sabato 16 maggio 2015

STRUMENTI PER LA POLITICA INDUSTRIALE EUROPEA in Astred Rassegna 14 maggio



STRUMENTI PER LA POLITICA INDUSTRIALE EUROPEA
Una nota preliminare
Giuseppe Pennisi
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14  maggio 2015


1 Premessa
Questa nota preliminare contiene un primo raffronto tra le politiche industriali di Francia e Germania, sulle base delle mie esperienze sia nella veste (alcuni anni fa) di consigliere dell’allora Ministro delle Attività Produttive sia del mio interesse per la Repubblica Federale Tedesca. Mi soffermo in particolare sul ‘Rapport Beffa’, a mio avviso il documento più completo pubblicato in materia , anche se ormai datato (poiché finalizzato nel gennaio 2005). Tratto anche del “Rapporto Bersani”, ultimo esempio (a mia memoria) di documento complessivo su questi temi in Italia , ma ormai obliato (anche esso del 2005-2006).

2 Politica industriale in Germania e Francia: due approcci molto differenti. La difficoltà di giungere ad una politica industria europea
Le politiche industriali di Germania e Francia sono le più esplicite nell’ambito dell’Unione Europea (UE). Sono anche quelle che dominano il dibattito europeo Mentre la filosofia, per così dire, della politica industriale francese (su cui è stata in gran misura modellata quella italiana dagli Anni Sessanta alla fine degli Anni Ottanta) è abbastanza nota, lo è meno quella sottostante la politica industriale tedesca. E’ la politica industriale tedesca , tuttavia, ad avere inciso profondamente sul Trattato di Lisbona (tramite l’’economia sociale di mercato’, posta al centro della costruzione europea) e sulla politiche industriali di numerosi Stati neocomunitari dell’Europa centrale ed orientale. E’ poco conosciuta in Italia non solamente per ragioni linguistiche ma in quanto non usa esprimersi in ‘Rapporti’ periodici al Governo od all’Assemblea Nazionale.
In Italia, la “vulgata” corrente è che la Repubblica federale tedesca si oppone all’idea stessa di politica industriale europea ed a maggior di politiche industriali nazionali. E’ una vulgata che non ha alcuna base concettuale . In Germania, è vero, c’è una forte il ripresa dell’’ordoliberismo’ (il liberismo delle regole, ma di regole che siano poche e semplici, non di guazzabugli che hanno spesso caratterizzato la politica dell’industria in Italia come sottolineato da Giuliano Amato in un suo libro del lontano 1976) tanto che – come ha sottolineato The Economist il 9 maggio – quattro dei cinque componenti del Comitato dei consiglieri economici del governo federale hanno matrici ‘ordoliberiste’.
E’ doveroso  dire che, negli ultimi tempi, l’ufficio in Italia della Konrad Adenauer Stiftung (Kas) ha fatto molto per fare conoscere l’’economia sociale di mercato’ in corsi seminariali organizzati in partnership con un’universitaria paritaria (la Lumsa) ed una delle università pontificie (la Lateranense). Nel recente passato (nel 2009-10), io stesso ebbi l’occasione di lavorare con economisti e politologici tedeschi, nell’ambito di un programma della Kas e della Fondazione Fare Futuro, caratterizzato da seminari a Roma ed a Berlino ed una sessione finale di tre giorni-  a Villa Collina (la residenza estiva di Konrad Adenauer sul lago di Como). Il prodotto fu un cofanetto di volumetti pubblicati dall’Editore  Rubbettino in tedesco ed in italiano; riguardano non solo argomenti economici, ma anche politici ed istituzionali; credo siano disponibili all’ufficio romano della Kas- possono essere utili a chi vuole affrontare queste tematiche.
C’è una folta letteratura recente in italiano; ad esempio, un  saggio molto sintetico ma efficace di Flavio Felice  (Rubettino 2008) e l’antologia di scritti “ordoliberisti” curata da Francesco Forte nel 2014. Utilissima anche la recente pubblicazione in italiano di ‘Produzione e Produttività di Friedrich A. von Hayek da parte dell’Istituto Bruno Leoni) per toccare con mano come una politica industriale di mercato sia non solo perfettamente compatibile con l’’ordoliberismo’ tedesco ma sia stata attuata con efficienza ed efficacia al fine, ad esempio, di ampliare (tramite incentivi tributari) la dimensione media delle azione negli anni di preparazione all’unione monetaria.
Ho citato le agevolazioni tributarie erga omnes ac omnia, quindi non distorsive della concorrenza, per giungere ad un ampliamento delle dimensioni medie delle imprese tedesche (soprattutto manifatturiere).
 A livello federale, è doveroso citare il programma definito con i sindacati per la ristrutturazione della maggiore industria del Paese, la Volkswagen. Soprattutto, però, l’azione incisiva è a livello dei Länder. Qui, la politica partitica si tiene a mezzo passo di distanza: le strategie, a livello dei singoli Länd, vengono attuate tramite la collaborazione tra associazioni di datori di lavoro, sindacati, Landesbanken e Landeskasse. Ricordo a riguardo un dibattito da me organizzato a Bologna circa vent’anni fa (su politica industriale a livello locale  tramite Cassa di Risparmio , Banca Popolari e Istituti di credito cooperativo in Italia, da un lato, e Landesbanken e Landeskasse in Germania, dall’altro) tra Stefano Zamagni e Padmanabh Gopinath (economista indiano che allora dirigeva l’Istituto Internazionale di Studi Sociali a Ginevra).
