martedì 30 settembre 2008

L’UNIONE EUROPEA DOVRA’ RISCRIVERE LE REGOLE DEL PATTO DI STABILITA’ Libero 30 settembre

La notte tra sabato 27 e domenica 28 settembre, chi è alle redini della Bce, e delle maggiori banche centrali europee, ha dormito male. Notte agitata pure per numerosi Ministri dell’Economia e delle Finanze del Vecchio Continente. Dalle agenzie di stampa britanniche giungevano lanci sulla sempre più probabile ed imminente nazionalizzazione della Bradford & Bringley, colosso d’Oltremanica dei crediti ipotecari, le cui azioni avevano raggiunto, allo Stock Exchange di Londra, quotazioni rasoterra venerdì 26 settembre. L’insonnia e l’agitazione non erano provocate tanto dalla notizia in sé e per sé – negli ultimi due anni il Governo di Sua Maestà è intervenuto già più volte per salvataggi di questa o quella supposta “roccia” finanziaria- quanto dal ricordo della conferenza in video (riservatissima) che i Ministri economici e finanziari del G7 avevano avuto il pomeriggio di lunedì 22 settembre (ad un orario scelto per assicurare la partecipazione dei Ministri Usa e nipponico). La aveva chiesta Herny Paulson (il cui programma per tentare di uscire dal pasticciaccio brutto è stato ampliamente illustrato e commentato su queste colonne) per sollecitare gli europei ed i giapponesi a partecipare anche loro al “pacchetto”. Il Tesoro Usa avverte che il problema si manifesta in America ma ha caratteristiche mondiali (se non altro a ragione dell’integrazione dei mercati finanziari). Possibilisti i giapponesi (anche il Ministro delle Finanze in carica unicamente per gli affari correnti, poiché il nuovo titolare del dicastero, Taro Aso, è stato indicato sabato 27 settembre); negativi in linea di massima gli europei, in base all’ipotesi secondo cui la crisi è frutto di travalicamenti e trasgressioni molto “yankee” mentre la Vecchia Europa è saggia, non starnazza e non si sollazza nel “suprime” ed adotta criteri prudenziali tanto nel fare prestiti quanto nel comprare e vendere titolo strutturati di finanza derivata. La mattina di mercoledì 24 settembre, alla consueta prima colazione con il Presidente della Federal Reserve Ben Bernanke in una saletta del Cosmos Club in quel di Massachusetts Ave, N.W. della capitale Usa, Paulson si è mostrato “deluso” dalla reazione europea.
La notte tra il 27 ed il 28 settembre, “delusi” erano, invece, gli europei: la probabile nazionalizzazione di Bradford & Bringley è stata presa come una doccia fredda che ha convalidato ciò che i servizi studi dell’Ocse e del Fondo monetario (Fmi) sostengono da tempo, in analisi riservate e non pubblicate nelle collezioni dei Working Papers: la crisi scoppiata l’estate del 2007 negli Usa (ma prevista da molti, tra cui il vostro “chroniqueur” sin dall’autunno 2006) è un onda lunga il cui contagio al resto del mondo ha una linea di trasmissione molto specifica (che si aggiunge a quelle tradizionali analizzate ai tempi delle crisi latino-americana – fine anni 80- ed asiatica- fine anni 90): lo squilibrio finanziario internazionale – in parole povere, il disavanzo dei conti con l’estero Usa, con tanto di super-euro e mini-dollaro, e la crescita di sovrappiù (e di fondi sovrani per utilizzarlo) in altri Paesi. In una prima fase, le analisi di Ocse e Fmi temevano che la malattia avrebbe attaccato le banche asiatiche in quanto strettamente connesse a quelle Usa (anche a ragione della progressiva integrazione del bacino del Pacifico in atto da circa 20 anni molto più velocemente di quanto si ritenga in Europa); in effetti, proprio la settimana scorsa ci sono stati timori e tremori a Hong Kong (tra cui la corsa a ritirare depositi dalla Bank of East Asia di cui alcune agenzie di stampa specializzate avevano paventato una crisi di liquidità).
