L’AMBIGUA “VOGLIA MATTA DI PRIVATIZZARE”
Giuseppe
Pennisi
Introduzione
Da 27 anni,
la Reason Foundation , la cui sede
centrale è a Los Angeles, produce un rapporto annuale sulle privatizzazioni
(Gliroy, 2014). L’ultima edizione è stata pubblicata in fascicoli per settore e
per tipologia di amministrazione (se federale, se statuale, se regionale, se
comunale). Non per un vezzo editoriale ma perché con bassi tassi d’interesse ed
ampia liquidità le privatizzazione stanno registrando (come notato nel Rapporto dello scorso anno) una stagione
per molti aspetti unica e priva di precedenti. Il lavoro della Reason
Foundation riguarda soprattutto gli
Stati Uniti, dove l’ondata di privatizzazioni è, al tempo stesso, determinante
e conseguenza della forte ripresa in atto. Documenti analoghi di Banca
mondiale, Ocse e Fondo monetario tratteggiano un quadro analogo per il resto
del mondo. Anche autorevoli economisti cinesi riconoscono la superiorità
dell’impresa privata rispetto a varie forme di partecipazioni pubbliche (Chen D., Jiang
D., Ljungovist A, Lu H., Zhuo M.2014; Brown J.D, Earle J, Teledgy A. 2015)
Da tre
lustri, redigo il Rapporto annuale sulla
liberalizzazione della società italiana di Società Libera, l’unico
documento che traccia il percorso della denazionalizzazione in Italia. In
effetti, dal 2011 sul sito del Ministero dell’Economia e delle Finanze (Mef)
non compare la Relazione al Parlamento,
dovuta ogni anno. Mi sono gradualmente convinto che in Italia le
privatizzazioni hanno, come la borghesia del noto film di Buňuel, uno “charme
discreto”; affascinano tutti ma quanto si arriva al dunque viene fatto molto
meno di quanto sperato. Anzi, lo charme delle privatizzazioni è diventato così
discreto che assomiglia a quelle catenine d’argento che parenti di secondo e
terzo grado regalano per i Battesimi e le Cresime, “così fini, così fini –
diceva Petrolini – che non si vedono nemmeno”. Di privatizzazioni si parla, ma
nel contempo avanza un nuovo processo di statizzazione. In questi ultimi anni
si è privatizzato molto di più nella Federazione Russa che in Italia (Malginov G.,
Radygin A.2014)
A fine 2014,
il più diffuso quotidiano italiano dedicava tre pagine alle privatizzazioni in
programma per il 2015, iniziato da poche settimane al momento in cui si
redigono queste pagine (Puato, Rizzo, Turchetti, 2014). L’inchiesta, ben
documentata, dimenticava , però, di dire che i Governi ed i Parlamenti succedutesi
dal 2011 hanno portato a termine unicamente la privatizzazione dell’Unici, l’Unione
degli ufficiali in congedo - in pratica un circolo ricreativo. E’ stata,
invero, portata in Borsa Financantieri ma ha ottenuto giusto i fondi (350
milioni di euro) per sostenere il suo piano di sviluppo. Cassa Depositi e
Prestiti (Cdp) Reti - che ingloba le partecipazioni di controllo di Terna e
Snam già in portafoglio di Cdp - ha fruttato 2,1 miliardi di euro con la
cessione del 35% alla State Grid of China, ma serviranno altri passaggi come un
dividendo straordinario per far tornare quelle risorse ai soci. Dopo molti
tentennamenti, ha varcato la porta di Palazzo Mezzanotte anche RaiWay,
essenzialmente però per rendere possibile una riduzione dei contributi pubblici
alla Rai. Per la Rai si dovrebbe pensare non ad una riduzione ma ad un
azzeramento dei contributi pubblici. Quella della Rai dovrebbe essere “la madre
di tutte le privatizzazioni “ secondo un documento dell’Osservatorio
Internazionale Cardinale Van Thuan
sulla Dottrina Sociale della Chiesa - (Osservatorio Internazionale Cardinal Van
Thuan, 2014), un gruppo distinto e distante dalle nostre beghe di bottega e non
certo di ispirazione radical-liberista. Un “appello” che dovrebbe essere
ascoltato con attenzione da laici oltre che da un Presidente del consiglio che
si professa cattolico ed afferma di essere molto attento alla dottrina sociale
della Chiesa.
Il Governo
Renzi ha annunciato privatizzazioni per di 11,2 miliardi di euro all’anno fino
al 2017, contro gli 8 miliardi di euro fino al 2016 previsti dal Governo Letta.