I maligni dicono che questa è una delle ragioni, ove non la fondamentale, per cui le Landesbanken e Landeskasse sono sottratte alla vigilanza della Banca centrale europea (Bce). Forse occorre chiedersi se dalle Landesbanken e Landeskasse non si sarebbe potuta trarre qualche utile lezione nel riassetto delle  nostre Banche Popolari e dei nostri Istituti di Credito Cooperativo prima di muoversi su un sentiero che numerosi esperti ritengono affrettato. Può essere utile ricordare che c’è una buona dose di ‘ordoliberilismo’ nell’Appello Politico agli Italiani dell’Osservatorio Internazionale Cardinal Van Thuan sulla Dottrina Sociale della Chiesa (un comitato internazionale di matrice cattolica) pubblicato da Cantagalli Editore nel 2014 , poco prima le elezioni europee.
In Francia sia il ‘Rapport Beffa’ sia il più recente ‘ Rapport Gallois’ (2012) riflettono chiaramente una politica industriale “colbertista”, dal nome di Jean-Baptiste Colbert,, il Ministro delle finanze e dell’economia di Luigi XIV che sta riacquistando sta acquistando notorietà nell’Italia di oggi. Il suo nome è circolato frequentemente nel 2004-2005  all’indomani di un discorso pronunciato a Pesaro dall’allora Ministro dell’Economia e delle Finanze, Giulio Tremonti, a proposito dell’adesione della Cina all’Organizzazione Mondiale del Commercio (Omc) e delle implicazione che ciò comporta in materia di applicazione dei principi di reciprocità e di non discriminazione (i due pilastri dell’Omc). E’ stato ascoltato anche in occasione dello sciopero proclamato dalla Cgil sui problemi dell’industria manifatturiera in generale e della metal meccanica in particolare. E’ riecheggiato nelle richieste e delle tre maggiori sigle sindacali e della Confindustria a proposito di “politica industriale” per le aziende in crisi . Colbert fu un uomo di stato di multiformi attività. Da Segretario alla Marina, potenziò la flotta, modernizzò i cantieri navali e aprì rotte sull’Atlantico per creare “Nouvelle France”, la prima colonia francese in quello che è oggi è il Canada. Accademico di Francia, fu anche uomo di lettere ed urbanista; guidò il riassetto di molte città francesi e fondò l’Académie de France a Villa Medici a Roma. E’ ricordato, però, principalmente per il suo ruolo nell’economia: fautore dell’intervento pubblico, riorganizzò le autonomie locali ed il sistema tributario (abrogando esenzioni e deduzioni); adottò una politica per attirare in Francia lavoratori stranieri con professionalità che mancavano nel Regno (per le banche, la finanza, l’industria nascente)- attirò tra l’altro numerosi banchieri italiani; mise, soprattutto, in atto una strategia mercantilista diretta a potenziare l’export e proteggere, con dazi e contingenti, le manifatture nazionali.
   Un pianificatore od un liberista? Nel contesto del Seicento francese, deve, paradossalmente, essere considerato un liberalizzatore a fronte della frammentazione di mercati locali regolati da interessi particolaristici, del pensiero “bullionista” ancora imperversante (favorevole alla più ampia circolazione di moneta nei confini del territorio nazionale ed alla “cattura” di metalli preziosi) e del protezionismo pure più spinto (si pensi all’Atto di Navigazione che vietava l’import di merci non trasportate su navi di Sua Maestà Britannica) vigente sull’altra sponda della Manica. In breve, sempre nel contesto dell’epoca, un liberale nazionale favorevole ad uno Stato decisamente regolatore e, quindi, anche ispettore.
1.       Come Faust, il Colbert economico aveva, però, due anime. Dato che era (si direbbe oggi) “un uomo del fare”, piuttosto che del teorizzare, non lasciò nessuno scritto organico; quindi, le sue anime vanno ricavate dai suoi “decreti”. L’anima liberale-regolatoria (nel quadro della Francia del Seicento) traspare dal rigore delle misure contro la contraffazione e la corruzione (della pubblica amministrazione e dei concessionari di esazione delle imposte). Quella nazionale-mercantilista dalla tariffa doganale e dagli incentivi (su base non discriminatoria, grande segno di modernità a quell’epoca) per l’industria francese.  Le due anime hanno dato origine a due filoni distinti; ambedue si riconoscono in  Colbert , pure nella madre-Patria, ma non si amano; anzi, come avviene in molte famiglie, da oltre tre secoli litigano per l’eredità (il nome) dell’illustre antenato. Un filone ha sempre promosso la teorizzazione e razionalizzazione dell’intervento pubblico dell’economia; nella stessa Francia ha prodotto la “programmazione indicativa” ed il Commissariato al Piano, metodi e strumenti a cui si abbeverarono molti economisti italiani all’inizio degli Anni Sessanta. Un altro filone è quello dove a cui si ispirò Frédéric Bastiat. Liberista integrale, anzi integralista (nonché padre della roccaforte liberista viva e vegeta nell’Università di Aix en Provence), Frédéric Bastiat definì, prima degli economisti scozzesi, le condizioni essenziali per un mercato funzionante: una “soglia minima” di simmetria di posizioni e di informazioni. In breve, il mercato produce benessere solo se nessuno bara, almeno per quanto attiene alle regole di base. Per molti aspetti, fu un precursore degli ‘ordoliberali’ tedeschi.

