FINANZA/ La mazzata dell'Istat alle politica economica di Renzi
Pubblicazione: giovedì 21 maggio 2015
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Per una mera coincidenza, la mattina
del 20 maggio è stato presentato il Rapporto annuale 2015 sull'economia
italiana dell'Istat e il pomeriggio il Centro di ricerche e studi Luigi
Einaudi, l'Istituto affari internazionali e Ubi Banca hanno organizzato un
convegno per presentare il Rapporto Einaudi sull'economia italiana e
globale, che ha come titolo "Un disperato bisogno di crescita". Due
documenti molto differenti: il primo è una radiografia statistica
dell'economia, e della società italiana, nel 2014 con qualche previsione per i
prossimi 24 mesi effettuate con il modello econometrico dell'Istat, in sigla
MeMo-It, mentre il secondo intende forgiare un consenso su politiche di
crescita a medio e lungo termine per l'intera economia europea, non solamente
per l'Italia. Tuttavia, il "bisogno di crescita" è elemento centrale
di ambedue. E delle numerose discussioni in atto in queste settimane.
Ad esempio, se l'Italia avesse un
tasso di crescita del 2-2,5% l'anno come negli anni Ottanta (compatibile con le
caratteristiche di fondo di una demografia sempre più all'insegna
dell'invecchiamento e di un sistema produttivo frammentato e in numerosi casi
obsoleto), non sarebbero state necessarie le difficili discussioni sulla
perequazione dei trattamenti previdenziali delle ultime due settimane, dato che
l'economia reale avrebbe in gran misura sostenuto un mercato del lavoro in
grado di offrire prospettive pensionistiche almeno adeguate alle giovani generazioni.
È interessante notare che nel
Rapporto Istat appena presentato, radiografia dell'anno appena concluso e
previsioni a breve-medio termine sono accompagnate da
"approfondimenti" pregnanti di politica economica a più lungo
termine. Particolarmente significativa, e innovativa, l'analisi in cui i
fattori ciclici della caduta degli investimenti vengono collegati, in un'ottica
non solo italiana ma dell'intera area dell'euro, con le determinanti
strutturali. È un approfondimento che acquista una valenza speciale in queste
settimane in cui ci si chiede che il Piano Juncker , annunciato con molta
fanfara alcuni mesi fa, rappresenti una prospettiva concreta di rilancio degli
investimenti (pubblici e privati) e non sia, come altri "piani"
europei del passato (Lamfalussy, Ortoli, Delors, solo per citare quelli che
hanno avuto maggiore richiamo), un marchingegno mediatico per dire che, nel
travaglio dei singoli paesi e dell'intera Ue, la Commissione europea è
presente.
Il Rapporto Istat analizza, in primo
luogo, la contrazione degli investimenti in rapporto al Pil nell'eurozona (dal
22,7% nel 2008 al 19,6% nel 2014), molto severa in Spagna (7,8 punti
percentuali) ma molto dura anche in Italia (4,5 punti percentuali), dove ha
coinvolto sia la componente delle costruzioni che quella delle macchine e delle
attrezzature.
Nel documento Istat, c'è una
notazione interessante che non ricordo essere stata presentata con pari enfasi
nei Rapporti precedenti: la contrazione degli investimenti in prodotti della
proprietà intellettuale (-1,5% tra il 2008 e il 2014). Soprattutto, nello
stesso periodo, gli investimenti in ricerca e sviluppo (una determinante degli
investimenti in prodotti della proprietà intellettuale) sono aumentati
dell'11,8% nella media europea. Questo andamento asimmetrico merita
di essere tenuto ben presente. Soprattutto dalla scuola di pensiero che
chiamerei Io speriamo che me la cavo, ossia di
coloro che pensano che la fantasia e l'ingegnosità italiana ci tireranno fuori
da vari pasticci e problemi.
Il Rapporto nota che nell'ultimo
trimestre 2014 gli investimenti hanno mostrato una leggera variazione positiva
(+0,2%), da imputarsi principalmente ai settori delle attrezzature, delle
macchine e degli armamenti. Il modello MeMo-Il - rileva il documento - indica
che questo andamento generale continuerà nel 2015. Tuttavia, la teoria
economica ci dice che gli investimenti in proprietà intellettuale hanno un
andamento differente da quelli in costruzioni o in attrezzature. Senza entrare
nei modelli di flow adjustment che spiegano l'andamento degli
investimenti in proprietà intellettuale, è utile ricordare che le determinanti
essenziali perché si investa in proprietà intellettuale sono i risultati
operativi delle imprese e le condizioni di liquidità.
In parole povere, si investe in
proprietà intellettuale (i cui benefici si toccano con mano nel lungo periodo)
se le imprese non si barcamenano per sopravvivere e se hanno la liquidità da
destinare, in parte, a ricerca e sviluppo. A sua volta, la liquidità che conta
non è solamente quella dei libri contabili, ma quella "percepita"
dagli imprenditori, determinata a sua volta da stabilità finanziaria e da una
politica monetaria "accomodante" con tassi d'interesse contenuti.
Questo è un punto essenziale che
credo pochi commentatori del Rapporto hanno visto (anche in quanto, come
appropriato per un documento tecnico, il testo presenta i dati nudi e crudi ma
non li enfatizza). In sintesi, le politiche monetarie e di finanza pubblica (il
Quantitative easing e la "flessibilità ritrovata" di cui si vanta il
Presidente del Consiglio) hanno un impatto sulla qualità degli investimenti (di
cui, in un Paese come il nostro, i prodotti della proprietà intellettuale sono
uno degli aspetti più importanti) unicamente se mantenuti nel medio
periodo.
Italia e autorità europee, però,
possono operare solo su alcune di queste determinanti. Altre, fondamentali,
dipendono dal palazzone in stile tardo-fascista in Constitution Ave, N.W., dove
ha sede la Federal Reserve americana.
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