martedì 26 maggio 2015

Perché il fondo salva imprese non è (forse) una Nuova Gepi in Formiche 26 maggio

Perché il fondo salva imprese non è (forse) una Nuova Gepi

26 - 05 - 2015Giuseppe Pennisi
Perché il fondo salva imprese non è (forse) una Nuova Gepi
Il 25 maggio sono stati distribuiti due documenti, del tutto distinti e distanti, ma tra i quali c’è un messo probabilmente non notato dagli autori. Il primo è un’analisi del piccolo ma dinamico Centro Studi Impresa Lavoro sulla dinamica della spesa pubblica negli anni delle varie e numerose spending review. Il secondo è il decreto legge sulla nuova società a partecipazione statale variamente chiamata “turnaround” (la svolta) o “salva aziende” e spesso considerata come una nuova Gepi.
I due testi si prestano a una lettura parallela o simultanea in quanto il primo (quello di Impresa Lavoro) fornisce la cornice in cui situare il secondo (la nuova società a partecipazione statale).
L’analisi di Impresa Lavoro sottolinea che, durante la crisi degli ultimi sette anni, la spesa pubblica in Italia è cresciuta in rapporto al Pil dal 47,8% del 2008 al 51,1% del 2014: un balzo in avanti di 3,3 punti percentuali superiore sia alla media dei Paesi dell’Unione Europea UE (+1,6%) che a quelli della sola Area Euro (+2,6%).
Il nostro Paese non è l’unico ad aver aumentato la spesa pubblica in questo periodo anche se tra le grandi economie continentali solo la Francia fa peggio di noi e vede crescere la sua spesa pubblica del 4,2%. Meglio di noi vanno sia la Spagna (+2,5%) sia la Germania, sostanzialmente stabile con un +0,4%.
Chi taglia in maniera abbastanza decisa il peso dello Stato sull’economia è invece il Regno Unito che vede la sua spesa pubblica scendere di 2,2 punti di Pil. Occorre notare (ma l’analisi non lo enfatizza) che negli altri Paesi in cui la spesa pubblica è aumentata in misura significativa negli anni della crisi la determinante principale è stata la necessità di tutelare il risparmio delle famiglie a fronte di gravi crisi bancarie (in parte causate da comportamenti spericolati all’interno e all’estero). Non da strategie keynesiane o neo-keynesiane per rispondere alla crisi con un aumento dell’investimento pubblicato, diminuito in tutta Europa e in Italia crollato. Occorre ancor ricordare che l’aumento della spesa è avvenuto proprio in anni in cui (dal Piano Pandolfi del lontano 1978) in Italia si susseguono tentativi di ridurre la spese che negli ultimi tempi hanno portato alla nomina (e al licenziamento) di vari commissari.
E’ in questa cornice (nonché nella normativa europea sulla concorrenza e gli aiuti di Stato) che si deve collocare il decreto legge sulla società per la “svolta” che tiri fuori delle pastoie ed aziende in crisi e, in un arco di tempo non superiore a dieci anni, le porti al risanamento o alla liquidazioni. La lettura attenta del decreto (di cui circola il testo nel Palazzo in attesa che venga pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale) mostra che non si tratta di una nuova edizione, riveduta e corretta, della GEPI ma essenzialmente di un sistema di garanzie pubbliche per attirare capitale e (managerialità) privata di livello.
Come ha rilevato, in un’intervista a Formiche.netl’Ingegner Franco Debenedetti, attuale presidente dell’Istituto Bruno Leoni, il marchingegno è molto macchinoso. Lo è per “svicolare” dalla restrizioni e dai vincoli europei. Proprio per questo motivo, però, sorgono dubbi sulla sua effettiva utilità. Di norma quanto più strumenti del genere sono efficaci tanto più sono semplici.
E’ utile, però, notare che è in corso una rivalutazione dell’IRI; un convegno a questo riguardo è stato calendarizzato per l’11 giugno alla Scuola Nazionale di Amministrazione. Mentre sembrano pochi ascoltati due volumi usciti in questi giorni – Liberalizzazioni: un’incompresa necessità di Società Libera e Un disperato bisogno di crescere del Centro Einaudi. Ambedue chiedono allo Stato di fare un passo indietro.

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