sabato 20 settembre 2008

IN CINA LA SCELTA FEDERALE MIGLIORERA’ LA PRODUTTIVITA' Libero 20 settembre

E’ una banalità dire, come si affrettano a fare tutti in questi giorni, che ciò che conta non è tanto il disegno di legge sul federalismo quanto i decreti delegati che verranno promulgati nei due anni dopo la sua approvazione da parte del Parlamento. Il diavolo – afferma un proverbio inglese – sta nei dettagli. E’ meno banale, però, documentarlo. E, nel contempo, documentare che il federalismo non è necessariamente connaturato alla democrazia oppure strumento per rafforzarla –come sostengono da sempre i federalisti ed ha ribadito nove mesi fa Robert Inman dell’Università di Pennsylvania in un saggio molto ricco sui valori del federalismo (con pertinente rassegna della letteratura- CESifo Economic Studies Vol. 54 , inman@wharton.upenn.edu , per avere copia del lavoro od ingaggiare un dibattito telematico con l’autore).
Veniamo, in primo luogo, alla seconda affermazione (interazione tra federalismo e democrazia). Sean Michael Dougherty (sean.dougherty@oecd.org) del servizio studi economico dell’Ocse (quindi, non un ricercatore a titolo personale) e Robert H. McGukin hanno pubblicato, in uno degli ultimi fascicoli del periodico “Management and Organization Review, Vol 4, N. 1, pp. 39-61) uno straordinario (nel senso etimologico di fuori dall’ordinario) studio empirico sugli effetti del federalismo sulla produttività delle imprese nella Repubblica Popolare Cinese (Paese che non è democratico e non aspira ad essere considerato tale – come provano le recenti Olimpiadi). L’analisi riguarda 23.000 aziende e copre il periodo 1995-2005 (quello in cui si è passati da decentramento a federalismo fiscale ed economico). Vengono utilizzati micro-dati di contabilità aziendale ed un apparato statistico imponente. Lo studio afferma che con il federalismo è migliorata la performance delle azione collettive, di quelle gestite direttamente dallo Stato (nelle sue varie articolazioni centrali e provinciali) e di quelle a proprietà mista (pubblica e privata). Gli autori concludono che l’analisi conferma il lavoro teorico sui Paesi in transizione (dal piano al mercato) anche europei. Rappresenta, in ogni caso, un’arma potente per coloro che sostengono la necessità (e la priorità) del federalismo fiscale. C’è , comunque, un “se” ed un “ma”. L’analisi di Dougherty e McGukin premette che il federalismo della Cina comunista è stato congegnato bene, nel senso che guarda alle imprese ed alla loro produttività.
Veniamo quindi al diavolo che si nasconde nei dettagli. Un lavoro ancora inedito di Lorenz Blume (blume@wirstschaft.uni-kassel.de) dell’Università di Kassel e di Stefan Voight (voigt@wiwi-margurb.de) dell’Università del Margurb fa le bucce al federalismo “made in the Federal Rebuplic of Germay”- ossia in Germania (il lavoro è in inglese e gli autori lo inviano per osservazioni a chi lo richiede). Analizza criticamente gli indicatori utilizzati più frequentemente per “valutare” questa o quella tipologia di federalismo – vere e proprie batterie di indici resi spesso promossi dalla Commissione Europea ed applicati, in Italia, dai seguaci di Robert Putman (e dei suoi lavori sulle differenze in capacità amministrative delle Regioni). Ancora una volta, è un lavoro rigorosamente statistico. La conclusione : occhio ai dettagli istituzionali ed alle “variabili latenti” che si celano dietro osservazioni spesso approssimative. Indicazioni importanti per il futuro del lavoro sul federalismo fiscale.

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