STRUMENTI
PER LA POLITICA INDUSTRIALE EUROPEA
Una nota preliminare
Giuseppe Pennisi
.
14 maggio 2015
1 Premessa
Questa
nota preliminare contiene un primo raffronto tra le politiche industriali di
Francia e Germania, sulle base delle mie esperienze sia nella veste (alcuni
anni fa) di consigliere dell’allora Ministro delle Attività Produttive sia del
mio interesse per la Repubblica Federale Tedesca. Mi soffermo in particolare
sul ‘Rapport Beffa’, a mio avviso il
documento più completo pubblicato in materia , anche se ormai datato (poiché finalizzato
nel gennaio 2005). Tratto anche del “Rapporto
Bersani”, ultimo esempio (a mia memoria) di documento complessivo su questi
temi in Italia , ma ormai obliato (anche esso del 2005-2006).
2 Politica
industriale in Germania e Francia: due approcci molto differenti. La difficoltà
di giungere ad una politica industria europea
Le
politiche industriali di Germania e Francia sono le più esplicite nell’ambito
dell’Unione Europea (UE). Sono anche quelle che dominano il dibattito europeo
Mentre la filosofia, per così dire, della
politica industriale francese (su cui è stata in gran misura modellata quella
italiana dagli Anni Sessanta alla fine degli Anni Ottanta) è abbastanza nota,
lo è meno quella sottostante la politica industriale tedesca. E’ la politica
industriale tedesca , tuttavia, ad avere inciso profondamente sul Trattato di
Lisbona (tramite l’’economia sociale di mercato’, posta al centro della
costruzione europea) e sulla politiche industriali di numerosi Stati neocomunitari
dell’Europa centrale ed orientale. E’ poco conosciuta in Italia non solamente
per ragioni linguistiche ma in quanto non usa esprimersi in ‘Rapporti’
periodici al Governo od all’Assemblea Nazionale.
In
Italia, la “vulgata” corrente è che la Repubblica federale tedesca si oppone
all’idea stessa di politica industriale europea ed a maggior di politiche
industriali nazionali. E’ una vulgata che non ha alcuna base concettuale . In
Germania, è vero, c’è una forte il ripresa dell’’ordoliberismo’ (il liberismo
delle regole, ma di regole che siano poche e semplici, non di guazzabugli che
hanno spesso caratterizzato la politica dell’industria in Italia come
sottolineato da Giuliano Amato in un suo libro del lontano 1976) tanto che –
come ha sottolineato The Economist
il 9 maggio – quattro dei cinque componenti del Comitato dei consiglieri
economici del governo federale hanno matrici ‘ordoliberiste’.
E’
doveroso dire che, negli ultimi tempi,
l’ufficio in Italia della Konrad Adenauer Stiftung (Kas) ha fatto molto per
fare conoscere l’’economia sociale di mercato’ in corsi seminariali organizzati
in partnership con un’universitaria paritaria (la Lumsa) ed una delle
università pontificie (la Lateranense). Nel recente passato (nel 2009-10), io stesso
ebbi l’occasione di lavorare con economisti e politologici tedeschi,
nell’ambito di un programma della Kas e della Fondazione Fare Futuro,
caratterizzato da seminari a Roma ed a Berlino ed una sessione finale di tre
giorni- a Villa Collina (la residenza
estiva di Konrad Adenauer sul lago di Como). Il prodotto fu un cofanetto di
volumetti pubblicati dall’Editore Rubbettino
in tedesco ed in italiano; riguardano non solo argomenti economici, ma anche
politici ed istituzionali; credo siano disponibili all’ufficio romano della
Kas- possono essere utili a chi vuole affrontare queste tematiche.
C’è
una folta letteratura recente in italiano; ad esempio, un saggio molto sintetico ma efficace di Flavio Felice (Rubettino 2008) e
l’antologia di scritti “ordoliberisti” curata da Francesco Forte nel 2014. Utilissima anche la recente
pubblicazione in italiano di ‘Produzione
e Produttività di Friedrich A. von
Hayek da parte dell’Istituto Bruno Leoni) per toccare con mano come una
politica industriale di mercato sia non solo perfettamente compatibile con l’’ordoliberismo’
tedesco ma sia stata attuata con efficienza ed efficacia al fine, ad esempio,
di ampliare (tramite incentivi tributari) la dimensione media delle azione
negli anni di preparazione all’unione monetaria.
Ho
citato le agevolazioni tributarie erga
omnes ac omnia, quindi non distorsive della concorrenza, per giungere ad un
ampliamento delle dimensioni medie delle imprese tedesche (soprattutto
manifatturiere).
A livello federale, è doveroso citare il
programma definito con i sindacati per la ristrutturazione della maggiore
industria del Paese, la Volkswagen. Soprattutto, però, l’azione incisiva è a
livello dei Länder. Qui, la politica partitica si tiene a mezzo passo di
distanza: le strategie, a livello dei singoli Länd, vengono attuate tramite la
collaborazione tra associazioni di datori di lavoro, sindacati, Landesbanken e Landeskasse. Ricordo a
riguardo un dibattito da me organizzato a Bologna circa vent’anni fa (su
politica industriale a livello locale
tramite Cassa di Risparmio , Banca Popolari e Istituti di credito
cooperativo in Italia, da un lato, e Landesbanken
e Landeskasse in Germania,
dall’altro) tra Stefano Zamagni e Padmanabh Gopinath (economista indiano che allora
dirigeva l’Istituto Internazionale di Studi Sociali a Ginevra).