  In materia di politica industriale e commercio internazionale, la divisione tra i due filoni di eredi di Colbert è netta. Un filone ha dato vita ad una scuola di pensiero ed azione nettamente protezionista ed a favore di industrie decotte e carrozzoni per tenerle in vita (pur se solo vegetativa); in Italia iniziò a prendere piede già nel 1878 con la tariffa doganale Luzzatti, proseguì negli Anni Trenta e riapparve negli Anni Settanta con gemme quali la “legge Prodi” e  la netta chiusura di numerosi ambienti culturali alle liberalizzazioni, pure a quelle conseguenti gli accordi di cambio europeo del 1978. La seconda, invece, ha rappresentato il filone che ha scelto l’apertura dell’economia italiana al mercato internazionale ed ha tenuto duro anche nell’esperimento di “solidarietà nazionale” che ha portato a dilatazione dell’intervento e della spesa pubblica ed progressive svalutazioni. A livello internazionale, è alla base dalla filosofia del Gatt prima dell’Omc (Organizzazione Mondiale del Commercio) poi – ambedue basate sui principi della non-discriminazione e della reciprocità in materia di commercio internazionale. Dall’inizio degli Anni Ottanta, però, risoluzioni parallele dell’Omc e dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro (Oil) affermano che tali principi devono essere applicati tenendo conto di “soglie invalicabili”, sotto il profilo sia economico sia morale: non si possono aprire le porte del commercio internazionale a chi bara sfruttando il lavoro minorile, il lavoro coatto, financo la schiavitù ed a chi non mantiene standard minimi di regole lavoristiche e sanitarie (per l’appunto le convenzioni “fondamentali” dell’Oil). 

3- Il Rapporto Beffa

Il documento è stato commissionato dal Presidente della Repubblica francese, Jacques Chirac (a cui è stato presentato il 15 gennaio 2005) ad un gruppo di esponenti del mondo dell’industria, nonché di economisti, guidato dal Presidente ed Amministratore Delegato dalla Compagnie Saint Gobain, Jean-Louis Beffa.. L’incarico era stato conferito il 30 settembre 2004; quindi, il documento (45 pagine a stampa fitta, con l’aggiunta di alcune appendici) è stato redatto nel giro di poche settimane. Occorre fare un riferimento al quadro politico generale: il documento di situa in un contesto di progressivo allentamento della stretta collaborazione industriale tra Francia e Germania e, per alcuni aspetti prelude alla più stretta collaborazione tra Francia ed Italia , al centro tra l’altro del “vertice” tenuto a Roma 25 gennaio del 2005, un percorso per molti aspetti ancora attuale.


Le difficoltà nella collaborazione industriale franco tedesca

 Tali difficoltà sono in corso da anni. La primavera 2004, l’allora Ministro dell’Economia della Repubblica Federale, Wolfgang Clement, aveva fatto inalberare  il suo omologo francese dell’epoca , Nicolas Sarkozy  quando aveva bloccato il tentativo della Sanofi di acquisire il controllo della Aventis. In luglio, Sarkozy lo aveva ripagato pan per focaccia, impedendo alla Siemens di conquistare, con un’OPA ostile,  la Alstom , un tempo uno dei gioielli della République in tema di grandi lavori ma ora in  crisi di liquidità. I rapporti tra i due Paesi, e quelli interpersonali tra i due Ministri, sono diventati così tesi che è saltato il vertice annuale tra i Capi dei due Governi, in calendario nell’estate 2004. In ottobre 2004, Clement e Sarkozy hanno ostentato una riappacificazione e tentato di definire  un programma comune franco-tedesco di politica industriale volto la creazione “campioni europei” (un eufemismo per dire franco-tedeschi) con cui rispondere alle sfide della globalizzazione. I settori prescelti sarebbero stati l’aerospaziale, l’informatica, la comunicazioni, i grandi lavori, l’agroalimentare. Se ne è fatto, però, molto poco. Sono, però, aumentate le diffidenze tra le due sponde del Reno. Ed è proprio su cose concrete (elettricità, banche) che ora Parigi sta impostando una maggiore collaborazione con Roma. Temi specifici: accordi per dieci navi, accordo sui satelliti con Finmeccanica, uno “scambio politico” tra revisioni dei limiti della partecipazione di Edf in Energia e partecipazione dell’Enel ad entrare nel nucleare della terza generazione (progetto europeo per la costruzione del reattore a acqua pressurizzata), braccia aperte perché Roma abbia, con Parigi, un ruolo leader nella nuova Agenzia europea per l’innovazione proposta proprio dal “Rapporto Beffa”.


 Il “Rapporto Beffa” analizza in dettaglio le condizioni dell’industria francese (specialmente della “grande industria”) e sottolinea come, nel contesto dell’integrazione economica internazionale, sia a forte rischio di perdita di competitività. Ribadisce la scelta secondo cui la Francia deve restare un Paese a forte impianto manifatturiero – in altri termini, non deve seguire un percorso di de-industrializzazione ed enfasi sul terziario adottato dalla Gran Bretagna e da alcuni Paesi di piccole dimensioni (ad esempio, Irlanda) negli Anni Ottanta. Giustappone il modello di intervento pubblico in campo industriale seguito implicitamente  dalla Francia negli ultimi decenni con i modelli adottati, invece, da Stati Uniti e Giappone, concludendo che, pur se nel contesto europeo si possono recepire elementi sia del primo sia del secondo, nessuno dei due è adatto alla storia socio-istituzionale e, quel che più conta, alle condizioni dell’industria manifatturiera in Europa in generale ed in Francia in particolare. Tuttavia “oggi il tridente ‘pubblico’ francese – ricerca pubblica, imprese pubbliche, commesse pubbliche – non può essere più seguito a ragione dell’apertura dell’economia agli scambi internazionali ed alle regole della costruzione europea”.

