domenica 31 maggio 2015

CRISI GRECIA/ Dallo Zambia la mossa che può salvare Atene dal default in Sussidiario 1 giugno



CRISI GRECIA/ Dallo Zambia la mossa che può salvare Atene dal default

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Banche: Buttiglione (Ap), necessaria legge recupero crediti (2)

Banche: Buttiglione (Ap), necessaria legge recupero crediti

Unicamente Alexis Tsipras e Yanis Varoufakis si illudono che continuare su questa strada convenga loro. Dall’inizio di questa puntata della “saga greca” (la richiesta di un nuovo salvataggio a spese dei contribuenti del resto dell’Unione europea), abbiamo esaminato i tentativi di negoziare un accordo utilizzando come schema di riferimento la “teoria dei giochi”. Da giorni, siamo arrivati al “gioco a ultimatum”, con Atene che minaccia il crollo dell’unione monetaria ove non dell’Ue se la Grecia fosse “costretta” a lasciare l’area dell’euro, mentre il Fondo monetario internazionale (e altri) rispondono che, tutto sommato, si tratterebbe di poco danno.
Nell’ultima settimana, Atene ha insistito che c’erano tutti gli elementi per giungere a un’intesa entro la sera di domenica 31 maggio. La prognosi è stata definitivamente smentita quando è apparso chiaro che Tsipras e Varoufakis intendevano un accoro quadro di massima. Con l’accordo sarebbe arrivato denaro fresco (dal resto dei contribuenti europei) per permettere alla Repubblica Ellenica di pagare la rata di rimborso al Fmi in scadenza il 5 giugno. Naturalmente, al resto dei Governi europei un accordo quadro (i cui contenuti sarebbero stati definiti nelle settimane successive) non sta bene: lo ha detto senza perifrasi il ministro delle Finanze tedesco Wolfgang Schäuble e lo hanno ripetuto gli altri. Lo ha compreso lo stesso Jack Lew, Segretario di Stato degli Usa, il quale aveva posto i propri buoni uffici nel timore che, in caso di fallimento, Atene sarebbe finita nella braccia di Mosca.
Sabato 30 maggio, Il Corriere della Sera (quotidiano che ha spesso guardato alla Grecia con una dose di simpatia) ha pubblicato un’analisi comparata degli esiti del riassetto strutturale effettuato nella Repubblica Irlandese e dei risultati del mancato riassetto strutturale in quella Ellenica. Sempre il 30 maggio, sulla prima pagina del New York Times spiccava il titolo: “Per la Grecia, la scadenza è arrivata; si tenta di annegarla in un diluvio di parole”. The Economist insisteva: “Le chiacchiere devono finire”.
In effetti, il clima è molto cambiato rispetto a qualche settimana fa. Da un lato, il “gioco a ultimatum”, suggerito da Varoufakis, non si fa se la pistola è scarica. Infatti, dopo una trattativa durata tanto a lungo, l’uscita dalla Grecia dall’unione monetaria (o perché decisa da Atene o perché la Repubblica viene espulsa - secondo alcuni giuristi verrebbe messa contemporaneamente alla porta anche dell’Ue) non causerebbe tanti guai. L’Italia è stata presentata come il Paese a più alto rischio di contagio (a ragione dell’elevato debito pubblico e di un Governo tanto più fragile quanto più autoritario); non solo il ministro dell’Economia e delle Finanze Pier Carlo Padoan ha rassicurato che “siamo in sicurezza”, ma l’esperienza storica e recenti analisi economiche mostrano che il rischio di contagio è bassissimo. D’altro canto, la minaccia di un rovesciamento delle alleanze, con la Grecia alleata alla Federazione Russa, è minima: Putin ha fatto capire alle diplomazie occidentali che, con tanti problemi a casa propria e nei dintorni, non è affatto pronto ad abbracciare “i due difficili ragazzi greci”.
E allora, nei prossimi giorni dal “gioco a ultimatum”, Atene passerebbe al tentativo di un “gioco cooperativo”: metterebbe sul piatto la riforma delle pensioni e la privatizzazione del porto del Pireo per ottenere in cambio dal Fmi la possibilità di pagare le quattro scadenze di giugno in un’unica rata a fine mese e predisporre, nel contempo, il piano dettagliato di riforme. A mia memoria, il Fmi ha concesso solamente una volta, allo Zambia circa quaranta anni fa, la possibilità di combinare in un unico pagamento più rate con una dilazione (per le prime rate) di alcune settimane. Tsipras non lo sa, ma Varoufakis ne è ben consapevole. Ad Atene si fa di tutto per evitare di far sapere che si sta tentando di essere trattati come Lusaka: i greci sono orgogliosi e la leadership della sinistra ha già abbastanza problemi con la base del partito.
Nonostante l’Amministrazione americana insista perché il Fmi sia “comprensivo”, non è detto che alla prossima riunione del Cda del Fondo (3 giugno), la Grecia ottenga, sul filo, il bundling concesso decenni fa allo Zambia. Anche ove ciò avvenisse, il passaggio da “gioco a ultimatum” a “gioco cooperativo” non è affatto facile, dopo tante parole forti, inganni e disinganni.
Ho ricordato più volte La guerre de Troie n’aura pas lieu di Jean Giradoux del lontano 1935 (riproposta da Diego Fabbri al Teatro della Cometa negli anni Sessanta): anche lì, grazie alla mediazione di Ulisse (da parte greca) e di Ettore (da parte troiana) si era passati da ultimatum feroci a un compromesso (Elena sarebbe stata resa a Menelao che se la sarebbe ripresa con annessi e connessi di corna). Durante i festeggiamenti per l’accordo raggiunto, bastò una freccia impazzita di un soldato avvinazzato a scatenare dieci anni di putiferio.