I
maligni dicono che questa è una delle ragioni, ove non la fondamentale, per cui
le Landesbanken e Landeskasse sono sottratte alla
vigilanza della Banca centrale europea (Bce). Forse occorre chiedersi se dalle Landesbanken e Landeskasse non si sarebbe potuta trarre qualche utile lezione nel
riassetto delle nostre Banche Popolari e
dei nostri Istituti di Credito Cooperativo prima di muoversi su un sentiero che
numerosi esperti ritengono affrettato. Può essere utile ricordare che c’è una
buona dose di ‘ordoliberilismo’ nell’Appello Politico agli Italiani dell’Osservatorio Internazionale
Cardinal Van Thuan sulla Dottrina Sociale della Chiesa (un comitato
internazionale di matrice cattolica) pubblicato da Cantagalli Editore nel 2014
, poco prima le elezioni europee.
In Francia sia il ‘Rapport
Beffa’ sia il più recente ‘ Rapport
Gallois’ (2012) riflettono chiaramente una politica industriale
“colbertista”, dal nome di Jean-Baptiste Colbert,, il Ministro delle finanze e dell’economia
di Luigi XIV che sta riacquistando sta acquistando notorietà nell’Italia di
oggi. Il suo nome è circolato frequentemente nel 2004-2005 all’indomani di un discorso pronunciato a
Pesaro dall’allora Ministro dell’Economia e delle Finanze, Giulio Tremonti, a
proposito dell’adesione della Cina all’Organizzazione Mondiale del Commercio
(Omc) e delle implicazione che ciò comporta in materia di applicazione dei
principi di reciprocità e di non discriminazione (i due pilastri dell’Omc). E’
stato ascoltato anche in occasione dello sciopero proclamato dalla Cgil sui
problemi dell’industria manifatturiera in generale e della metal meccanica in
particolare. E’ riecheggiato nelle richieste e delle tre maggiori sigle
sindacali e della Confindustria a proposito di “politica industriale” per le
aziende in crisi . Colbert fu un uomo di stato di multiformi attività. Da
Segretario alla Marina, potenziò la flotta, modernizzò i cantieri navali e aprì
rotte sull’Atlantico per creare “Nouvelle
France”, la prima colonia francese in quello che è oggi è il Canada.
Accademico di Francia, fu anche uomo di lettere ed urbanista; guidò il
riassetto di molte città francesi e fondò l’Académie de France a Villa Medici a Roma. E’ ricordato,
però, principalmente per il suo ruolo nell’economia: fautore dell’intervento
pubblico, riorganizzò le autonomie locali ed il sistema tributario (abrogando
esenzioni e deduzioni); adottò una politica per attirare in Francia lavoratori
stranieri con professionalità che mancavano nel Regno (per le banche, la
finanza, l’industria nascente)- attirò tra l’altro numerosi banchieri italiani;
mise, soprattutto, in atto una strategia mercantilista diretta a potenziare
l’export e proteggere, con dazi e contingenti, le manifatture nazionali.
Un
pianificatore od un liberista? Nel contesto del Seicento francese, deve,
paradossalmente, essere considerato un liberalizzatore a fronte della
frammentazione di mercati locali regolati da interessi particolaristici, del
pensiero “bullionista” ancora imperversante (favorevole alla più ampia
circolazione di moneta nei confini del territorio nazionale ed alla “cattura”
di metalli preziosi) e del protezionismo pure più spinto (si pensi all’Atto di
Navigazione che vietava l’import di merci non trasportate su navi di Sua Maestà
Britannica) vigente sull’altra sponda della Manica. In breve, sempre nel
contesto dell’epoca, un liberale nazionale favorevole ad uno Stato decisamente
regolatore e, quindi, anche ispettore.
1. Come Faust, il
Colbert economico aveva, però, due anime. Dato che era (si direbbe oggi) “un
uomo del fare”, piuttosto che del teorizzare, non lasciò nessuno scritto
organico; quindi, le sue anime vanno ricavate dai suoi “decreti”. L’anima
liberale-regolatoria (nel quadro della Francia del Seicento) traspare dal
rigore delle misure contro la contraffazione e la corruzione (della pubblica
amministrazione e dei concessionari di esazione delle imposte). Quella
nazionale-mercantilista dalla tariffa doganale e dagli incentivi (su base non
discriminatoria, grande segno di modernità a quell’epoca) per l’industria
francese. Le due anime hanno dato
origine a due filoni distinti; ambedue si riconoscono in Colbert , pure nella madre-Patria, ma non si
amano; anzi, come avviene in molte famiglie, da oltre tre secoli litigano per
l’eredità (il nome) dell’illustre antenato. Un filone ha sempre promosso la
teorizzazione e razionalizzazione dell’intervento pubblico dell’economia; nella
stessa Francia ha prodotto la “programmazione
indicativa” ed il Commissariato al Piano, metodi e strumenti a cui si abbeverarono
molti economisti italiani all’inizio degli Anni Sessanta. Un altro filone è
quello dove a cui si ispirò Frédéric Bastiat. Liberista integrale, anzi
integralista (nonché padre della roccaforte liberista viva e vegeta
nell’Università di Aix en Provence), Frédéric Bastiat definì, prima degli
economisti scozzesi, le condizioni essenziali per un mercato funzionante: una
“soglia minima” di simmetria di posizioni e di informazioni. In breve, il
mercato produce benessere solo se nessuno bara, almeno per quanto attiene alle
regole di base. Per molti aspetti, fu un precursore degli ‘ordoliberali’
tedeschi.
