Gioacchino Rossini si è interessato all’Islam? La una domanda si ripropone in occasione del nuovo allestimento di “Maometto Secondo” (la prima è stata il 12 agosto al Rossini Opera Festival, Rof; di Pesaro) che andrà in tournée in Giappone in autunno ed entrerà in repertorio a Brema (che la co-produce con il Rof) ed in altri teatri tedeschi. Tralasciando lavori meramente di ambiente orientale (come “Zerlina” ed “Adina”), in cinque opere, il pesarese ha trattato dei rapporti tra cultura europea ed islamica; ben tre volte ha scavato nella complessa figura di Maometto Secondo, il quale, avendo ereditato un impero dai Balcani, all’Asia Minore ed all’Africa settentrionale, conquistò Costantinopoli e proseguì la politica espansionistica annettendo Bosnia, Crimea e Albania.
Prima di affrontare Maometto Secondo (al San Carlo nel 1820, a La Fenice nel 1822 e a Parigi nel 1826), Rossini aveva imperniato due opere sul tema del confronto tra Europa ed Islam- “L’Italiana in Algeri” nel 1813 e “Il Turco in Italia” nel 1814. Il nuovo allestimento al Rof del Maometto “napoletano” permette di toccare con mano l’evoluzione del pensiero del pesarese (e della società del suo tempo) nei confronti di un impero al punto di diventare “l’uomo malato d’Europa”. “L’Italiana in Algeri” è una farsa in cui il bey Mustafà fa la figura del cretino. Ne “Il Turco” l’approccio è più smussato: una “commedia per adulti” di scambi di coppie (tentati, non realizzati) in cui il pasha Selim tenta di occidentalizzarsi. Senza riuscirci.
Molto più elaborato il trattamento di Maometto Secondo. La conquista di Negroponte è lo spunto per delineare lo scontro tra due mondi. A Maometto, Rossini guarda con simpatia, ma c’è un muro invalicabile tra lui e i veneziani difensori di Negroponte; Anna Erisso, figlia del generale veneziano, pur se innamorata del conquistatore mussulmano, gli tira il tranello che salva la città. Dal 1985-86, quando è stato rilanciato quasi in parallelo a Pesaro e Parigi, il “Maometto” napoletano è considerato da molti (tra cui il vostro “chroniqueur”) come il capolavoro sommo del pesarese. Nel 1820, il lavoro fu un tonfo clamoroso la sera della “prima” al San Carlo: la partitura era straordinariamente innovativa e priva di molte “convenzioni” dell’epoca (quali la sinfonia introduttiva, numeri musicali chiusi e relativamente brevi, simmetria nelle arie dei protagonisti). Due anni dopo, venne riproposta a Venezia. Fortemente rimaneggiata( e con un lieto-fine posticcio ), venne messa in scena, senza adeguate prove. Altro fiasco: non è stata neanche replicata sino ad una ripresa nel 2005. Rossini, però, sapeva di avere tra le mani qualcosa d’eccezionale. Nonostante i fischi a Napoli e a Venezia, riciclò il lavoro una terza volta – cambiando titolo e parte del libretto – a Parigi nel 1826: divenne “Le siège de Corinthe”, grande successo sino a metà Ottocento (anche in quanto imperniata sull’irredentismo greco dal giogo turco), rilanciato al Maggio fiorentino nel 1949 e cavallo di battaglia di Beverly Sills, Shirley Verrett e Thomas Schippers negli Anni 70 e 80. Le tre versioni sono tratte da una tragedia di Voltaire,“Mohemet ou le Fanatisme”: contrappongono, in una vicenda schematizzata, il contrasto tra il fanatismo mussulmani assedianti (nonostante la complessità psicologica di Maometto) ed i difensori della civiltà occidentale.
Delle tre versioni, quella “napoletana” anticipa di quasi 50 anni il superamento degli schemi formali e si articola in vaste strutture (11 numeri musicali in oltre tre ore) collegate da un complesso procedimento di elaborazione tematica, quasi precorrendo il teatro wagneriano. L’edizione francese è adattata al gusto della “tragédie lyrique” allora di moda. La scrittura dell’edizione veneziana è meno innovativa di quella per il San Carlo: l’inizio è una sinfonia non un coro travolgente, il finale tragico è sostituito da uno lieto con sfoggio di grande rondò (preso da “La donna del lago”). Oggi, l’edizione napoletana appare senza dubbio come la più innovativa. Specialmente nell’allestimento del Rof in cui il direttore musicale Gustav Kuhn ha serrata i tempi, il cast ha sfoggiato quattro protagonisti di rilievo (specialmente la giovanissima Marina Rebeka, accanto a Michele Pertusi, Francesco Meli e Daniela Barcellona) e la regia di Michael Hampe non cede alla tentazione di aggiornare l’azione ai tempi nostri.
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