Tuttavia, oggi è ancora meno chiara di dieci-quindici anni fa quella che gli
economisti chiamano la “funzione obiettivo”
delle privatizzazioni: in che misura vengono invocate per “fare cassa” ed
alleggerire il debito pubblico ed in che misura per rendere più efficiente il
sistema complessivo ed aumentare la produttività multifattoriale. Allora, la
priorità della riduzione del debito pubblico era chiara ed iscritta nella
normativa, tanto che i proventi delle privatizzazione venivano direttamente
incanalati in un fondo speciale per alleggerire il fardello del debito. Adesso,
anche ove nell’arco di tre anni, si privatizzasse per 33-34 miliardi di euro,
si scalfirebbe appena uno stock di debito pubblico attorno a 2.200 miliardi di
euro. Solo agendo energicamente a livello delle partecipate delle “autonomie
locali” si potrebbe raddoppiare, od anche triplicare il gettito da
privatizzazioni. Ma ci sono ostacoli di ordine costituzionale che non sembra
nessuno voglia rimuovere, nonostante sia in corso un processo di riforma della
Carta fondamentale della Nazione.
Questo capitolo è meno “accademico” di
quelli degli anni passati. A ragione della stasi sulle privatizzazioni, la
letteratura in materia è molto scarna. Quindi, si fa riferimento in grande
misura a informazione giornalistica. Un primo paragrafo, delinea il programma
annunciato dal Governo Renzi. Negli altri si esaminano i principali settori,
iniziando da quello dei servizi pubblici locali dove decisioni ed azioni sono
più urgenti.
I programmi
quali enunciati
Il Documento di economia e finanza (Mef,
2014) e la relativa Nota di aggiornamento non hanno un capitolo specifico sulle
privatizzazioni anche se non mancano cenni nelle sezioni dedicate al debito ed
alla finanza pubblica. Questa indicazione potrebbe dare l’impressione che le
privatizzazioni vengono viste essenzialmente come strumento per “fare cassa”.
Occorre, quindi, fare riferimento anche a comunicati
emessi al termine di conferenze stampa. A fine 2014, il Mef ha fatto il punto
della situazione in un incontro con la stampa. L’obiettivo “realistico” allora
posto era quello di procedere alla cessione di quote in RaiWay e Stmicroelectronics
(Stm) insieme alla dismissione di immobili del Demanio, per poi puntare al
bersaglio centrale, Poste Italiane, nel 2015 e quindi anche a Ferrovie dello
Stato italiane. Non c’è alcun riferimento al comparto più difficile quello del
“capitalismo” o “socialismo” (una parola vale l’altra) creato dalle autonomie
locali, soprattutto Regioni e Comuni, dato che le Province sono in via di
sparizione.
Nel contempo, tuttavia, è in fase
avanzata di preparazione la costituzione di un fondo per le aziende in crisi su
cui sta lavorando direttamente Palazzo Chigi con la collaborazione
principalmente, oltre che di specialisti privati, del Ministero dello Sviluppo
Economico (Mise) più che del Mef. Il fondo avrebbe l’obiettivo di portare
aiuti, ossia capitali, pubblici ad aziende in serie difficoltà per facilitarne
la ristrutturazione e porle in grado di reggersi sulle proprie gambe entro un
lasso limitato di anni. Ci sono circa 160 casi di crisi sui tavoli del Mise e
del Ministero del lavoro e degli affari sociali; molte di queste “vertenze”
riguardano imprese di medie dimensioni, ma alcune grandi pilastri
dell’industria italiana (come l’Ilva). Indubbiamente, un problema c’è ed è
molto serio: dal 2008 al 2014, il settore manifatturiero si è contratto dal 22%
al 14% del valore aggiunto italiano. Un Paese, privo di materie prime e con
un’agricoltura povera, rischia di trovarsi con un modesto settore industriale,
nonché senza gli elementi essenziali per sviluppare i servizi, specialmente se
finanziari - quali una vocazione ed una lingua internazionale.
Anche nel settore bancario, il ritorno
dell’intervento pubblico sta avvenendo alla grande; in febbraio 2015, scaduti i
termini, le obbligazioni per soccorrere il Monte dei Paschi di Siena sono state
convertite in azioni con il risultato che il Mef, con il 10% del capitale è
diventato azionista di riferimento di uno dei principali istituti di credito.
Ci sono, inoltre, voci crescenti sulla creazione (da parte del Mef e della
Banca d’Italia) di una bad bank dove
collocare sofferenze e titoli di bassa qualità di vari istituti di credito.