In materia di politica industriale e
commercio internazionale, la divisione tra i due filoni di eredi di Colbert è
netta. Un filone ha dato vita ad una scuola di pensiero ed azione nettamente
protezionista ed a favore di industrie decotte e carrozzoni per tenerle in vita
(pur se solo vegetativa); in Italia iniziò a prendere piede già nel 1878 con la
tariffa doganale Luzzatti, proseguì negli Anni Trenta e riapparve negli Anni
Settanta con gemme quali la “legge Prodi” e
la netta chiusura di numerosi ambienti culturali alle liberalizzazioni,
pure a quelle conseguenti gli accordi di cambio europeo del 1978. La seconda,
invece, ha rappresentato il filone che ha scelto l’apertura dell’economia
italiana al mercato internazionale ed ha tenuto duro anche nell’esperimento di
“solidarietà nazionale” che ha portato a dilatazione dell’intervento e della
spesa pubblica ed progressive svalutazioni. A livello internazionale, è alla
base dalla filosofia del Gatt prima dell’Omc (Organizzazione Mondiale del
Commercio) poi – ambedue basate sui principi della non-discriminazione e della
reciprocità in materia di commercio internazionale. Dall’inizio degli Anni
Ottanta, però, risoluzioni parallele dell’Omc e dell’Organizzazione
Internazionale del Lavoro (Oil) affermano che tali principi devono essere
applicati tenendo conto di “soglie invalicabili”, sotto il profilo sia
economico sia morale: non si possono aprire le porte del commercio
internazionale a chi bara sfruttando il lavoro minorile, il lavoro coatto,
financo la schiavitù ed a chi non mantiene standard minimi di regole
lavoristiche e sanitarie (per l’appunto le convenzioni “fondamentali”
dell’Oil).
3- Il Rapporto Beffa
Il
documento è stato commissionato dal Presidente della Repubblica francese,
Jacques Chirac (a cui è stato presentato il 15 gennaio 2005) ad un gruppo di
esponenti del mondo dell’industria, nonché di economisti, guidato dal
Presidente ed Amministratore Delegato dalla Compagnie Saint Gobain, Jean-Louis
Beffa.. L’incarico era stato conferito il 30 settembre 2004; quindi, il documento
(45 pagine a stampa fitta, con l’aggiunta di alcune appendici) è stato redatto
nel giro di poche settimane. Occorre fare un riferimento al quadro politico
generale: il documento di situa in un contesto di progressivo allentamento
della stretta collaborazione industriale tra Francia e Germania e, per alcuni
aspetti prelude alla più stretta collaborazione tra Francia ed Italia , al
centro tra l’altro del “vertice” tenuto a Roma 25 gennaio del 2005, un percorso
per molti aspetti ancora attuale.
Le difficoltà nella
collaborazione industriale franco tedesca
Tali difficoltà sono in corso da
anni. La primavera 2004, l’allora Ministro dell’Economia della Repubblica
Federale, Wolfgang Clement, aveva fatto inalberare il suo omologo francese dell’epoca , Nicolas
Sarkozy quando aveva bloccato il
tentativo della Sanofi di acquisire il controllo della Aventis. In luglio,
Sarkozy lo aveva ripagato pan per focaccia, impedendo alla Siemens di conquistare,
con un’OPA ostile, la Alstom , un tempo
uno dei gioielli della République in tema di grandi lavori ma ora in crisi di liquidità. I rapporti tra i due
Paesi, e quelli interpersonali tra i due Ministri, sono diventati così tesi che
è saltato il vertice annuale tra i Capi dei due Governi, in calendario nell’estate
2004. In ottobre 2004, Clement e Sarkozy hanno ostentato una riappacificazione
e tentato di definire un programma
comune franco-tedesco di politica industriale volto la creazione “campioni
europei” (un eufemismo per dire franco-tedeschi) con cui rispondere alle sfide
della globalizzazione. I settori prescelti sarebbero stati l’aerospaziale,
l’informatica, la comunicazioni, i grandi lavori, l’agroalimentare. Se ne è
fatto, però, molto poco. Sono, però, aumentate le diffidenze tra le due sponde
del Reno. Ed è proprio su cose concrete (elettricità, banche) che ora Parigi sta
impostando una maggiore collaborazione con Roma. Temi specifici: accordi per
dieci navi, accordo sui satelliti con Finmeccanica, uno “scambio politico” tra
revisioni dei limiti della partecipazione di Edf in Energia e partecipazione
dell’Enel ad entrare nel nucleare della terza generazione (progetto europeo per
la costruzione del reattore a acqua pressurizzata), braccia aperte perché Roma
abbia, con Parigi, un ruolo leader nella nuova Agenzia europea per
l’innovazione proposta proprio dal “Rapporto Beffa”.
Il “Rapporto
Beffa” analizza in dettaglio le condizioni dell’industria francese
(specialmente della “grande industria”) e sottolinea come, nel contesto
dell’integrazione economica internazionale, sia a forte rischio di perdita di
competitività. Ribadisce la scelta secondo cui la Francia deve restare un Paese
a forte impianto manifatturiero – in altri termini, non deve seguire un
percorso di de-industrializzazione ed enfasi sul terziario adottato dalla Gran
Bretagna e da alcuni Paesi di piccole dimensioni (ad esempio, Irlanda) negli
Anni Ottanta. Giustappone il modello di intervento pubblico in campo
industriale seguito implicitamente dalla
Francia negli ultimi decenni con i modelli adottati, invece, da Stati Uniti e
Giappone, concludendo che, pur se nel contesto europeo si possono recepire
elementi sia del primo sia del secondo, nessuno dei due è adatto alla storia
socio-istituzionale e, quel che più conta, alle condizioni dell’industria
manifatturiera in Europa in generale ed in Francia in particolare. Tuttavia
“oggi il tridente ‘pubblico’ francese – ricerca pubblica, imprese pubbliche,
commesse pubbliche – non può essere più seguito a ragione dell’apertura
dell’economia agli scambi internazionali ed alle regole della costruzione
europea”.
