EXPO 2015/ Turandot apre la stagione dell'esposizione universale
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Foto Brescia/Amisano - Teatro alla
Scala
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Con Turandot di Giacomo Puccini per l’inaugurazione della ‘stagione
Expo’ (una serie di titoli del grande repertorio italiano, ed una prima
mondiale pure essa italiana – da maggio a ottobre), La Scala ha dato quel
meglio di sé che non aveva dato con Fidelio il 7 dicembre 2014: questa
Turandot è uno spettacolo al tempo stesso innovativo ed
affascinante, con un cast internazionale di interpreti tutti di altissimo
livello, una concertazione che ha estratto dalla partitura convergenze
importanti e tinte molto belle ed un ‘finale’ (quello composto da Luciano
Berio nel 2002) raramente eseguito in Italia. E’ in calendario sino al 23
maggio.
Il primo aspetto notevole è la messa in scena (regia di Nikolaus
Lehnoff, scene di Raimund Bauer, coreografia di Denni Sayers e soprattutto luci
di Duane Schuler). Non siamo in una mitica e magniloquente Cina di cartapesta
‘dei tempi delle fiabe’ ma l’opera viene presentato un dramma
espressionista come lo si sarebbe concepito ai tempi in cui Puccini era
impegnato nel lungo (ed incompiuto) lavoro. L’impianto complessivo ricorda la
‘secessione austriaca’ (Klimt) ed il visivo tedesco di quel periodo (il
movimento Die Brucke con artisti come Erich Heckel, Ernst Ludwig
Kirchner, Karl Schmidt Rottluff ) e soprattutto l’allora nascente cinema da cui
Puccini era molto affascinato (specialmente il Fritz Lang di ‘M’, evocato nei
costumi del coro). La scena è allestita per facilitare le voci (come una vera
cassa armonica). Le luci creano il clima ossessivo in cui si svolge un dramma
denso di echi freudiani. Il trionfo finale di una dittatura benevola rispecchia
l’entusiasmo con cui, negli ultimi anni di esistenza, Puccini (tessera No.2 del
PNF di Viareggio) , aveva abbracciato il regime allora dominante in Italia,
Riccardo Chailly offre una concertazione davvero unica. A
differenza di altre che o sottolineano gli aspetti melodici o pongono l’accento
sugli ‘imprestiti’ da Debussy (ad esempio, le note che contraddistinguono la morte
di Liù e la breve marcia funebre), Chailly mostra la convergenza di Puccini con
l’innovazione musicale degli Anni Venti del secolo scorso: non solo Debussy ma
anche Schoenberg e l’allora giovanissimo Korngold (l’ascolto, in forma
privata, del cui capolavoro aveva, secondo alcuni musicologi, sconvolto Puccini
sino a quasi impedirgli di completare il finale di Turandot). Viene
esaltato il cromatismo e gli accenni alla atonalità. In questa lettura
musicale, ha un significato il ‘finale’ composto da Berio in quanto mostra come
la musica europea degli Anni Venti presagisse innovazioni anche degli
Anni Ottanta. Ciò detto, preferisco ancora il ‘vero’ finale di Alfano (quello
non tagliato e manipolato da Toscanini di solito eseguito) in quanto più ampio,
più approfondito e maggiormente in linea con il resto dell’opera.
Ottimo il cast vocale. Nina Stimme ricorda ai meno giovani la
grandissima Turandot di un alto soprano svedese: Birgit
Nilsson. Non per nulla, lo ‘scioglimento’ della Principessa nel finale era
concepito da Puccini come il parallelo della ‘trasformazione’ da odio ed amore
di Isotta alla fine del primo atto dell’opera wagneriana. Aleksanders Antonenko
imposta , correttamente, tutta la parte sul registro di centro , come richiesto
da Puccini che lo considerava l’espressione massima della sensualità virile, ha
un timbro chiarissimo e non esagera con gli acuti (il destro per facili
esibizioni viene offerto da Nessun Dorma in cui Antonenko da
prova di moderazione). Maria Agresta è, finalmente, una Liù drammatica non il
solito soprano lirico un po’ sdolcinato di troppe produzioni. Tutti di alto
livello gli altri (specialmente le tre maschere). Di altissimo livello i due
cori.
Uno spettacolo di cui Milano può essere orgogliosa.
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