C’è chi sostiene che si starebbe
preparando una nuova Iri: recentemente. all’Università Roma III, in occasione
della presentazione di un libro (Leon, 2014) si respirava un’aria molto
favorevole all’intervento pubblico Anni Trenta, recente molto rivalutato dal
giovane storico dell’economia Giovanni Farese (ad esempio, Farese 2009). C’è
chi smentisce nettamente questa ipotesi non solo a ragione del differente
contesto e delle regole europee in materia di concorrenza ma anche delle
specifiche norme che verrebbero poste per avere accesso al fondo il cui
capitale verrebbe “ritirato” dall’azienda dopo sette, o al massimo dieci anni.
Si vedrà. Rispetto ad un’economia che ha
esigenza di privatizzazioni come se ne ha di acqua quando si traversa un lungo
deserto, la proposta pare il passo del gambero e, quanto meno, mostra quanto
ambigua sia la conclamata “voglia matta di privatizzare”.
Questo rapporto è stato chiuso il primo
marzo e tratta di sviluppi nel 2014, come è prassi di questi documenti, anche
se parso necessario fare alcuni accenni ad eventi nelle prime settimane del
2015.
Il “capitalismo” o “socialismo”
degli enti locali
E’ tema che questo Rapporto
ha trattato diffusamente negli anni precedenti. Liberalizzazione,
privatizzazione (e la chiusura di enti inutili) sono particolarmente urgenti
sia per contribuire a ridurre lo stock di debito, sia per rendere più snello
quello che un tempo si chiamava (grazie ad una definizione molto appropriata di
Franco Reviglio) “settore
pubblico allargato”, sia per contribuire, in tal modo, ad aumentare la
produttività.
La nostra proposta è di cominciare non con operazioni
relativamente facili (cessioni di quote dell’Enel, dell’Eni, delle Poste), e
neanche da quella giudicata come la “madre di tutte le privatizzazioni”
dall’Osservatorio Internazionale Cardinale Van Thuan sulla Dottrina Sociale della Chiesa (la Rai, per cui si
potrebbe stilare un programma tecnico dettagliato) ma dal terreno più difficile:
quello del capitalismo (o socialismo) regionale e municipale.
Il campo è tanto ispido che il documento stilato dal
buon Carlo Cottarelli (chiamato
a rimettere ordine e presto rispedito, dal Presidente del consiglio,
oltre-oceano, dove non potesse sapere troppo su ciò che avviene in Italia) è
stato “segretato” come se contenesse segreti
di Stato sul terrorismo mondiale.
Interpolando dalle informazioni apparse sulla stampa a
proposito del documento segretato, analisi apparse sulla bella rivista Amministrazione
Civile del Ministero dell’interno (ha cessato le pubblicazioni subito dopo
avere toccato l’argomento), studi dell’Università La Sapienza di Roma e un saggio recente pubblicato dal Chief
Economist della Cassa Depositi e Prestiti, Edoardo Reviglio (Reviglio, 2014) si giunge ad una base
conoscitiva essenziale per trarre direttive operative.
In breve le “partecipate” a livello locale sono circa
25.000 mila (Cottarelli ne ha censite soltanto 8.000). Un centinaio sono partecipate
totalitarie, un migliaio sono aziende in cui la mano pubblica ha la maggioranza,
22.000 sono partecipate in cui gli enti pubblici hanno una quota inferiore al
49%. Sul totale ben 16.000 hanno una quota pubblica inferiore al 4%.
Numerosissime sono mere scatole cinesi in cui sovente il numero dei dipendenti
è inferiore a quello dei componenti degli organi di indirizzo di gestione.
Secondo Giovanni
Montemartini, che in età giolittiana teorizzò le municipalizzate
(Montemartini, 1902), avrebbero dovuto generare reddito da utilizzare a fini
sociali a beneficio degli “incapienti”, i più poveri dei poveri. Molte di esse,
invece, sono macchine per produrre debiti (si parla di circa 120 miliardi di
euro l’anno).
Occorre dire che all’interno del Governo era stato
proposto di fare pulizia, portando a non più di mille (nell’arco di tre anni)
il numero delle partecipate e di dismettere quelle con disavanzi per due anni
consecutivi, nonché un drastico dimagrimento degli organi di indirizzo e di gestione
e chiusura delle “scatole cinesi”. Alcune norme erano state previste nel più
recente disegno di legge di stabilità,
ma non sono state accolte.