Viene, quindi, proposto “un rinnovamento della politica industriale articolato sulla promozione
pubblica di programmi tecnologici industriali a lungo termine, con azioni da
attuale principalmente allo stadio pre-correnziale, ossia della ricerca di
base”. Misure specifiche
indicate sono : a) un partenariato pubblico privato (in cui le imprese
finanzino il 50% dei costi della ricerca) per meglio coordinare e focalizzare i
programmi specifici (la cui durata dovrebbe essere tra i cinque ed i dieci anni) da chiamarsi “programmi mobilizzatori per l’innovazione
industriale” (con un finanziamento
pubblico tra i 30 ed i 50 milioni di euro per progetto e per anno) ; b)
un’attenta attività di identificazione, valutazione e selezione dei “programmi mobilizzatori” da parte delle strutture tecniche della pubblica
amministrazione; c) la creazione di un’Agenzia
per l’innovazione industriale nell’ambito
della Presidenza del Consiglio (con una dotazione di 6 miliardi di euro) ; d) la
proposta, da parte della Francia, per
l’istituzione di un’Agenzia europea ad
essa analoga con il compito di definire programmi
mobilizzatori a livello europeo seguendo
parametri e criteri coordinati di identificazione, valutazione e selezione. L’Agenzia francese è stata creata e , di
recente, sono state prese iniziative per una collaborazione franco-italiana,
specialmente nel settore agro-alimentare. Di Agenzia europea si è parlato nel 2005-2008 quando la crisi
economica e finanziaria ha causato il dirittamente di energie ed attenzione
verso altri temi. Sta riaffacciando nel recente Piano Juncker ancora in corso di definizione.
Il ‘Rapporto Beffa’
contiene una serie di indicazioni che possono essere utile alla messa a punto
ad una strategia di politica industriale. Occorre tuttavia tenere presente che
ci sono differenze importanti tra la struttura industriale della Francia e
quella dell’Italia. Il nostro Paese è
stato tradizionalmente aperto al commercio internazionale sin dagli anni
immediatamente successivi alla seconda guerra mondiale, mentre la Francia, come
si è visto, è colbertianamente protezionista. L’industria francese è dominata da grandi imprese anche in settori
ad alto valore aggiunto e forte carica innovativa. Quella italiana è
caratterizzata da piccole e medie imprese; anzi, dalla metà degli Anni Ottanta la
maggiore carica innovativa è stata quella dimostrata dalle piccole e medie
imprese che sono diventate la struttura portante del nostro processo di
internazionalizzazione.
Le multinazionali italiane
L'economia italiana ha, infatti,
tradizionalmente un alto grado di apertura al commercio internazionale:
l'export è pari al 23% del p.i.l e l'import al 20%. Tuttavia, la globalizzazione è stato fenomeno relativamente tardivo, e accentuato unicamente a partire dalla seconda
metà degli Anni Ottanta. Sino ad allora, in effetti, vincoli valutari - oltre che
una chiusura relativamente forte della società italiana rispetto al resto del
mondo - facevano sì che, nonostante l'alto grado di apertura al commercio
internazionale, l'Italia fosse tra i sette maggiori Paesi industriali uno dei
meno globalizzati: ancora nel 1985,
l'Italia era, con il Canada, il solo tra i grandi Paesi industriali a
presentare un saldo negativo nella
bilancia tra investimenti diretti all'estero in uscita ed in entrata, mentre
oggi tale bilancia è sostanzialmente in pareggio in quanto gli investimenti
diretti italiani all'estero sono cresciuti di ben due volte e mezzo nell'arco
degli ultimi dieci anni. Alla metà degli Anni Novanta, erano ben 445, le
"multinazionali" a base italiana, ossia i gruppi o le imprese
autonome che partecipano in almeno un'impresa industriale all'estero dotata di
stabilimento produttivo. All’ultima conta di cui io abbia traccia, ossia al
primo gennaio 2004, 5415 imprese italiane hanno partecipano in oltre 15.000
imprese estere (con un totale di oltre 1.100.000 dipendenti) ed un fatturato di
265.625 milioni di euro; 4600 imprese italiano hanno partecipazioni di
controllo in imprese estere (per 900.000 dipendenti ed un fatturato di 211.000
milioni di euro). Una caratteristica dell’Italia, rispetto ad altri Paesi, è che
le “multinazionali” italiane hanno spesso una base “nazionale” di media portata
– oltre la metà hanno in Madrepatria meno di 500 dipendenti.
Una politica di “campioni europei”,
quindi, comporta opportunità e rischi: le prime possono essere riassunte in una
gamma di opzioni positive di ingresso in nuove filière di processo e di prodotto (ad esempio in tema di energia
anche nucleare); i secondi sono, invece, quelli di restare in un ruolo
secondario e subordinato rispetto a partner, come i francesi, di maggiori
dimensioni e più agguerriti sotto il profilo tecnologico e manageriale.
Tuttavia, vale probabilmente la pena prendere “rischi calcolati”, specialmente
in quanto l’Italia (al pari di Francia e Germania) non ha alternative ad una
strategia produttiva fondata su industria manifatturiera ad alto valore
aggiunto: a differenza della Gran Bretagna, dell’Irlanda e di altri Paesi non
disponiamo della dote naturale di una lingua internazionale (e di una
tradizione mercantile-finanziaria anch’essa internazionale) da consentirci di
trasformarci in una grande piazza mercantile. In un contesto di integrazione
economica internazionale, settori come il turismo saranno sempre più ad alti
costi relativi ed a basso valore aggiunto.