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La Grecia è contagiosa? da Formiche 31 maggio



La Grecia è contagiosa?

31 - 05 - 2015Giuseppe Pennisi
In questo fine settimana, la saga greca dovrebbe giungere a conclusione. O quanto meno, effettuare una svolta. Le parole del managing director del Fondo monetario internazionale (Fmi), Christine Largarde, devono essere meditate con cura. Non sarebbe affatto la prima volta se uno dei membri di un’unione monetaria la lascia oppure ne viene cacciato, nonostante il trattato istitutivo dell’unione medesima, o i suoi statuti, la dichiarino ‘irreversibile’. Quando le politiche dei vari “soci” divergono eccessivamente, la corda che li lega nell’unione monetaria prima o poi si spezza.
La rottura della corda comporta necessariamente un “contagio”? Casi degli ultimi cinquanta anni mostrano che gli esiti possono essere molto differenti. Nel novembre 1967, ad esempio, la rottura del patto implicito tra Bank of England e gli altri portò alla morte dell’area della sterlina in poche ore. Analogamente, nel 1975, la fine dell’unione monetaria dell’Africa orientale ebbe conseguenze in una zona molto vasta, Africa australe inclusa. Più o meno nello stesso periodo, la secessione del Madagascar dalla Comunità Finanziaria Franco-Africana (che aveva una moneta unica) non lasciò nessun ferito sul campo. Una decina di anni prima, Singapore sbatté la porta dell’unione monetaria della Malesia (e si diede una Costituzione in cui vietava l’istituzione di una banca centrale) e pochi ne soffrirono.
Quindi molto dipende da circostanze quali il grado di integrazione e la convergenza (o meno) delle politiche economiche. Sugli effetti di un’uscita (volente o nolente) della Grecia dall’unione monetaria europea, molto si è scritto e si è detto. Toccherebbe certamente le tasche degli italiani (se non rimborsa, o perché non può oppure perché non vuole, il Tesoro i 40 miliardi di euro di prestiti concessi dall’Italia), tuttavia, non è affatto certo che sposti la speculazione internazionale verso i nostri titoli di Stato.
Il ministro dell’Economia e delle Finanze, Pier Carlo Padoan, è uno studioso di economia internazionale. Afferma che l’Italia è “in sicurezza”. La letteratura scientifica recente gli dà tutto sommato ragione.
Ad esempio, è uscito in questi giorni in lavoro di Theodore Bratis, Giorgio Kouretas (ambedue dell’Università di Atene) e di Nikoforos Laopolis (Università di Faifield) Systemic Risk and Financial Market Contagion- Bank and Sovereign Credit Markets in the Eurozone. Lo studio esamina in dettaglio lo spread dei Credit Default Swaps sia dei titoli bancari sia nel debito sovrano nell’eurozona tanto tra mercati quanto tra Paesi e conclude che i casi di contagio (dal 2008) sono stati molti rari.
A conclusioni analoghe giungono due studi differenti in approccio e metodologia ma che contengono indicazioni per le autorità bancarie centrali (nel caso specifico, la Banca centrale europea, Bce).
Il primo è un CEPR Discussion Papewr (il No. DP10609- In Fulfilliing Debt Crisis Can Monetary Policy Really Help?) e ne sono autori Philippe Bacchetta e Elena Perazzi (ambedue dell’Università di Losanna) e Eric Van Wincoop (Università della Virginia). Il secondo è un lavoro del servizio studi della Banca centrale francese: ne è autore un economista dell’istituto François Koulischer (Banque de France N0. 554- Asymmetric Shocks in a Currency Union . The Role of Central Bank Collateral Policy). In parole povere, i due studi, seguendo percorsi differenti, giungono alla stessa conclusione: la Bce deve tenere i nervi saldi e non fare mancare ossigeno al resto del sistema.