 Viene, quindi, proposto “un rinnovamento della politica industriale articolato sulla promozione pubblica di programmi tecnologici industriali a lungo termine, con azioni da attuale principalmente allo stadio pre-correnziale, ossia della ricerca di base”. Misure specifiche indicate sono : a) un partenariato pubblico privato (in cui le imprese finanzino il 50% dei costi della ricerca) per meglio coordinare e focalizzare i programmi specifici (la cui durata dovrebbe essere tra i cinque ed  i dieci anni) da chiamarsi “programmi mobilizzatori per l’innovazione industriale(con un finanziamento pubblico tra i 30 ed i 50 milioni di euro per progetto e per anno) ; b) un’attenta attività di identificazione, valutazione e selezione dei programmi mobilizzatorida parte delle strutture tecniche della pubblica amministrazione; c) la creazione di un’Agenzia per l’innovazione industriale nell’ambito della Presidenza del Consiglio (con una dotazione di 6 miliardi di euro) ; d) la proposta, da parte della  Francia, per l’istituzione di un’Agenzia europea ad essa analoga con il compito di definire programmi mobilizzatori a livello europeo seguendo parametri e criteri coordinati di identificazione, valutazione e selezione. L’Agenzia francese è stata creata e , di recente, sono state prese iniziative per una collaborazione franco-italiana, specialmente nel settore agro-alimentare. Di Agenzia europea si è parlato nel 2005-2008 quando la crisi economica e finanziaria ha causato il dirittamente di energie ed attenzione verso altri temi. Sta riaffacciando nel recente Piano Juncker ancora in corso di definizione.

 Il ‘Rapporto Beffa’ contiene una serie di indicazioni che possono essere utile alla messa a punto ad una strategia di politica industriale. Occorre tuttavia tenere presente che ci sono differenze importanti tra la struttura industriale della Francia e quella dell’Italia.  Il nostro Paese è stato tradizionalmente aperto al commercio internazionale sin dagli anni immediatamente successivi alla seconda guerra mondiale, mentre la Francia, come si è visto, è colbertianamente protezionista. L’industria francese  è dominata da grandi imprese anche in settori ad alto valore aggiunto e forte carica innovativa. Quella italiana è caratterizzata da piccole e medie imprese; anzi, dalla metà degli Anni Ottanta la maggiore carica innovativa è stata quella dimostrata dalle piccole e medie imprese che sono diventate la struttura portante del nostro processo di internazionalizzazione.

Le multinazionali italiane

 L'economia italiana ha, infatti, tradizionalmente un alto grado di apertura al commercio internazionale: l'export è pari al 23% del p.i.l e l'import al 20%. Tuttavia,  la globalizzazione è  stato  fenomeno relativamente tardivo, e  accentuato unicamente a partire dalla seconda metà degli Anni Ottanta. Sino ad allora, in effetti, vincoli valutari - oltre che una chiusura relativamente forte della società italiana rispetto al resto del mondo - facevano sì che, nonostante l'alto grado di apertura al commercio internazionale, l'Italia fosse tra i sette maggiori Paesi industriali uno dei meno globalizzati:  ancora nel 1985, l'Italia era, con il Canada, il solo tra i grandi Paesi industriali a presentare  un saldo negativo nella bilancia tra investimenti diretti all'estero in uscita ed in entrata, mentre oggi tale bilancia è sostanzialmente in pareggio in quanto gli investimenti diretti italiani all'estero sono cresciuti di ben due volte e mezzo nell'arco degli ultimi dieci anni. Alla metà degli Anni Novanta, erano ben 445, le "multinazionali" a base italiana, ossia i gruppi o le imprese autonome che partecipano in almeno un'impresa industriale all'estero dotata di stabilimento produttivo. All’ultima conta di cui io abbia traccia, ossia al primo gennaio 2004, 5415 imprese italiane hanno partecipano in oltre 15.000 imprese estere (con un totale di oltre 1.100.000 dipendenti) ed un fatturato di 265.625 milioni di euro; 4600 imprese italiano hanno partecipazioni di controllo in imprese estere (per 900.000 dipendenti ed un fatturato di 211.000 milioni di euro). Una caratteristica dell’Italia, rispetto ad altri Paesi, è che le “multinazionali” italiane hanno spesso una base “nazionale” di media portata – oltre la metà hanno in Madrepatria meno di 500 dipendenti.

   Una politica di “campioni europei”, quindi, comporta opportunità e rischi: le prime possono essere riassunte in una gamma di opzioni positive di ingresso in nuove filière di processo e di prodotto (ad esempio in tema di energia anche nucleare); i secondi sono, invece, quelli di restare in un ruolo secondario e subordinato rispetto a partner, come i francesi, di maggiori dimensioni e più agguerriti sotto il profilo tecnologico e manageriale. Tuttavia, vale probabilmente la pena prendere “rischi calcolati”, specialmente in quanto l’Italia (al pari di Francia e Germania) non ha alternative ad una strategia produttiva fondata su industria manifatturiera ad alto valore aggiunto: a differenza della Gran Bretagna, dell’Irlanda e di altri Paesi non disponiamo della dote naturale di una lingua internazionale (e di una tradizione mercantile-finanziaria anch’essa internazionale) da consentirci di trasformarci in una grande piazza mercantile. In un contesto di integrazione economica internazionale, settori come il turismo saranno sempre più ad alti costi relativi ed a basso valore aggiunto.

