’azione sul pensiero razionale. Per Finkielkraut si tratta di “barbarie” non di cultura.
Nel 1987, l’Europa (e l’Italia) avevano contezza del concetto di “Nazioni” etniche ma non di conflitti interni e di guerre vere e proprie su basi “etniche”. Uno dei problemi centrali di politica interna dell’Europa (e dell’Italia) di oggi è come integrare nella “cultura” della “Nazione” elettiva gruppi etnici che , per dirla con Finkielkraut, la disconoscono. Uno dei nodi chiave di politica internazionale è come arrestare le guerre tra “Nazioni” etniche che in pieno relativismo non riconoscono l’una la “cultura” delle altre. Finkielkraut direbbe che non possono riconoscerle perché di cultura ne esiste una sola ed universale: quella illuministica che ha al suo centro l’individuo ed il suo libero arbitrio. Una cultura meno distante da quella cristiana di quanto non pensavano i giacobini (che dell’illuminismo avevano ripudiato la matrice medesima).

Alain Finkielkraut “La Défaite de la Pensée”, Gallimard, In-folio pp. 178 € 5,30

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