sabato 30 maggio 2015

Sui germogli di crescita già si addensano nubi internazionali in Avvenire 30 maggio



Sui germogli di crescita già si addensano nubi internazionali
Vale sempre la pena leggere le indicazioni dall’economia internazionale al fine di formulare stime sulla ripresa europea e sulle politiche economiche per incoraggiarla. Il primo indicatore riguarda il commercio mondiale, specialmente per un Continente (e un Paese come l’Italia) la cui crescita ha preso l’abitudine di essere al traino delle esportazioni. L’ultimo Rapporto dell’Organizzazione mondiale del commercio (Omc) afferma che nel 2014 l’export mondiale è cresciuto appena del 2,8%. Per il 2015 si prevede un +3,3%, stima già rivista però due volte al ribasso e comunque inferiore a quanto necessario a fare da motore al Pil mondiale. Negli ultimi trent’anni il Pil mondiale è di solito cresciuto a un tasso pari a due terzi quello del commercio. Nel primo trimestre 2015 l’aumento del Pil mondiale ha riportato un tasso annuo appena dell’1,2% a ragione in gran parte del rallentamento negli Stati Uniti (di ieri la brusca frenata del Pil Usa), Cina e Giappone nonché della stagnazione europea. La Fed di Atlanta ha pubblicato una stima ancora meno incoraggiante: nel 2015 il Pil mondiale aumenterebbe meno dell’1% e già adesso la crescita nel secondo trimestre sarebbe appena dello 0,7%. Nel contempo, però, l’occupazione mondiale si sviluppa a un tasso dell’1,5% – più veloce, dunque, di quello del Pil. C’è da stare allegri? Non proprio: la differenza probabilmente rispecchia una contrazione della produttività. Così come avvenne in Italia una diecina di anni fa, quando il tasso di disoccupazione diminuiva e, dopo qualche tempo, ci si accorse di stagnazione e riduzione della produttività. Questi dati possono suggerire che l’economia mondiale è alla soglia di una nuova recessione, con insidie per chi – come l’Italia – ne sta uscendo adesso. Possono anche voler dire che le misure monetarie adottate negli Usa, in Europa e in Giappone stanno facendo sì che si operi quasi a piena capacità: tra breve lo si dovrebbe avvertire nei mercati del lavoro e ne risulterebbero aumenti delle retribuzioni e della domanda interna (che sostituirebbe almeno in parte l’effetto commercio internazionale). Dalle due interpretazioni derivano indicazioni di politica economica differenti – puntare sull’export (anche nel nuovo programma tornaround appena varato dal governo) oppure sulla domanda interna (riaprendo ad esempio la contrattazione per il pubblico impiego, ferma da sei anni).
Giuseppe Pennisi