Tuttavia, con un emendamento all’articolo 15 della
legge di stabilità al Senato, il Governo cancella con un colpo di spugna i
tentativi di razionalizzazione delle società partecipate messi in campo negli
ultimi anni. Niente vendite obbligatorie per le aziende dei Comuni fino a
50mila abitanti, previste dal 2010 e poi rinviate da una serie di proroghe, e
niente privatizzazione delle società strumentali, cioè quelle che lavorano
quasi solo con le amministrazioni controllanti, e che la spending review varata nel 2012 dal Governo Monti chiedeva di
vendere o chiudere entro il prossimo 31 dicembre. Tutto abrogato: il panorama
attuale delle società di Enti locali, Regioni e Ministeri può tranquillamente
rimanere quello attuale.
Al posto delle sforbiciate, sempre rimaste sulla
carta, il Governo tenta la strada del controllo dei bilanci, imponendo agli
enti che posseggono società in perdita di accantonare riserve e prevedendo, ma
solo dal 2017, la chiusura obbligatoria delle aziende che chiudono bilanci in
rosso per quattro anni consecutivi. Confermata, ma solo a partire dal 2015, la
possibilità di “licenziare” gli amministratori delle partecipate che chiudono
in perdita per due anni consecutivi. Sempre dal 2015, arriva un taglio del 30%
ai compensi dei manager delle società controllate e titolari di affidamento in
house che chiudono in perdita per tre anni consecutivi.
Dal 2015 è previsto che anche società partecipate,
aziende speciali e istituzioni, anche di Regioni e Camere di commercio, debbano
dare una mano nel “conseguimento degli obiettivi di finanza pubblica”. Come? In
primo luogo, la norma promette di individuare “parametri standard” dei costi e
dei rendimenti dei servizi, traducendo in termini societari il percorso dei
fabbisogni standard degli enti locali che però al momento si mantiene lontano
dal traguardo.
Più immediato è invece l’obbligo per gli enti
proprietari di accantonare in bilancio fondi di riserva, a garanzia delle
perdite accumulate dalle società. Le regole di questi fondi procederanno in due
tempi: nel 2014, ogni ente ha dovuto accantonare una somma pari alla perdita
registrata dalla sua società nel 2013 ma non c’è un documento complessivo che
registri se ciò è stato fatto. Nel 2015-2017, invece, le regole dividono le
società in due gruppi, a seconda del risultato medio del 2011-2013: se è
positivo, l’accantonamento sarà pari a una quota della perdita conseguita
nell’ultimo anno, altrimenti si calcolerà sulla media degli ultimi tre.
Infine, è utile rilevare che secondo alcuni giuristi,
il Governo avrebbe le mani legate dalla Costituzione. Dato che è in corso un
profondo processo di revisione, non sarebbe questo il momento più appropriato
per affrontare e risolvere il problema? Oppure bisogna concludere che è
unicamente un problema ideologico che non si arresta neanche a fronte di palesi
iniquità oltre che inefficienze? (Avsar V. Karayalcin C., Ulubasoglu 2013)
La privatizzazione di
Poste Italiane Spa
Il miglior elogio del servizio postale pubblico è un film del 1939
Mr. Smith goes to Washington. Firmato da Frank Capra
e con tre grandi nomi del cinema internazionale dell’epoca – James Stewart, Jeane Arthur e Claude Rains
-, il film racconta come un “uomo della strada” (un Signor Rossi qualsiasi)
diventi deputato e una volta a Capitol Hill ne scopra di cotte e di crude. Con
l’aiuto dei boy scout del suo collegio elettorale, riesce a raccogliere prove
di corruzione ed anche di legami con il crimine organizzato tra i suoi più “esperti”
colleghi deputati. Ma codesti, riescono a farle sparire. Tanto che Mr. Smith
sta per essere censurato ed anche condannato per calunnia. Ma al momento del
verdetto lo US Postal Service (che è sempre puntuale e che non sbaglia mai)
arriva, tramite un postino, con una vera e propria valanga di plichi contenenti
le prove. I “buoni”, ed i boy scout (nelle gallerie del pubblico per seguire la
vicenda), esultano! Gli spettatori si commuovono.
Non credo che si possa contare sull’efficienza di Poste Italiane Spa
totalitaria del Tesoro come dell’US Postal Service ai tempi di Frank Capra.