Adesso, invece, gli occhi sono puntati sull’Europa. La risposta degli europei è che si può riposare tra due guanciali poiché l’indicatore di base utilizzato dalla Banca dei Regolamenti Internazionali (Bri) – il rapporto medio tra capitale effettivamente versato e attività – è un comodo 8%. Si dorme, però, male se si prende un altro indicatore Bri (più eloquente nell’attuale contesto mondiale) il rapporto tra capitale e leva finanziaria: è 1,2% alla Deutsche Bank, 2,4% a Barclays e 2,1% alla Ubs – tassi da notti insonni, invece che tranquille. Il sistema bancario europeo appare ancora più vulnerabile se si tiene conto della proliferazione del “bancassurance” negli ultimi due lustri – poiché alcune attività di assicurazione (segnatamente quelle di riassicurazione delle attività bancarie hanno sovente una copertura modesta). Le banche francesi (abbastanza novizie all’internazionalizzazione) ci sono buttate alla grande, tramite il “bancassurance” dagli Anni 90; adesso alcune di loro potrebbero essere contagiate di brutto. Inoltre, se il programma all’esame del Congresso Usa va in porto, avrebbe l’effetto di ridurre drasticamente la “valorizzazione di mercato” di titoli strutturati ora nei portafogli di banche europee (quelle francesi, con vaste propaggini in Italia, ne risulterebbero, ancora una volta, particolarmente colpite). A rendere il quadro ancora più complicato (ove mai ce ne fosse bisogno), nel quarto trimestre 2008 ( e nel primo semestre 2009) giungono a maturazione, sulle piazze europee, oltre 1.000 miliardi di euro di obbligazioni bancarie; rischiano di trovare un mercato secco in quanto i risparmiatori stanno migrando, alla grande, verso titoli ipersicuri – la tipica “flight to qualità”, fuga verso chi infonde maggior sicurezza (il 24 settembre all’asta d’obbligazioni Bce la domanda è stata il triplo dell’offerta). Se da queste considerazioni generali si passa ad episodi specifici, è eloquente il versamento da parte della Kfw tedesca (istituto pubblico affine, per certi aspetti, alla nostra Cassa depositi e prestiti) di 300 milioni di euro ( per uno swap mai andato a buon fine) nelle casse di Lehman Brothers poche ore prima che quest’ultima portasse i libri in tribunale e dichiarasse fallimento. Dal dramma gotico (pieno di spettri e trabocchetti) si passa al “vaudeville”.
Un saggio di Stan Leibowitz della Università del Texas in uscita in gennaio in un lavoro collettaneo (“Anatomy of a Train Wreck: Causes of the Mortgage Meltdown”) - l’autore è lieto di offrire le bozze per commenti (liebowit@utdallas.edu) ad economisti e specialisti di finanza - analizza non solamente le radici della crisi mettendo in evidenza come le caratteristiche “yankee” del “subprime” siano una baggianata inventata in Europa da chi è, zingarellianamente parlando, ignorante di economia e finanza. Delinea come quanto esploso negli Usa rappresenta una tipologia di mina che può facilmente esplodere altrove (in quanto si annida in numerosi istituti). Il lavoro merita di essere letto nel Continente non tanto per individuare possibili paratie ma per porsi sin da oggi interrogativi che potranno essere centrali alle discussioni di politica economica (nell’Ue e nei singoli Stati membri) dei prossimi mesi.
Sono, in estrema sintesi, i seguenti: può l’Ue, ed in particolare l’area dell’euro, rispondere all’invito (o “grido di dolore” che dir si voglia) di Paulson e varare un piano di riassetto transatlantico? In caso non possa, o non voglia, farlo adesso, sarà in grado di mettere in atto qualcosa d’analogo, a livello europeo meglio se nazionale, ove e quando l’onda lunga dello tsumani finanziario arriverà sulle sponde del continente vecchio, mettendo in crisi non solo questo o quell’istituto ma i mercati finanziari in generale? Se , volente o nolente, l’Ue dovrà farlo, cosa succederà al “patto di stabilità”: Una sospensione? Per quanto tempo? Una revisione? Quando profonda?
Utilizzare la tattica dello struzzo sarebbe fatale. Il dibattito va aperto adesso.

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