Nel numero precedente di “Formiche” abbiamo dedicato questa rubrica al decennale dell’euro ed abbiamo posto alcuni interrogativi sia sulle compatibilità delle politiche mirate all’integrazione monetaria con la crescita reale sia sugli squilibri finanziari internazionali in atto. E’ utile, quindi, rivolgersi ad un altro aspetto,sotto molti angoli speculare all’unione monetaria: in che misura si stanno integrando i mercati del lavoro europei. E’ argomento da qualche anno non più alla ribalta pure poiché pare essersi allontano lo spettro della disoccupazione di massa che si aggirava per l’Europa nella seconda metà degli Anni Novanta: secondo gli ultimi dati comparativi Eurostat, il tasso di coloro che cercano lavoro senza trovarlo è, nell’area dell’euro, pari al 7,1% della forza lavoro (ed in Italia pari al 6%). Le stime si riferiscono allo scorso aprile: Indicazioni preliminari suggeriscono che c’è stato un aumento negli ultimi mesi. Un giudizio di merito si potrà dare soltanto al termine dell’estate (in base alle indagini sulle forze lavoro di giugno), ma si è, in ogni caso, lontani dalla minaccia di tassi di disoccupazione a due cifre incombente circa dieci anni fa.
Un’analisi condotta congiuntamente da università britanniche, spagnole e svedesi in base di dati empirici di sette Paesi dell’Ue conclude che stanno emergendo quattro modelli distinti (quindi poco integrati) la cui variabile significativa non è (come si riteneva negli Anni Novanta) il grado d’intervento pubblico nella regolazione del mercato del lavoro ma il valore che si dà al “tempo” disponibile per la famiglia ed alle pertinenti politiche economiche e sociali. Le differenziazioni più marcate riguardano il genere. Nei Paesi nordici, viene dato lo stesso valore al tempo degli uomini e delle donne; lo “universal breadwinner model” che ne risulta comporta alta partecipazione tanto di uomini quanto di donne nel mercato del lavoro, ampia diffusione del tempo parziale e di altre forme di flessibilità e tassi di occupazione elevati per ambedue i generi nel corso della loro vita attiva. Un modello differente è quello francese (viene chiamato il “modified breadwinner model”) dove le donne o lasciano il mercato del lavoro per dedicarsi alla famiglia ( e tentano a volte di rientrarvi più tardi con vario grado di successo) o restano in rapporti di lavoro a tempo pieno per tutta la loro vita professionale. Ancora più marcata la differenziazione nei Paesi mediterranei (i due studiati sono Italia e Spagna); vi prevale un modello “aut aut”- “esci” o “resta a tempo pieno”, in cui la partecipazione femminile al mercato del lavoro è relativamente bassa ma le donne che trovano un’occupazione la mantengono a tempo pieno. Il quarto modello esaminato è quello del “maternal part-time work” prevenante in Germania, in Gran Bretagna e nei Paesi Bassi; la maternità è associata ad una riduzione della partecipazione nella forza lavoro meno marcata che in Francia e nei Paesi mediterranei , ma anche ad una forte diffusione del lavoro a tempo parziale in cui le donne restano anche quando i figli sono grandi. L’analisi conclude che il modello nordico è quello che produce la meno pronunciata differenza di genere nell’allocazione del tempo all’occupazione ed il miglior invecchiamento “attivo” dei lavoratori anziani. E’ il frutto di politiche coerenti di gestione del tempo e del reddito non di misure frammentarie ed a macchia di leopardo che caratterizzano gli altri modelli.
A conclusioni analoghe giunge uno studio dell’Università di Bologna, pubblicato però non da un centro di ricerche italiano ma dall’istituto federale tedesco di analisi del mercato del lavoro. L’analisi riguarda l’Ue a 25 (ossia prima dell’adesione di Bulgaria e Romania) nel periodo 2000-2005. E’ basata su indicatori quantitativi di “generosità delle politiche del lavoro” (in parole povere, spesa per politiche del lavoro in rapporto al pil) , di esiti occupazionali e di efficienza delle istituzioni del settore. I risultati indicano che alti tassi d’occupazione sono, di norma, associati a forte spese in politiche del lavoro (specialmente in politiche attive del lavoro) e bassa rigidità nella regolazione e del mercato del lavoro e di quello di beni e servizi.
Negli ultimi mesi, si è parlato molto di “flexicurity” – ossia di mercati del lavoro che coniugano flessibilità con forti ammortizzatori sociali. Se ne parlerà molto di più alla ripresa autunnale. La prima delle analisi di cui si sono riassunti i punti essenziali suggeriscono, però, che occorre spostare il tiro. Il nodo non è tanto quanto si è disposti a spendere in termini d’ammortizzatori ma il valore relativo che viene dato al tempo delle donne da dedicare alla famiglia rispetto a quello da allocare al lavoro. E’ una dimensione non tanto economica quanto socio-culturale. Più difficile da trattare di quanto non sia la creazione ed il funzionamento di un’unione monetaria.
Per saperne di più
Anxo Dominique , Fagan Collette, Cebrian Immaculada, Moreno Gloria "Patterns of Labour Market Integration in Europe: A Life Course Perspective on Time Policies"Socio-Economic Review, Vol. 5, 2007
Rovelli Riccardo, Bruno Randolph Luca "Labor Market Policies, Institutions and Employment Rates in the EU-27" IZA Discussion Paper No. 3502
Whiltagen Ton "Flexicurity: A New Paradigm for Labour Market Policy Reform?" Social Science Research Center Berlin Discussion Paper No. FS I 98-202
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