4-Il Rapporto Gallois

Mentre nel 2005 e negli anni immediatamente successivi, il ‘Rapporto Beffa’ ha avuto una notevole eco in Italia (sono stati pubblicati brevi saggi e si sono tenuti dibattiti), il ‘Rapporto Gallois’, pubblicato il novembre 2012 è passato quasi inosservato nel nostro Paese. Il primo guarda alla politica industriale in una fase in cui la crisi economica e finanziaria era lontana (ma si avvertiva già un rallentamento dell’economia reale europea), mentre il secondo tratta temi molto simili ma dopo quattro anni di crisi (ed il cambio di inquilino all’Eliseo) e quando le previsioni indicavano una debole ma progressiva uscita dalla crisi. Occorre ammettere che , in quel periodo, in Italia si andava verso elezioni di Camera e Senato e l’attenzione era, quindi, rivolta essenzialmente a temi interni. Inoltre, la stessa pubblicistica francese mostrava il Rapporto Gallois’principalmente come un ponte verso (la politica industriale de) la Germania , glissando , però, sulle differenze , profonde e radicate, riassunte al para.2 di questa nota.
 A differenza di Beffa (da sempre nel settore privato), Louis Gallois è un alto funzionario pubblico: Commissario generale agli investimenti. Sulla base dell’incarico specifico- il documento intitolato Patto per la competitività dell’industria francese – la Francia ha poi adottato una serie di misure per cercare di rilanciare il settore industriale. Il rapporto è utile sia perché fornisce un’analisi completa della condizione in cui versa un paese europeo importante come la Francia, sia perché mostra i limiti delle politiche economiche e degli obiettivi di uno Stato nazionale che, in quanto tale, risponde esclusivamente al proprio elettorato.
Innanzitutto, l’eco che il ‘Rapporto’ ha suscitato in Francia, e il fatto stesso che sia stato commissionato, sono un’ulteriore prova del fatto che, rispetto alla logica dominante prima della crisi, il futuro dello sviluppo economico non è più pensato in termini di ampliamento del settore dei servizi, in particolare di quelli finanziari, considerati anche nel ‘Rapporto Beffa’ fa assolutamente prioritari, ma si cerca di perseguire un rafforzamento del settore manifatturiero. Si torna a capire che la produzione manifatturiera comporta anche una serie di ricadute importantissime per il ‘sistema-Paese’, a partire dall’accesso alle tecnologie più avanzate e sofisticate, e che (come dimostrano la Cina e la Germania) è strategico sviluppare la propensione alle esportazioni e alla creazione di alto valore aggiunto.
Il rapporto parte da un’analisi dei dati macroeconomici che fanno stimare a Gallois che la Francia si trovi in condizioni prossime ad una soglia critica, superata la quale la minaccia di destrutturazione dell’apparato industriale diventerebbe reale. La Francia è infatti passata da un rapporto del valore aggiunto nel manifatturiero del 18% nel 2000 a poco più del 12,5% nel 2011 e si colloca al 15 posto nell’eurozona in quanto ‘potenza industriale. Secondo il documento, i paesi europei piu avanzati sono, sotto questo profilo, sono la Germania (26,2%), la Svezia (21,2%) e l’Italia (18,6%). Complessivamente la Francia ha perso due milioni di posti di lavoro nel ramo industriale che nel 2000 rappresentava il 26% dell’occupazione mentre oggi sfiora  il 12,6%, cioè la metà. Queste cifre mostrano che c’è, anche, un problema di economia comportamentale che si è venuta a creare: uno dei luoghi comuni da sfatare è che il lavoro nel settore industriale oggi sia meno redditizio rispetto a quello nel settore dei servizi. La Francia si trova . quindi, con il problema di dover cercare di aumentare il numero degli ingegneri, dei tecnici, degli operai, dei ricercatori scientifici.
La Francia è passata dall’essere un paese esportatore nel 2000, sebbene con una eccedenza lieve rispetto alle importazioni, all’essere diventata un paese importatore con un consistente deficit di 70 miliardi nella bilancia dei pagamenti. L’eurozona è il maggior mercato di sbocco per i francesi, ma, nonostante ciò, la Francia rappresenta solo il 9% (12% nel 2000) delle esportazioni interne all’eurozona mentre ad esempio la Germania rappresenta il 22% (20% 2000).
Quali sono le ragioni della perdita di quote di mercato così ampie? Secondo il documento, la Francia sembra schiacciata da un lato dal modello tedesco, il cui settore industriale è posizionato su un segmento di gamma e di valore aggiunto superiore meno sensibile al fattore prezzo ed è sostenuto da una politica economica che permette un contenimento dei costi (anche per effetto dei bassi salari nei servizi, inconcepibili in Francia) che avvantaggiano ulteriormente le imprese, i cui margini di profitto superiori favoriscono la crescita degli investimenti.
Dall’altro lato, dai paesi emergenti che hanno costi unitari di produzione ancor più bassi e che al tempo stesso sono sempre più in grado di produrre beni di valore aggiunto sempre maggiore e con contenuto tecnologico sempre più elevato.