4-Il Rapporto Gallois
Mentre nel 2005 e
negli anni immediatamente successivi, il ‘Rapporto
Beffa’ ha avuto una notevole eco in Italia (sono stati pubblicati brevi
saggi e si sono tenuti dibattiti), il ‘Rapporto
Gallois’, pubblicato il novembre 2012 è passato quasi inosservato nel
nostro Paese. Il primo guarda alla politica industriale in una fase in cui la
crisi economica e finanziaria era lontana (ma si avvertiva già un rallentamento
dell’economia reale europea), mentre il secondo tratta temi molto simili ma
dopo quattro anni di crisi (ed il cambio di inquilino all’Eliseo) e quando le
previsioni indicavano una debole ma progressiva uscita dalla crisi. Occorre
ammettere che , in quel periodo, in Italia si andava verso elezioni di Camera e
Senato e l’attenzione era, quindi, rivolta essenzialmente a temi interni.
Inoltre, la stessa pubblicistica francese mostrava il Rapporto
Gallois’principalmente come un ponte
verso (la politica industriale de) la Germania , glissando , però, sulle
differenze , profonde e radicate, riassunte al para.2 di questa nota.
A differenza di Beffa (da sempre nel settore
privato), Louis Gallois è un alto funzionario pubblico: Commissario generale
agli investimenti. Sulla base dell’incarico specifico- il documento intitolato Patto
per la competitività dell’industria francese – la Francia ha poi adottato una serie di misure per cercare di
rilanciare il settore industriale. Il rapporto è utile sia perché fornisce
un’analisi completa della condizione in cui versa un paese europeo importante
come la Francia, sia perché mostra i limiti delle politiche economiche e degli
obiettivi di uno Stato nazionale che, in quanto tale, risponde esclusivamente
al proprio elettorato.
Innanzitutto,
l’eco che il ‘Rapporto’ ha suscitato
in Francia, e il fatto stesso che sia stato commissionato, sono un’ulteriore
prova del fatto che, rispetto alla logica dominante prima della crisi, il
futuro dello sviluppo economico non è più pensato in termini di ampliamento del
settore dei servizi, in particolare di quelli finanziari, considerati anche nel
‘Rapporto Beffa’ fa assolutamente
prioritari, ma si cerca di perseguire un rafforzamento del settore manifatturiero.
Si torna a capire che la produzione manifatturiera comporta anche una serie di
ricadute importantissime per il ‘sistema-Paese’, a partire dall’accesso alle
tecnologie più avanzate e sofisticate, e che (come dimostrano la Cina e la
Germania) è strategico sviluppare la propensione alle esportazioni e alla
creazione di alto valore aggiunto.
Il rapporto parte
da un’analisi dei dati macroeconomici che fanno stimare a Gallois che la
Francia si trovi in condizioni prossime ad una soglia critica, superata la
quale la minaccia di destrutturazione dell’apparato industriale diventerebbe
reale. La Francia è infatti passata da un rapporto del valore aggiunto nel
manifatturiero del 18% nel 2000 a poco più del 12,5% nel 2011 e si colloca al
15 posto nell’eurozona in quanto ‘potenza industriale. Secondo il documento, i
paesi europei piu avanzati sono, sotto questo profilo, sono la Germania
(26,2%), la Svezia (21,2%) e l’Italia (18,6%). Complessivamente la Francia ha
perso due milioni di posti di lavoro nel ramo industriale che nel 2000
rappresentava il 26% dell’occupazione mentre oggi sfiora il 12,6%, cioè la metà. Queste cifre mostrano
che c’è, anche, un problema di economia comportamentale che si è venuta a
creare: uno dei luoghi comuni da sfatare è che il lavoro nel settore
industriale oggi sia meno redditizio rispetto a quello nel settore dei servizi.
La Francia si trova . quindi, con il problema di dover cercare di aumentare il
numero degli ingegneri, dei tecnici, degli operai, dei ricercatori scientifici.
La Francia è
passata dall’essere un paese esportatore nel 2000, sebbene con una eccedenza
lieve rispetto alle importazioni, all’essere diventata un paese importatore con
un consistente deficit di 70 miliardi nella bilancia dei pagamenti. L’eurozona
è il maggior mercato di sbocco per i francesi, ma, nonostante ciò, la Francia
rappresenta solo il 9% (12% nel 2000) delle esportazioni interne all’eurozona
mentre ad esempio la Germania rappresenta il 22% (20% 2000).
Quali sono le
ragioni della perdita di quote di mercato così ampie? Secondo il documento, la
Francia sembra schiacciata da un lato dal modello tedesco, il cui settore
industriale è posizionato su un segmento di gamma e di valore aggiunto
superiore meno sensibile al fattore prezzo ed è sostenuto da una politica
economica che permette un contenimento dei costi (anche per effetto dei bassi
salari nei servizi, inconcepibili in Francia) che avvantaggiano ulteriormente
le imprese, i cui margini di profitto superiori favoriscono la crescita degli
investimenti.
Dall’altro lato,
dai paesi emergenti che hanno costi unitari di produzione ancor più bassi e che
al tempo stesso sono sempre più in grado di produrre beni di valore aggiunto
sempre maggiore e con contenuto tecnologico sempre più elevato.
Secondo il ‘Rapporto’, la reazione dell’industria
francese rispetto a questa duplice concorrenza è stata quella di cercare di
preservare la competitività dei prezzi a discapito della sua competitività
globale: i margini di guadagno si sono così abbassati dal 30% al 21% nel
periodo 2000-2011, mentre nello stesso periodo in Germania crescevano del 7%.
Di conseguenza il tasso di autofinanziamento è crollato dall’80% al 65%, quando
in Europa è vicino al 100%. Gli investimenti per aumentare la produttività e
l’innovazione del processo di produzione sono calati drasticamente e le imprese
francesi, fatti salvi alcuni settori di punta, hanno perso terreno rispetto
alle migliori industrie europee.