venerdì 29 maggio 2015

EXPO 2015/ CO2 e il futuro dell'Opera italiana in Il Sussidiario del 29 maggio



EXPO 2015/ CO2 e il futuro dell'Opera italiana

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Foto  Brescia/Amisano – Teatro alla Scala  Foto Brescia/Amisano – Teatro alla Scala
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Co2, commissionato per l'Expo a Giorgio Battistelli dal Teatro alla Scala, è innanzitutto un lavoro accattivante che strizza l'occhio al pubblico internazionale. E ai giovani; proprio per questo motivo ho scelto di andarlo a vedere non alla prima il 16 maggio ma alla diurna del 24 maggio, uno spettacolo della serie Scala Aperta a prezzi ridotti. Avevo avuto un’esperienza simile a Palermo con Senso di Marco Tutino, la cui prima era stata impedita da scioperi; alla pomeridiana, con 700 ragazzi, si avvertiva come il buon teatro in musica li avvincesse.
CO2 e Senso sono lavori molto differenti. Il primo è tratto da una novella risorgimentale di Arrigo Boito e da un notissimo film di Luchino Visconti. Il libretto, in inglese, di Ian Burton è tratto da un libro filosofico del Premio Nobel Al Gore. In 90 minuti, gli spettatori assistono a una conferenza scientifica sul cambiamento climatico intercalato con il racconto biblico dalla Genesi all'Apocalisse. Per rendere l'apologo comprensibile, vengono utilizzate tutte le tecniche della drammaturgia e della scenografia oggi disponibili. A partire dalla regia di Robert Carsen fino alle scene di Paul Steinberg e i costumi di Petra Reinhardt, nonché i giochi di luce di Peter van Praet e i video (anche tridimensionali) di Finn Ross. 
Non mancano riferimenti a leggende indù, momenti dedicati alla conferenza di Kyoto e allo tsunami in Thailandia. Nel finale, lo scienziato protagonista dell'opera si rivolge direttamente al pubblico chiedendo: «Se questa non è mia responsabilità, allora di chi è?». Il pubblico risponde con dieci minuti di ovazioni, dimenticando, forse, che la responsabilità della società iper-consumistica mostrata nell'opera è anche sua. Il complesso apparato scenico è inquadrato in un enorme iPad e la scrittura musicale è eclettica e facilmente fruibile: arie, ariosi, sprechgesang, canto vero, declamazione intonata. Buona la concertazione di Cornelius Meister, di livello i numerosi solisti.
A differenza di altri lavori di Battistelli che nella tradizione della literatur oper di fine ottocento- inizio novecento si basano su drammi, commedie ed anche film di successo, CO2 ci porta dalla Genesi all’Apocalisse passando per il Protocollo di Kyoto. L’opera ha una struttura simbolica, nove scene e un epilogo con un filo conduttore che è il rapporto tra uomo e natura: si parte da Adamo ed Eva e si arriva allo tsunami. A guidare lo spettatore la figura di uno scienziato, David Adamson, che tradotto significa “figlio di Adamo”. Racconta le deturpazioni che il mondo ha subito e le catastrofi naturali. C’è una danza degli uragani dove sfilano le maggiori calamità che hanno messo in ginocchio varie zone del pianeta negli ultimi 25 anni. E c’è quello che l’uomo ha provato a fare per tutelare la terra: il Vertice di Kyoto con i delegati che, discutendo di clima, parleranno ognuno nella propria lingua, inglese, arabo, russo e giapponese. Il finale racconta l’Apocalisse con quattro arcangeli che dialogano con quattro scienziati. 
Con Battistelli hanno lavorato il librettista Ian Burton ed il regista Robert Carsen. CO2 è la seconda opera di Giorgio Battistelli su un testo di Ian Burton dopo Richard III (2005). Il titolo fa riferimento alla formula chimica dell’anidride carbonica, sostanza indispensabile per i processi vitali della natura – quali, per esempio, la respirazione dell’uomo e degli animali e la fotosintesi delle piante – ma al contempo responsabile, insieme con altre, del surriscaldamento globale e dell’effetto serra che minacciano la Terra. 