Secondo il ‘Rapporto’, la reazione dell’industria francese rispetto a questa duplice concorrenza è stata quella di cercare di preservare la competitività dei prezzi a discapito della sua competitività globale: i margini di guadagno si sono così abbassati dal 30% al 21% nel periodo 2000-2011, mentre nello stesso periodo in Germania crescevano del 7%. Di conseguenza il tasso di autofinanziamento è crollato dall’80% al 65%, quando in Europa è vicino al 100%. Gli investimenti per aumentare la produttività e l’innovazione del processo di produzione sono calati drasticamente e le imprese francesi, fatti salvi alcuni settori di punta, hanno perso terreno rispetto alle migliori industrie europee.
A detta di Gallois e dei suoi collaboratori, il primo settore su cui la Francia deve intervenire per invertire il trend negativo è dunque quello della ricerca, dell’innovazione e della formazione. La spesa statale francese in R&S è tra le più alte in assoluto (2,24% del Pil), ma allo stesso tempo è bassa la quota degli investimenti privati (solo l’1,4% del Pil, ossia la metà rispetto ai paesi scandinavi e alla Germania e molto inferiore in generale alla media dell’eurozona). Inoltre, mentre in Germania il 5,4% delle imprese tedesche ha beneficiato di finanziamenti pubblici per la ricerca e lo sviluppo, in Francia ciò è accaduto solo per l’1,4%. delle aziende Questo significa che la spesa statale francese in R&S è poco orientata al sostegno del settore industriale, che così somma le due difficoltà, quella ad ottenere finanziamenti statali e il basso tasso di autofinanziamento.
Il ‘Rapporto’ prosegue con un lungo elenco di criticità del sistema francese, che include la mancanza di medie imprese (il sistema è polarizzato tra grandi gruppi a vocazione internazionale e imprese troppo piccole, spesso a carattere familiare, per riuscire a svilupparsi e ad essere competitive sul mercato internazionale); una scarsa capacità di fare rete da parte delle imprese e un cattivo funzionamento delle filiere; una scarsa solidarietà territoriale; un’eccessiva delocalizzazione che ha fortemente destrutturato ampie filiere industriali; un mercato del lavoro che necessita di essere meglio organizzato per eliminare rigidità che pesano in taluni settori mentre in altri vige una totale mancanza di protezione. Il documento cerca di evidenziare i vantaggi del paese su cui far leva per cercare di far ripartire il settore industriale, che vanno dalle eccellenze nazionali, ad un buon sistema di infrastrutture e servizi pubblici, ad un basso prezzo dell’energia elettrica, ad un’alta qualità della vita e ad una produttività oraria del lavoro ancora tra le più alte in Europa.
Sulla base di questi punti di forza, e con l’obiettivo di andare a correggere le debolezze, il ‘Rapporto’ indica una serie molto dettagliata di proposte di riforme ed interventi che suggerisce al governo di avviare. Il quadro europeo, in questo contesto, è citato solo nella prospettiva di rafforzare le politiche comunitarie già in essere, concepite in un’ottica di coordinamento e cooperazione intergovernativa.
Nessun riferimento, quindi, al dibattito in corso sui vincoli di bilancio derivanti dagli impegni assunti nell’eurozona, sull’ipotesi di un piano di sviluppo europeo, oltre che su parziali condivisioni del debito o progetti di partnership euro-mediterranea. Le proposte restano meramente nazionali, con tutti i limiti che le caratterizzano: ad esempio, sulla questione dell’energia, il rapporto tiene a sottolineare che lo sviluppo delle risorse rinnovabili non deve mettere a repentaglio il basso costo dell’energia, tant’è che gli investimenti suggeriti in campo energetico riguardano soprattutto il settore degli scisti bituminosi e del gas naturale. Non ci si pone quindi il problema di prevenire un effetto collaterale, il maggiore consumo energetico, legato all’auspicato aumento della produzione industriale, sacrificando così l’obiettivo di lungo periodo del risparmio energetico (strategico sotto molti punti di vista) in nome della competitività nel breve periodo. In questo senso basta fare un paragone con paesi come la Cina, l’India e il Brasile che possono permettersi di tutelare i propri interessi anche di lungo periodo investendo largamente nel settore delle energie rinnovabili e sostenibili (basti pensare che la Cina è il paese che investe maggiormente per le rinnovabili al mondo).
Più in generale, il rapporto, nel momento in cui affronta la questione di quale politica economica favorire tra la demand side economy e la supply side economy, mostra  come il fatto di usare esclusivamente il criterio nazionale per valutare i vantaggi e gli svantaggi dei due approcci, impedisca un’analisi adeguata. Poiché si considera “importazione” anche ciò che proviene dagli altri paesi dell’UE e si pone la questione che in un mercato unico i vantaggi del sostegno alla domanda interna ricadono anche sugli altri partner commerciali, la scelta deve per forza ricadere sulla supply side economy, e di conseguenza si suggeriscono misure per il sostegno alle imprese e all‘esportazione, senza tenere adeguatamente conto i vincoli europei in materia di aiuti di Stato. Secondo il documento, le risorse devono essere reperite con un mix di tagli alla spesa pubblica e aumento delle imposte, con l’obiettivo di raccogliere in brevissimo tempo 30 miliardi di euro, l’1,5% Pil. L’ambizione di un grande piano di sviluppo si riduce, quindi, ancora una volta, alla decisione di puntare a sostegno  alle imprese e conseguenti aumenti della tassazione.
6 Il Rapporto Bersani.