Abito a pochi passi da uno dei maggiori uffici postali di Roma – quello di
Viale Mazzini – e la posta viene recapitata mediamente ogni tre giorni. In
gennaio, le cassette sono rimaste vuote per quasi due settimane. Ovviamente,
venivano riempite da chi non si serve di Poste Italiane ma di corrieri privati:
intermediari finanziari, stampa quotidiana e settimanale, enti privati (e
pubblici) per l’invio di bollette di pagamento e via discorrendo. Sembra di
essere tornati al Settecento quando il servizio postale era essenzialmente
un’attività privata. Se ci reca nel grande ufficio di Viale Mazzini, ci si
accorge in un batter d’occhio che unicamente un paio di sportelli sono dedicati
al servizio postale. Infatti, c’è di tutto: da servizi finanziari a vendita di
articoli di consumo. Ciò perché, quando è stata varata la riformava normativa
che rendeva Poste Italiana una Spa, non sono state inserite clausole rigorose
di unbundling, ossia di “spacchettamento”
funzionale e contabile tra le varie attività. Se si studiano le delibere
dell’Autorità per il Gas e l’Energia ci si accorge che numerose riguardano
proprio l’unbundling.
Oggi comunque non siamo più nel 1939. Lo stesso Governo degli
Stati Uniti ha costituito, nel 2002, una Presidential Commission on the US
Postal Service (Geraldin, Sidak, 2005-2014). Il lavoro documenta che non si
privatizza il servizio postale per “fare cassa” ma per migliorare efficienza ed
efficacia; contiene a riguardo utili indicazioni su come effettuare tali
miglioramenti anche in regime di monopolio statuale. Tanto più essenziale in
quanto lo US Postal Service ha accumulato oltre 40 miliardi di dollari di
perdite dal 2006 a oggi e prevede che il rosso annuale supererà i 18 miliardi
entro il 2015.
Sotto il profilo strettamente finanziario, gli esiti sono molto
misti. Ad esempio, la privatizzazione delle poste inglesi è costata ai
contribuenti quasi un miliardo di euro. E anche in Olanda il bilancio di una
operazione analoga è, per il momento, negativo. Al contrario le esperienze
della Germania, e in parte del Belgio, lasciano ben sperare.
Nel Regno Unito, perplessità sorgono spontanee dopo l’allarme
dalla Corte dei conti britannica a cui pare ci si sia voluti sbarazzare della
Royal Mail con eccessiva fretta nell’ottobre del 2013. L’errore di fondo del
Governo britannico è stata la quotazione iniziale mirata a creare una compagine
a capitale diffuso, favorendo però coloro che fecero balzare il titolo del 38%
nel primo giorno della quotazione. Il prezzo era tanto sottovalutato che la
domanda fu 23 volte più alta dell’offerta. Criticatissimo il ruolo degli advisor, pur se tutti nel Gotha della
finanza (Lazard, Goldman Sachs, Barclays e Ubs). Il Governo di Londra ha sempre
respinto le critiche e difeso a spada tratta la privatizzazione, riportando
l’esempio dei “successi” di Belgio e Germania. Nel caso di Bruxelles, il
governo belga ha venduto nel 2006 alle poste danesi e al fondo di private equity
Cvc Capital Partners poco meno del 50%
del servizio postale per 300 milioni di euro. Il risultato, è arrivato subito
dopo la parziale privatizzazione: il gruppo è tornato in utile e ora ha un
margine di profitto del 17 %.
Per quanto riguarda la Repubblica federale tedesca, la
privatizzazione del servizio postale è ritenuta, a livello internazionale. un
vero successo A differenza del caso inglese, infatti, il titolo di Deutsche
Post, che nel primo giorno di contrattazione ha guadagnato soltanto l’1%, ha
registrato acquisti in graduale crescita e il valore di mercato della società è
salito dai 23,05 miliardi di euro del 2000 agli attuali oltre 32 miliardi. I
sostenitori della privatizzazione del gruppo tedesco sottolineano inoltre
l’impennata del fatturato, arrivato a 55 miliardi di euro nel 2013 dai 22,3
miliardi del 1999. L’operazione, secondo un report diffuso nel 2011
dall’organizzazione di ricerca canadese Montreal Economic Institute sui servizi
postali in Europa, ha avuto un impatto positivo anche sui prezzi dei
francobolli tedeschi, scesi del 17%. Anche se l’andamento dei conti di Deutsche
Post dipende più da attività collaterali che dal recapito di lettere e pacchi.
Da quando è stato privatizzato, Deutsche Post ha comprato sette società del settore
postale in tutto il mondo, ha fondato un portale di shopping online e ha
acquisito una partecipazione in un’azienda di e-commerce tedesca oltre che in
diverse società estere attive in vari settori. Più che raddoppiando la parte
del fatturato generato da attività estranee a quella postale. Ma con paletti
seri. Vere e propria mura – in materia di unbundling.
