Dal 1993 ad oggi, la bolletta della previdenza pubblica è costata all’erario circa 80 miliardi di euro di meno di quanto sarebbe pesata se le pensioni fossero state indicizzate non in base all’indice dei prezzi al consumo per le famiglie degli operai e degli impiegati ma in base all’andamento dei salari (come avveniva in base alla normativa del 1969, riformata dal Governo Amato sulla scia del tracollo dei conti con l’estero e dell’uscita della lira dagli accordi dei cambi europei, con immediata svalutazione). La revisione dell’indicizzazione è stata sino ad ora la voce più importante di risparmio previdenziale effettuata dallo Stato; i risparmi relativi al meccanismo di definizione delle spettanze (da “retributivo” a “contributivo figurativo) si cominceranno ad avvertire dal 2013 o giù di lì e saranno sensibili dal 2030 in poi.
Se l’erario ha risparmiato, i pensionati ci hanno rimesso. Il calcolo è presto fatto se la produttività multifattoriale (ossia dell’insieme dei fattori di produzione) aumenta dell’1% l’anno e tale incremento si rispecchia nell’andamento salariale, i pensionati non ricevono un’indicizzazione che copre tale incremento (a cui hanno pur contribuito, in varia misura, con il loro lavoro durante la loro vita attiva): Nell’arco di dieci anni, perdono circa il 12% (l’interesse è composto). Ove si tornasse ad aumenti di produttività del 3% (come negli Anni 60 e 70), in dieci anni le loro pensioni sarebbero oltre un terzo inferiori rispetto ai livelli che avrebbero con un’indicizzazione che catturasse gli aumenti di produttività del sistema. Paradossalmente, i bassi aumenti di produttività del sistema Italia degli ultimi tre lustri hanno salvaguardato i pensionati. Naturalmente dato che l’utilità marginale del reddito è inversamente proporzionale al livello di reddito (chi è nella fasce alte utilizza eventuale reddito addizionale per serate in allegria “di donnine e champagne in compagnia”, come Danilo Dalivich de “La Vedova Allegra”; chi è in quelle basse ci si risuola le scarpe e si compra una bistecca), coloro che sono andati in pensione in più giovane età ed hanno le pensioni più basse sono quelli su cui morde di più il sistema di indicizzazione introdotto dalla riforma Amato del 1993. Non è una novità. Lo hanno sottolineato, da sempre, tutti gli esperti. Nel 2001 la “Guida alla riforma delle pensioni” pubblicata dalla Fondazione Ideazione considerava il nodo delle indicizzazioni come uno dei primi da affrontare nella Legislatura che stava per iniziare.
Alla vigilia di Ferragosto, il Ministro del Lavoro, della Previdenza, della Salute e delle Politiche Sociali, Maurizio Sacconi ha suggerito la possibilità che si utilizzi un paniere differente (più prossimo alla spesa effettiva di chi è a basso reddito) come soluzione al problema. E’ un approccio prammatico.
Ci si deve però chiedere se sia fattibile e se possa dare gli esiti sperati senza una revisione complessiva di altri aspetti del sistema. Da un lato, dinamiche di lungo periodo inducono ad un aggiornamento del sistema contributivo ed ad una revisione dei “coefficienti di trasformazione” (i parametri in base ai quali il montante dei contributi versati viene “trasformato” in trattamenti previdenziali annuali): su questo punto concorda anche gran parte dell’opposizione (come dimostra il lavoro Arel “Flessibilità e sicurezza” appena pubblicato a cura di Salvatore Pirrone) . Da un altro, l’età mediana degli elettori (ossia quella attorno alla quale si addensa il numero più alto di votanti) è 46 anni e sta aumentando (raggiungerà i 55 anni nel 2040); è un’età in cui già si cominciano a contare gli anni che separano dalla pensione ed il peso dell’assegno mensile (e si resiste a cambiamenti in peius).
A mio avviso, per ragioni di equità (e per evitare trabocchetti come le “pensioni di annata”) non c’è molto tempo disponibile per rivedere sia i “coefficienti di trasformazione” sia il meccanismo d’indicizzazione. I “coefficienti” devono essere tali da indurre a restare nel mercato del lavoro almeno sino a 67 anni di età (l’età a cui si comincia a percepire la pensione in gran parte dei Paesi che , come l’Italia, hanno preso la strada del sistema “contributivo figurativo) – con la prospettiva di portarla a 70 anni man mano che l’aspettativa di vita si allunga. L’indicizzazione deve essere articolata per fasce di età e di reddito. In primo luogo, occorre pensare ad un’indicizzazione più alta dopo i 75 anni di età quando c’è verosimilmente maggiore esigenza di cure ed assistenza. Occorre anche pensare ad un’indicizzazione per le fasce di reddito (o consumo) più basso proprio a ragione di differenze di utilità marginali ben note a chi da decenni utilizza strumenti quantitativi per analizzare i costi ed i benefici sociali delle politiche pubbliche.
Sull’indicizzazione delle pensioni si gioca il futuro della previdenza. E’ auspicabile che collaboratori e lettori de L’Occidentale intervengano con idee e suggerimenti.
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