A mia memoria, l’ultimo ‘Rapporto’ complessivo di politica industriale prodotto da un Governo italiano risale alla metà degli Anni Ottanta, circa quattro decenni fa. Circa  dieci anni fa, un nuovo ‘Rapporto’ era stato predisposto dall’allora Ministro delle Attività Produttive e discusso nell’ambito di un comitato di consiglieri del dicastero. Non venne finalizzato a ragione del cambio di titolare del Ministero, a causa di un’improvvisa malattia del Ministro che lo aveva commissionato.
Nel 2006, il Ministro per lo Sviluppo Economico Pierluigi Bersani pubblica  Industria   2015, un documento che indica  linee strategiche, basandole su una concezione che integra la produzione manifatturiera con i servizi avanzati e le nuove tecnologie, in una prospettiva di medio-lungo periodo (il 2015). Non era un Rapporto complessivo di politica industriale per due serie di ragioni: a) all’inizio del decennio, una riforma costituzionale aveva trasferito alle Regioni numerose competenze in materia di politica industria; b) rappresentava il supporto concettuale di quella che sarebbe dovuta essere una normativa quadro, corredata da una serie di nome specifiche. A ragione della fine anticipata della legislatura, solamente una parte di queste misure hanno visto la luce del giorno. Tuttavia, ‘Industria   2015’ rappresenta un tentativo di rilievo di dare coerenza alla politica industriale dell’Italia in un’ottica prospettiva di medio-lungo termine.
L'obiettivo della politica industriale delineata da ‘Industria 2015’ è l'uscita dalla situazione di crisi dell’economia italiana; il documento propone di raggiungerlo mediante la centralizzazione del ruolo dell’industria nell’ambito di una rinnovata attenzione culturale (che coinvolga tutta la società e non solo la politica), ai temi dell’economia reale. Inoltre, nella comune presenza di personale italiano e immigrato,’Industria 2015’ vede il tempo trascorso all'interno dell'impresa come un'occasione privilegiata per la pacifica integrazione di culture diverse
Gli strumenti sui quali ruota l’azione di Industria 2015 sono: a) i progetti d’innovazione industriale; b) le reti d’impresa; e c) la finanza innovativa. Secondo ‘Industria 2015’il sistema produttivo italiano del futuro dovrebbe camminerà su “due gambe”, costituite da:
1.     una serie di meccanismi generalizzati per la riqualificazione ed il rafforzamento della Piccola e Media Impresa (PMI), da sostenere nella ricerca, nella riduzione dei costi, nella promozione degli investimenti e nella crescita dimensionale;
2.     i nuovi sistemi di incentivazione “su misura”: i Progetti di innovazione industriale (PII), da realizzarsi per singoli obiettivi strategici, individuando aree tecnologico-produttive con un forte impatto sullo sviluppo.
I PII sono lo strumento principale e più innovativo introdotto da ‘Industria 2015’,; sono concepiti in quanto basati sulla sinergia fra enti locali, università e  centri di ricerca che operano sotto la guida di un singolo responsabile di progetto di comprovata esperienza nel settore strategico relativo. Un fondamento dei PII è la collaborazione tra amministrazioni centrali dello Stato che si concretizza, finanziariamente, nel coordinamento tra i Fondi per la ricerca e i Fondi per lo sviluppo per il finanziamento congiunto dei progetti. I PII sarebbe stati  individuati in base alle linee strategiche di ‘Industria 2015’, e dovrebbero possedere le seguenti caratteristiche:
1.     focalizzazione sugli obiettivi di avanzamento tecnologico definiti nelle linee strategiche;
2.     ricaduta industriale in termini di nuovi processi, prodotti o servizi;
3.     integrazione di strumenti di aiuto alle imprese, azioni di contesto, misure di regolamentazione e semplificazione amministrativa;
4.     coinvolgimento di grandi imprese, PMI, centri di ricerca;
5.     sinergia dei soggetti pubblici responsabili delle azioni a sostegno, e particolarmente delle Regioni che sarebbero dovute intervenire nelle operazioni di finanziamento;
6.     attenzione allo sviluppo delle imprese giovanili.
                          