Decisamente controversa è stata la privatizzazione delle poste
olandesi,effettuata nel 1989. Ha portato alla chiusura del 90% degli uffici
postali. Ora nei Paesi Bassi esistono quattro diverse compagnie (PostNL, Sandd,
Selekt e Netwerk vsp) che consegnano la posta in orari diversi e a prezzi
differenti. A beneficiare della maggiore concorrenza, sono soprattutto le
imprese con volumi di spedizione maggiori.
E’ a queste esperienze che occorre guardare. E’ altamente
probabile che nel 2015 si dovrebbe concretizzare la Offerta pubblica di vendita
del 40% di Poste Italiane Spa. Non è al risultato finanziario che occorre
badare – le stime sono tra 4 e 10 miliardi di euro, a seconda che si metta sul
mercato una quota (l’ipotizzato 40%) od il tutto. Nell’un caso o nell’altro, è un’inezia
a fronte dell’Himalaya del debito pubblico. Tutto dipende da come la
privatizzazione verrà utilizzata per migliorare efficienza ed efficacia. Il
rapporto Sinossi 2014 presentato nel febbraio 2015 da Teleborsa, un portale
specializzato, traccia un quadro incoraggiante, specialmente dei cambiamenti
effettuati al vertice per agevolare il collocamento sul mercato (Sinossi 2015).
La
privatizzazione dell’Enel
Se le cose vanno come desiderato al Mef ed a Palazzo
Chigi, la vendita del 3-6% di quote Enel potrebbe essere presentato come “il
fiore all’occhiello” delle privatizzazioni. Verrebbe effettuata in tempi brevi:
il collocamento inizierebbe nella primavera 2015, anche in quanto ci sarebbero
investitori internazionali (sembra fondi sovrani cinesi) interessati
all’acquisto. Il provvedimento porterebbe “cassa” (si stima sino a due miliardi
di euro) senza fare perdere allo Stato il controllo di quello che è, in
sostanza, il protagonista della produzione dell’energia elettrica. Al termine
della cessione il Mef, oggi azionista con il 31,2%, si troverebbe a scendere al
25% circa. Il secondo azionista di peso, dopo l’azionista pubblico, resterebbe
People’s Bank of China con una quota del 2%. In febbraio 2015, è stato
collocato il 5,275 del capitale con un incasso di 2,16 miliardi; non si sa se
verranno effettuati altri collocamenti nel corso dell’anno, rendendo davvero
minoritaria la partecipazione dello Stato in quella che sta assumendo le guisa
di una public company
Più importanti dei due miliardi di euro, che appena
scalfirebbero l’irta montagna del debito pubblico, la misura sarebbe una prova
concreta che il Governo intende andare avanti seriamente con il programma di
privatizzazioni (fermo da circa tre anni) almeno per quanto le materie nelle
competenze dello Stato centrale.
La cessione di quote Enel arriva, inoltre, in un
momento particolarmente propizio: in una fase in cui il calo di domanda pesa
sui ricavi (per ben 75,8 miliardi di euro), ma l’Ebitda (Earnings Before Interest Tax and Debt Amortization) è in linea con
gli obiettivi, e soprattutto l’indebitamento scende a 38 miliardi in gennaio
2015 da 44,57 in settembre 2014, nonostante i maggiori investimenti. Ciò indica
che il management è stato in grado di cogliere le opportunità del ribasso
internazionale ed europeo dei tassi d’interesse e d’effettuare buone operazioni
di rifinanziamento, oltre che di portare a termine cessioni di controllate
all’estero (Egp France e le attività in El Salvador).
Un terzo elemento è il desiderio di numerosi
investitori, piccoli e grandi, di porre i propri risparmi in collocamenti a
lungo termini con poco rischio, rendimenti non elevati ma con caratteristiche
di permettere di dormire tra due cuscini. I risparmi delle famiglie italiane
sono arrivati a 3.800 miliardi di euro nonostante la tassazione sia cresciuta
da 6,9 miliardi nel 2011 a 15,9 miliardi stimati nei documenti di finanza
pubblica per il 2015, secondo il Centro Studi Impresa Lavoro (Centro Studi
Impresa Lavoro, 2015). L’investimento nell’attore principale di un mercato
oligopolista pare avere le caratteristiche appropriate.
Il 26 gennaio 2015 al Mef si è tenuta una riunione con
il comitato per le privatizzazioni e gli advisor
(Equita e Clifford Chance) per mettere a punto la strategia. In allerta
sarebbero anche le banche già individuate per il consorzio di collocamento, una
decina in tutto, tra i maggiori player internazionali e italiani, incluse Banca
Imi e Unicredit. La tipologia di operazione su cui si sta lavorando è quella di
un book building accelerato, che consentirebbe la realizzazione di un
collocamento lampo da chiudere nel giro di alcune ore.