A detta di Gallois
e dei suoi collaboratori, il primo settore su cui la Francia deve intervenire
per invertire il trend negativo è dunque quello della ricerca, dell’innovazione
e della formazione. La spesa statale francese in R&S è tra le più alte in
assoluto (2,24% del Pil), ma allo stesso tempo è bassa la quota degli
investimenti privati (solo l’1,4% del Pil, ossia la metà rispetto ai paesi
scandinavi e alla Germania e molto inferiore in generale alla media
dell’eurozona). Inoltre, mentre in Germania il 5,4% delle imprese tedesche ha
beneficiato di finanziamenti pubblici per la ricerca e lo sviluppo, in Francia
ciò è accaduto solo per l’1,4%. delle aziende Questo significa che la spesa
statale francese in R&S è poco orientata al sostegno del settore
industriale, che così somma le due difficoltà, quella ad ottenere finanziamenti
statali e il basso tasso di autofinanziamento.
Il ‘Rapporto’ prosegue con un lungo elenco
di criticità del sistema francese, che include la mancanza di medie imprese (il
sistema è polarizzato tra grandi gruppi a vocazione internazionale e imprese
troppo piccole, spesso a carattere familiare, per riuscire a svilupparsi e ad
essere competitive sul mercato internazionale); una scarsa capacità di fare
rete da parte delle imprese e un cattivo funzionamento delle filiere; una
scarsa solidarietà territoriale; un’eccessiva delocalizzazione che ha
fortemente destrutturato ampie filiere industriali; un mercato del lavoro che
necessita di essere meglio organizzato per eliminare rigidità che pesano in
taluni settori mentre in altri vige una totale mancanza di protezione. Il
documento cerca di evidenziare i vantaggi del paese su cui far leva per cercare
di far ripartire il settore industriale, che vanno dalle eccellenze nazionali,
ad un buon sistema di infrastrutture e servizi pubblici, ad un basso prezzo
dell’energia elettrica, ad un’alta qualità della vita e ad una produttività
oraria del lavoro ancora tra le più alte in Europa.
Sulla base di
questi punti di forza, e con l’obiettivo di andare a correggere le debolezze,
il ‘Rapporto’ indica una serie molto
dettagliata di proposte di riforme ed interventi che suggerisce al governo di
avviare. Il quadro europeo, in questo contesto, è citato solo nella prospettiva
di rafforzare le politiche comunitarie già in essere, concepite in un’ottica di
coordinamento e cooperazione intergovernativa.
Nessun
riferimento, quindi, al dibattito in corso sui vincoli di bilancio derivanti
dagli impegni assunti nell’eurozona, sull’ipotesi di un piano di sviluppo
europeo, oltre che su parziali condivisioni del debito o progetti di
partnership euro-mediterranea. Le proposte restano meramente nazionali, con
tutti i limiti che le caratterizzano: ad esempio, sulla questione dell’energia,
il rapporto tiene a sottolineare che lo sviluppo delle risorse rinnovabili non
deve mettere a repentaglio il basso costo dell’energia, tant’è che gli
investimenti suggeriti in campo energetico riguardano soprattutto il settore
degli scisti bituminosi e del gas naturale. Non ci si pone quindi il problema
di prevenire un effetto collaterale, il maggiore consumo energetico, legato
all’auspicato aumento della produzione industriale, sacrificando così
l’obiettivo di lungo periodo del risparmio energetico (strategico sotto molti
punti di vista) in nome della competitività nel breve periodo. In questo senso
basta fare un paragone con paesi come la Cina, l’India e il Brasile che possono
permettersi di tutelare i propri interessi anche di lungo periodo investendo
largamente nel settore delle energie rinnovabili e sostenibili (basti pensare
che la Cina è il paese che investe maggiormente per le rinnovabili al mondo).
Più in generale,
il rapporto, nel momento in cui affronta la questione di quale politica
economica favorire tra la demand side economy e la supply side
economy, mostra come il fatto di
usare esclusivamente il criterio nazionale per valutare i vantaggi e gli
svantaggi dei due approcci, impedisca un’analisi adeguata. Poiché si considera
“importazione” anche ciò che proviene dagli altri paesi dell’UE e si pone la
questione che in un mercato unico i vantaggi del sostegno alla domanda interna
ricadono anche sugli altri partner commerciali, la scelta deve per forza
ricadere sulla supply side economy, e di conseguenza si suggeriscono
misure per il sostegno alle imprese e all‘esportazione, senza tenere
adeguatamente conto i vincoli europei in materia di aiuti di Stato. Secondo il
documento, le risorse devono essere reperite con un mix di tagli alla spesa
pubblica e aumento delle imposte, con l’obiettivo di raccogliere in brevissimo
tempo 30 miliardi di euro, l’1,5% Pil. L’ambizione di un grande piano di
sviluppo si riduce, quindi, ancora una volta, alla decisione di puntare a sostegno
alle imprese e conseguenti aumenti della
tassazione.
6 Il Rapporto Bersani.
A
mia memoria, l’ultimo ‘Rapporto’
complessivo di politica industriale prodotto da un Governo italiano risale alla
metà degli Anni Ottanta, circa quattro decenni fa. Circa dieci anni fa, un nuovo ‘Rapporto’ era stato predisposto dall’allora Ministro delle Attività
Produttive e discusso nell’ambito di un comitato di consiglieri del dicastero.
Non venne finalizzato a ragione del cambio di titolare del Ministero, a causa
di un’improvvisa malattia del Ministro che lo aveva commissionato.