Le reti d’impresa avrebbero  costituto un’alternativa per quelle aziende che vogliono aumentare la loro forza senza doversi necessariamente unire in una fusione o concentrazione oppure  ricadere sotto il controllo di un unico soggetto. La loro base giuridica sarebbe un “Contratto di rete” che evidenzierebbe gli obiettivi strategici e le attività comuni che diano luogo al miglioramento della capacità competitiva ed innovativa sul mercato.
Nell’ambito di ‘Industria 2015’ Il Ministero dello Sviluppo Economico ( di concerto con i ministeri dell'Economia e delle Finanze e della Giustizia), ha il compito di elaborare e presentare al Governo disegni di legge per definire queste nuove forme di aggregazione, seguendo i seguenti criteri:
  • definire i requisiti di stabilità delle reti di imprese e le nuove forme di coordinamento e direzione al loro interno;
  • verificare i loro effetti giuridici in relazione alla diversità di queste con i raggruppamenti ed i consorzi;
  • prevedere la presenza di imprese straniere, disciplinando reti transnazionali sia europee che extra-UE;
  • includere la possibilità che nelle reti di impresa possano confluire imprese sociali ed imprese senza fini di lucro.
 Sulla base di Industria 2015 con la legge di bilancio del 27 dicembre 2006 sono stati istituti, utilizzando risorse esistenti in linee di finanziamento esistenti due nuovi fondi pubblici per realizzare gli obiettivi di innovazione industriale e sostenere lo sviluppo del sistema produttivo italiano: a) il fondo per la competitività e lo sviluppo; b) il fondo per la finanza d’impresa- Questa è essenzialmente un’opera di razionalizzazione e di utilizzazione più efficace delle risorse. In questi  anni di attuazione della normativa, i due fondi sembrano funzionare in linea con gli obiettivi.
7  Implicazioni per la politica industriale dell’Italia
‘Industria 2015’ ha numerosi punti in comune con il ‘Rapporto Beffa’ ed il ‘Rapporto Gallois’. Con le azioni di politica industriale tedesca –in gran parte esercitata a livello dei Länder ha in comune un unico punto: il tentativo di giungere, tramite le reti di impresa, ad un aumento della dimensione aziendale media (mantenimento, al tempo stesso, inalterata la caratteristica e la struttura familiare di numerose PMI italiane. A dieci anni quasi di distanza dalla sua redazione deve essere visto unitamente ad altri documenti , in particolari quelli sulle tax expenditures , analizzate in uno studio commissionato dal Governo Monti al Prof. Francesco Giavazzi, nonché in uno dei volumi della spending review commissionata dal Governo Letta al Dr. Carlo Cottarelli. Non mancano studi valutativi (con conclusioni spesso non incoraggianti) dell’esteso uso di interventi diretti per obiettivi puntiformi – imprenditoriali giovanile, imprenditoria femminile, salvataggi di grandi aziende in dissesto, aiuti a medie aziende in crisi, promozione di energie alternative, e via discorrendo.
Dall’insieme di questi documenti, esce un caleidoscopio di difficile lettura su quali sono state le linee guida sottostanti la politica industriale italiana negli ultimi anni- in particolare quale sia il mix tra politica industriale ‘difensiva’ (mirata a sostenere l’esistente oppure ad agevolarne una trasformazione lenta e graduale) e politica industriale ‘offensiva’ (mirata esplicitamente al cambiamento). Non è neanche chiaro quale siano state le determinanti che abbiano indotto, in certi casi, ad utilizzare misure tributarie, aperte a tutti gli interessati e quindi non discriminatorie, ed in altri e interventi diretti – necessariamente selettivi e, dunque, discriminatori. Appare, però, che, nella realtà effettuale, la politica industriale italiana sia stata più vicina a quella che in Francia il’Rapporto Beffa’ e, forse in minor misura, il ‘Rapporto Gallois’ hanno cercato di cambiare e modernizzare che a quella tedesca. . Eppure è in gran misura con l’industria manifatturiera tedesca che ci confrontiamo sul mercato europeo e su quello internazionale. Il ‘Rapporto Bersani’ ‘Industria 2015’ è , come si è visto, il maggior, e più coerente, tentativo di razionalizzare obiettivi e strumenti
La prima conclusione di questa nota preliminare è l’esigenza di passare da una politica industriale ‘difensiva’ ad una ‘offensiva’ che minimizzi gli interventi diretti (anche in quanto spesso origine di vertenze con l’UE in quanto aiuti di Stato o palesi o in maschera) e riduca e razionalizzi le tax expenditures in linea con le raccomandazioni dei documenti di Giavazzi e di Cottarelli-
Emergono comunque alcune indicazioni da discutere in seno al Gruppo di Lavoro.
In primo luogo. per ridare slancio al manifatturiero italiano è necessario concentrare le risorse su disponibili su una politica dell’innovazione. L’obiettivo dovrebbe essere quello di raggiungere la media europea di spesa per  R&D entro tre anni. Si tratterebbe di una vera rivoluzione copernicana per un’Italia a cui non basta più essere considerata la Patria del bello per essere competitiva sui nuovi scenari dei mercati mondiali, occorre spostare la produzione su settori a più alta tecnologia, dove il fattore conoscenza diventa prioritario, e, nel contempo, alzare il livello tecnologico dei settori tradizionali del made in Italy per realizzare il “bello ben fatto”, coniugando creatività e innovazione, gusto estetico e nuovi materiali.  Una politica industriale , quindi, al fine di mantenere la leadership sui nostri settori di eccellenza e, contemporaneamente, ricostruire la presenza di aziende e di alcune grandi imprese competitive nei prodotti del futuro.
Il programma potrebbe  essere articolato su tre linee principali
a). Puntare su cinque /sei  grandi progetti collegati a settori/prodotti di sicura futura crescita di mercato e che presentino una ricaduta industriale di filiera, per un complessivo impegno finanziario. I progetti dovrebbero essere individuati da un “comitato di saggi” con una presenza del mondo della amministrazione e della scienza, ma con prevalenza della cultura industriale. Il comitato dovrebbe anche indirizzare e sorvegliare la esecuzione dei progetti e gestirne i risultati ai fini di massimizzarne l’effetto in termini produttivi.
b). Mettere a disposizione dei progetti di ricerca delle imprese fondi rotativi aggiuntivi, da concedere a tasso zero per la durata di sei-otto anni. In tale modo, senza prevedere fondi perduti le richieste delle aziende si concentreranno sui progetti il cui costo potrà essere recuperato sul mercato; inoltre si esalterà il carattere rotativo del fondo venendosi a costituire in pochi anni di finanziamento un montante cospicuo.
c). Incentivare in maniera orizzontale ed “automatica” la innovazione, soprattutto nelle PMI e nelle imprese di media dimensione al fine di aumentarne le capacità competitive, moltiplicando i “campioni nazionali” non solo nei settori di nicchia. Soltanto poche PMI sono in grado di impostare e svolgere veri e propri programmi di ricerca pertanto occorre varare norme che forzino l’innovazione e la competitività nei prodotti del made in Italy. Nel primo anno si può puntare su
a)     esenzione dall’Irap dei costi del personale impiegato in azienda nella creazione di prototipi (nuovi modelli di macchine, nuovi materiali, campionari, ecc.); queste attività che precedono la produzione seriale sono presenti soprattutto nelle Pmi più dinamiche e competitive sui mercati mondiali; costo previsto 300 milioni di euro l’anno.
b)    credito di imposta automatico per il 40% del costo delle ricerche commissionate dalle imprese alle università; costo previsto 200 milioni di euro l’anno.

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