Nell’ottica di chi ritiene che le privatizzazioni non
debbano essere solamente o principalmente uno strumento di breve periodo per
“fare cassa”, ed innescare energie nuove nell’azionariato oggi e domani anche
nel gruppo dirigente, è doveroso chiedersi perché il Mef non abbia colto questa
occasione per cominciare a mettere ordine in un mercato caratterizzato da
liberalizzazioni incompiute, molteplicità di attori pubblici e privati, nonché
nazionali ed europei, ed una regolamentazione incompleta ed in cui vari aspetto
si accavallano.
In Italia, abbiamo l’Autorità per l’Energia Elettrica
ed il Gas, Terna (proprietario della rete e responsabile della trasmissione e
del dispacciamento di energia elettrica), il Gestore dei servizi energetici,
principalmente per gli incentivi alle fonti rinnovabili, l’Acquirente unico,
garante di ultima istanza della fornitura alle famiglie ed alle piccole
imprese. A livello europeo c’è l’Agenzia
per la cooperazione tra i regolatori nazionali, in cui concorrono autorità
statali incorporate nel processo regolatorio europeo. In breve, un vero e
proprio labirinto. Una guida efficace sono i 22 saggi raccolti nel volume a
cura di Alberto Clò, Stefano Clò e Federico Botta (2014) ed uno studio breve ma molto utile di Carlo
Stagnaro (2014). Siamo in una fase di transizione, con un mercato che continua
ad essere oligopolistico, con molte e complesse nuove regole. Ciò non vuol dire
che il riassetto del settore (eliminando ad esempio duplicazioni ed
accavallamenti), debba essere simultaneo alla cessione di quote, ma dovrebbe,
per mostrare un nesso, avvenire nei prossimi mesi. Allora sarebbe una “vera”
privatizzazione con una ricaduta istituzionale sul funzionamento del mercato,
attraverso una maggiore spinta competitiva (Volokh A, 2014).
La privatizzazione delle Ferrovie
Il Governo oggi in carica ha annunciato,
indirettamente tramite il cosi detto “decreto mille proroghe” che la
privatizzazione (se avverrà) inizierà nel 2016 (non più nel 2015 come previsto
negli ultimi mesi del 2014) ma proprio perché la “denazionalizzazione” delle Ferrovie
richiede un disegno di lungo periodo “a prescindere” – avrebbe detto Totò – dai Governi in carica e dalle “congiunture”
economiche.
Il termine “denazionalizzazione” è, a mio avviso, più
appropriato di “privatizzazione” poiché in Italia, come altrove (nella stessa
Russia zarista), le ferrovie nascono, nell’Ottocento, per iniziativa privata (e
quindi con il vincolo di essere redditizie sotto il profilo finanziario). In
numerosi Paesi europei sono state “nazionalizzate” principalmente in quanto i
gestori (e gli azionisti) della seconda e terza generazione non sono stati
all’altezza di operare sistemi sempre più complessi ed offrire servizi
remunerativi in tratta a bassa densità di popolazione o basso reddito (oppure
in cui le due determinanti si cumulavano) ed, infine, a ragione delle
requisizioni per il trasporto di truppe in periodi di guerra (fondamentale fu
l’esperienza del conflitto franco-prussiano nel 1870). In altri continenti
(soprattutto in Asia ma non mancano esempi nell’emisfero occidentale) non
mancano esempi in cui operano ferrovie sia statali sia private, non
necessariamente in concorrenza ma con obiettivi e tipologie di servizio
differenti.
Oggi in Italia, le Ferrovie dello Stato Spa (Fs) è una
società di proprietà interamente del Mef. Impiega 83.000 ferrovieri, più di
9mila treni e gestisce una rete di oltre 16.600 chilometri su cui viaggiano
ogni anno 600 milioni di persone e 50 milioni di tonnellate di merci. Ferrovie
dello Stato Spa è attivo anche con il sistema Alta Velocità Fs. Questi pochi
dati sono indicativi della complessità di un sistema nato con project financing per il tratto
Napoli-Portici , definito nel 1836 ed in funzione dal 1839 nel Regno delle Due
Sicilie, allora considerato arretrato economicamente, socialmente e
politicamente.