Nel 2006, il
Ministro per lo Sviluppo Economico Pierluigi Bersani pubblica ‘Industria 2015, un documento che indica linee strategiche, basandole su una concezione
che integra la produzione manifatturiera con i servizi avanzati e le nuove
tecnologie, in una prospettiva di medio-lungo periodo (il 2015). Non era un Rapporto complessivo di politica
industriale per due serie di ragioni: a) all’inizio del decennio, una riforma
costituzionale aveva trasferito alle Regioni numerose competenze in materia di
politica industria; b) rappresentava il supporto concettuale di quella che
sarebbe dovuta essere una normativa quadro, corredata da una serie di nome
specifiche. A ragione della fine anticipata della legislatura, solamente una
parte di queste misure hanno visto la luce del giorno. Tuttavia, ‘Industria
2015’ rappresenta un tentativo di rilievo di dare coerenza alla
politica industriale dell’Italia in un’ottica prospettiva di medio-lungo
termine.
L'obiettivo della
politica industriale delineata da ‘Industria
2015’ è l'uscita dalla situazione di crisi dell’economia italiana; il
documento propone di raggiungerlo mediante la centralizzazione del ruolo dell’industria
nell’ambito di una rinnovata attenzione culturale (che coinvolga tutta la società
e non solo la politica), ai temi dell’economia reale. Inoltre, nella comune
presenza di personale italiano e immigrato,’Industria
2015’ vede il tempo trascorso all'interno dell'impresa come un'occasione
privilegiata per la pacifica integrazione di culture diverse
Gli strumenti sui quali
ruota l’azione di Industria 2015
sono: a) i progetti d’innovazione industriale; b) le reti d’impresa; e c) la
finanza innovativa. Secondo ‘Industria
2015’il sistema produttivo italiano del futuro dovrebbe camminerà su “due
gambe”, costituite da:
1.
una serie di meccanismi
generalizzati per la riqualificazione ed il rafforzamento della Piccola e
Media Impresa (PMI), da sostenere nella ricerca, nella riduzione dei costi,
nella promozione degli investimenti e nella crescita dimensionale;
2.
i nuovi sistemi
di incentivazione “su misura”: i Progetti
di innovazione industriale (PII), da realizzarsi per singoli obiettivi
strategici, individuando aree tecnologico-produttive con un forte impatto sullo
sviluppo.
I PII sono lo strumento
principale e più innovativo introdotto da ‘Industria
2015’,; sono concepiti in quanto basati sulla sinergia fra enti locali,
università e centri di ricerca che
operano sotto la guida di un singolo responsabile di progetto di comprovata
esperienza nel settore strategico relativo. Un fondamento dei PII è la
collaborazione tra amministrazioni centrali dello Stato che si concretizza,
finanziariamente, nel coordinamento tra i Fondi per la ricerca e i Fondi per lo
sviluppo per il finanziamento congiunto dei progetti. I PII sarebbe stati individuati in base alle linee strategiche di ‘Industria 2015’, e dovrebbero possedere le seguenti
caratteristiche:
1. focalizzazione sugli obiettivi di avanzamento
tecnologico definiti nelle linee strategiche;
2. ricaduta industriale in termini di nuovi processi,
prodotti o servizi;
3. integrazione di strumenti di aiuto alle imprese,
azioni di contesto, misure di regolamentazione e semplificazione
amministrativa;
4. coinvolgimento di grandi imprese, PMI, centri di
ricerca;
5. sinergia dei soggetti pubblici responsabili delle
azioni a sostegno, e particolarmente delle Regioni che sarebbero dovute intervenire
nelle operazioni di finanziamento;
6. attenzione allo sviluppo delle imprese giovanili.
Le reti d’impresa avrebbero costituto un’alternativa per quelle aziende che
vogliono aumentare la loro forza senza doversi necessariamente unire in una fusione
o concentrazione oppure ricadere sotto
il controllo di un unico soggetto. La loro base giuridica sarebbe un “Contratto
di rete” che evidenzierebbe gli obiettivi strategici e le attività comuni che
diano luogo al miglioramento della capacità competitiva ed innovativa sul
mercato.
Nell’ambito di ‘Industria 2015’ Il Ministero dello
Sviluppo Economico ( di concerto con i ministeri dell'Economia e delle Finanze
e della Giustizia), ha il compito di elaborare e presentare al Governo disegni
di legge per definire queste nuove forme di aggregazione, seguendo i seguenti criteri:
- definire i requisiti di stabilità delle reti di imprese e le nuove forme di coordinamento e direzione al loro interno;
- verificare i loro effetti giuridici in relazione alla diversità di queste con i raggruppamenti ed i consorzi;
- prevedere la presenza di imprese straniere, disciplinando reti transnazionali sia europee che extra-UE;
- includere la possibilità che nelle reti di impresa possano confluire imprese sociali ed imprese senza fini di lucro.
Sulla base di Industria 2015 con la legge di bilancio del 27 dicembre 2006 sono
stati istituti, utilizzando risorse esistenti in linee di finanziamento
esistenti due nuovi fondi pubblici per realizzare gli obiettivi di innovazione
industriale e sostenere lo sviluppo del sistema produttivo italiano: a) il
fondo per la competitività e lo sviluppo; b) il fondo per la finanza d’impresa-
Questa è essenzialmente un’opera di razionalizzazione e di utilizzazione più
efficace delle risorse. In questi anni
di attuazione della normativa, i due fondi sembrano funzionare in linea con gli
obiettivi.
7 Implicazioni per la politica industriale
dell’Italia
‘Industria 2015’ ha numerosi punti in comune con il ‘Rapporto Beffa’ ed il ‘Rapporto Gallois’. Con le azioni di
politica industriale tedesca –in gran parte esercitata a livello dei Länder ha
in comune un unico punto: il tentativo di giungere, tramite le reti di impresa,
ad un aumento della dimensione aziendale media (mantenimento, al tempo stesso,
inalterata la caratteristica e la struttura familiare di numerose PMI italiane.
A dieci anni quasi di distanza dalla sua redazione deve essere visto unitamente
ad altri documenti , in particolari quelli sulle tax expenditures , analizzate in uno studio commissionato dal
Governo Monti al Prof. Francesco Giavazzi, nonché in uno dei volumi della spending review commissionata dal
Governo Letta al Dr. Carlo Cottarelli. Non mancano studi valutativi (con
conclusioni spesso non incoraggianti) dell’esteso uso di interventi diretti per
obiettivi puntiformi – imprenditoriali giovanile, imprenditoria femminile,
salvataggi di grandi aziende in dissesto, aiuti a medie aziende in crisi,
promozione di energie alternative, e via discorrendo.
Dall’insieme
di questi documenti, esce un caleidoscopio di difficile lettura su quali sono
state le linee guida sottostanti la politica industriale italiana negli ultimi
anni- in particolare quale sia il mix tra politica industriale ‘difensiva’ (mirata a sostenere
l’esistente oppure ad agevolarne una trasformazione lenta e graduale) e
politica industriale ‘offensiva’
(mirata esplicitamente al cambiamento). Non è neanche chiaro quale siano state
le determinanti che abbiano indotto, in certi casi, ad utilizzare misure
tributarie, aperte a tutti gli interessati e quindi non discriminatorie, ed in
altri e interventi diretti – necessariamente selettivi e, dunque,
discriminatori. Appare, però, che, nella realtà effettuale, la politica industriale
italiana sia stata più vicina a quella che in Francia il’Rapporto Beffa’ e, forse in minor misura, il ‘Rapporto Gallois’
hanno cercato di cambiare e modernizzare che a quella tedesca. . Eppure è in
gran misura con l’industria manifatturiera tedesca che ci confrontiamo sul
mercato europeo e su quello internazionale. Il ‘Rapporto Bersani’ ‘Industria 2015’ è , come si è visto, il
maggior, e più coerente, tentativo di razionalizzare obiettivi e strumenti
La
prima conclusione di questa nota preliminare è l’esigenza di passare da una
politica industriale ‘difensiva’ ad una ‘offensiva’ che minimizzi gli
interventi diretti (anche in quanto spesso origine di vertenze con l’UE in
quanto aiuti di Stato o palesi o in maschera) e riduca e razionalizzi le tax expenditures in linea con le
raccomandazioni dei documenti di Giavazzi e di Cottarelli-
Emergono
comunque alcune indicazioni da discutere in seno al Gruppo di Lavoro.
In
primo luogo. per ridare slancio al manifatturiero italiano è necessario
concentrare le risorse su disponibili su una politica dell’innovazione.
L’obiettivo dovrebbe essere quello di raggiungere la media europea di spesa per
R&D entro tre anni. Si tratterebbe
di una vera rivoluzione copernicana per un’Italia a cui non basta più essere
considerata la Patria del bello per essere competitiva sui nuovi scenari dei
mercati mondiali, occorre spostare la produzione su settori a più alta
tecnologia, dove il fattore conoscenza diventa prioritario, e, nel contempo,
alzare il livello tecnologico dei settori tradizionali del made in Italy per realizzare il “bello ben fatto”, coniugando
creatività e innovazione, gusto estetico e nuovi materiali. Una politica industriale , quindi, al fine di
mantenere la leadership sui nostri settori di eccellenza e, contemporaneamente,
ricostruire la presenza di aziende e di alcune grandi imprese competitive nei
prodotti del futuro.
Il
programma potrebbe essere articolato su
tre linee principali
a).
Puntare su cinque /sei grandi progetti
collegati a settori/prodotti di sicura futura crescita di mercato e che
presentino una ricaduta industriale di filiera, per un complessivo impegno
finanziario. I progetti dovrebbero essere individuati da un “comitato di saggi”
con una presenza del mondo della amministrazione e della scienza, ma con
prevalenza della cultura industriale. Il comitato dovrebbe anche indirizzare e
sorvegliare la esecuzione dei progetti e gestirne i risultati ai fini di
massimizzarne l’effetto in termini produttivi.
b).
Mettere a disposizione dei progetti di ricerca delle imprese fondi rotativi
aggiuntivi, da concedere a tasso zero per la durata di sei-otto anni. In tale
modo, senza prevedere fondi perduti le richieste delle aziende si
concentreranno sui progetti il cui costo potrà essere recuperato sul mercato;
inoltre si esalterà il carattere rotativo del fondo venendosi a costituire in
pochi anni di finanziamento un montante cospicuo.
c).
Incentivare in maniera orizzontale ed “automatica” la innovazione, soprattutto
nelle PMI e nelle imprese di media dimensione al fine di aumentarne le capacità
competitive, moltiplicando i “campioni nazionali” non solo nei settori di
nicchia. Soltanto poche PMI sono in grado di impostare e svolgere veri e propri
programmi di ricerca pertanto occorre varare norme che forzino l’innovazione e
la competitività nei prodotti del made in Italy. Nel primo anno si può puntare
su
a)
esenzione
dall’Irap dei costi del personale impiegato in azienda nella creazione di
prototipi (nuovi modelli di macchine, nuovi materiali, campionari, ecc.); queste
attività che precedono la produzione seriale sono presenti soprattutto nelle
Pmi più dinamiche e competitive sui mercati mondiali; costo previsto 300
milioni di euro l’anno.
b)
credito di
imposta automatico per il 40% del costo delle ricerche commissionate dalle
imprese alle università; costo previsto 200 milioni di euro l’anno.
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