Le Ferrovie dello Stato sono state istituite con la
Legge n. 137 del 22 aprile 1905 assumendo a totale carico dello Stato la
proprietà e l'esercizio della maggior parte delle linee ferroviarie nazionali,
fino ad allora in mano a varie società private, operanti in gran misura sulla
base di concessioni che definivano prestazioni di servizio e tariffe. Nel 2001
è avvenuta la trasformazione di Ferrovie dello Stato Spa in Rete Ferroviaria
Italiana Spa. La holding viene ricostituita sulla base di Ferrovie dello Stato
Holding Srl, creata da Fs Spa e poi ceduta al Ministero del Tesoro.
Contemporaneamente, all'interno di Ferrovie dello Stato Spa è nata Trenitalia
Spa (già Italiana Trasporti Ferroviari Spa), ceduta poi a Ferrovie dello Stato
Holding Srl. Nel 2001 Ferrovie dello Stato Holding Srl è diventata Ferrovie
dello Stato Spa. Quindi, un percorso organizzativo complesso anche se si guarda
solamente agli ultimi tempi.
Nel giorno del
debutto di RaiWay a Piazza Affari, il Mef ha istituito gruppo di lavoro con
l'obiettivo di "predisporre tutte le misure necessarie all'apertura del
capitale di Fs e alla sua quotazione in Borsa”. Il Mef ha auspicato che
"l'approdo delle Ferrovie sul mercato avvenga in tempi rapidi. E' una
importante occasione per valorizzare un'azienda che ha dimostrato di essere
motore di modernizzazione del Paese''. Il Ministro delle Infrastrutture ha
sottolineato che "la collocazione di Fs sul mercato è il riconoscimento
del valore di un'azienda che ha saputo svolgere il ruolo di servizio pubblico e
nel contempo ha dato dimostrazione di efficienza. La privatizzazione è
un'occasione per accentuare la missione affidata a Ferrovie, compreso il
mandato sul miglioramento del trasporto pubblico locale". Nonostante le
frequenti accuse giornalistiche di essere un “carrozzone” le Ferrovie dello Stato hanno chiuso il 2013 con ricavi per 8,3 miliardi di euro, un risultato
operativo di 818 milioni e utili per 460 milioni ; forniscono, quindi, un
contributo finanziario significativo al loro azionista unico. Ciò è
un’ulteriore indicazione della delicatezza del tema.
Da un lato, la
“denazionalizzazione” delle ferrovie può essere un veicolo per convogliare
risparmio delle famiglie (come si è detto, 3.800 miliardi di euro all’ultima
conta) verso investimenti a lungo termine che abbiano una redditività non
elevatissima ma sicura, che consentano padri e madri di famiglia di collocare
serenamente i propri risparmi. Da un altro, c’è indubbiamente la tentazione di
impostare la “denazionalizzazione” dando la priorità ai rami aziendali più
redditizi come l’Alta Velocità, specialmente Nord-Sud, e lasciare ad aziende
che dovrebbero essere sussidiate dall’erario ferrovie locali e l’attraverso da
Tirreno ad Adriatico-Jonio (tratte notoriamente difficili a ragione delle
dimensioni dei centri urbani e della distribuzione della popolazione). Ciò
potrebbe portare al paradosso di una “denazionalizzazione” diretta a
privatizzare i benefici e socializzare i costi, nonché ad una frammentazione
tecnica di un sistema frutto di circa 120 anni di evoluzione come sistema
integrato.
Non
mancano in materia esperienze a cui guardare. Ad esempio, già oltre dieci anni
fa (Affusso, 2003) veniva delineata, in termini non positivi, la
“denazionalizzazione” delle ferrovie britanniche, completata nel 1994, ed
effettuata tramite una frammentazione verticale ed orizzontale del sistema
tramite 25 contratti di concessione a differenti operatori. A conclusioni
analoghe sono giunti molti altri (ad esempio, Shaul 2006; Estache e Goldstein,
2001; Estache, Carbaro, de la Ruz, 2004; Bogart e Chaudhary, 2014, Welllings
2014)l Si
potrebbe continuare anche perché la letteratura in materia è sconfinata. Punta
tutta nella stessa direzione: la necessità di un’ottica a lungo termine che
sappia recepire il meglio delle esperienze di altri Paesi al fine di
contemperare le differenti e spesso divergenti esigenze ed obiettivi del
sistema.
I dati riassunti all’inizio indicano l’incidenza
delle Ferrovie dello Stato nell’economia italiana. Occorre evitare di cadere in
trappole come quelle della privatizzazione Telecom vent’anni fa. Quindi, si
prenda il tempo che ci vuole per impostare bene il metodo.
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