E’ facile profetizzare che l’opera avrà grande successo all’estero mentre in Italia si farà di tutto per ignorarla. Si pensi a Senso; si sarebbe dovuta vedere a Bologna ed a Trieste (dove non è stata calendarizzata) mentre ha ricevuto ovazioni a Varsavia e mi si dice che sta trionfando in America. Oppure a Le Malentendu di Matteo D’Amico; tre recite a Macerata nel 2009 e poi, nulla. Oppure ancora Il Tempo Sospeso nel Volo di Nicola Sani e Franco Ripa di Meana, opera di grande impatto civile (tratta del viaggio verso la stragi di Capaci) che dovrebbe essere vista in tutte le scuole ma dopo la prima esecuzione si può vedere unicamente in DvD di servizio. Tranne Senso si tratta di lavori a basso costo con una musica fruibile: ciò che gli amministratori di teatri dovrebbero inseguire. Ed il Ministero costringerli a farlo. 
Ho ritrovato un mio articolo del 2006, anno  mozartiano. Mentre i teatri italiani inauguravano le stagioni all’insegna di Mozart (in occasione del 250esimo anniversario dalla nascita) oppure con titoli notissimi quali “Traviata” e “Fidelio”, alcuni dei maggiori teatri stranieri inauguravano con “prime” mondiali o europee di autori contemporanei. Ad esempio, a Londra l’English National Opera (2800 posti) è in “prima mondiale” con “The bitter tears of Petra von Kant” (“Le lacrime amare di Petra von Kant”) del compositore irlandese Gerald Barry. A Bruxelles, la stagione de La Monnaie è stata aperta da “Thyeste” novità assoluta di Jan van Vljimen e a Strasburgo (nonché negli altri teatri associati all’Opéra du Rhin nell’Est della Francia), da “Pan”, altra novità assoluta, questa volta di Marc Monnet. A Berlino, addirittura due novità, una “europea” e una “mondiale”, quasi in contemporanea: alla Deutsche Opera, nei quartieri occidenti della città, la prima europea di “Sophie’s Choice” (“La scelta di Sofia”) di Nicholas Maw (già un successo negli Usa) e, a due chilometri di distanza, nei pressi della Porta di Brandeburgo, la Staatsoper under den Linden proponeva la “prima mondiale” di “Seven attempted escapes from silence” (“Sette tentativi di fuga dal silenzio”), un libretto di Jonathan Safran Foer messo in musica da sette giovani compositori di Paesi e scuole musicali differenti. Oltreoceano, poi, inaugurare con prime mondiali di autori contemporanei è ormai prassi; al War Memorial Opera House di San Francisco l’avvio veniva dato il primo ottobre con “Doctor Atomic” di John Adams, una ricostruzione, a 60 anni di Hiroshima e Nagasaki del Manhattan Project che portò alla prima bomba atomica e del travaglio che comportò per gli scienziati in essi coinvolti. Quest’anno War Memorial Opera House apre la stagione con ‘Two Women’ di Marco Tutino trattoda ‘La Ciociara’ di Moravia.
Come spiegare il fenomeno? Soffermiamoci prima sugli aspetti positivi - perché l’opera lirica contemporanea “funziona”, ha un suo pubblico all’estero – per vedere poi quelli, negativi, che riguardano il nostro Paese. In primo luogo, specialmente nel mondo anglosassone, ci sono due filoni ben distinti: uno di teatro in musica tratto da drammi, romanzi o anche film di successo (alla stregua della “literaturoper” a cavallo tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento); uno chiaramente sperimentale. 
Il primo è rivolto al grande pubblico: vicende note, musica accattivante, spesso diatonica, enfasi sul ritmo, Attenzione, non si è alle prese con dei musical alla Broadway ma con opere liriche vere e proprie (che seguono tutte le “convenzioni” dell’opera lirica: grande organico orchestrale, arie, duetti, concertati, voci assolutamente non microfonate e nella tassonomia abituale (soprano, mezzo, contralto, tenore, baritone, basso, con la riapparizione dei controtenori di epoca barocca). In Italia se ne è avuto un assaggio con “A streetcar named desire” di André Previn (dal dramma di Tennessee Williams) messo in scena al Teatro Regio di Torino, nonché con “The death of Kinglofer” di John Adams (sulla vicenda dell’Achille Lauro) allestito a Ferrara ed a Reggio Emilia e con A View from the Bridge di William Bolcom.
L’altro filone è più chiaramente sperimentale. Un esempio è “Seven attempted escapes from silence”, prodotto dell’ingegno di un enfant prodige Safran Foer (allora aveva 27 anni) i cui due primi romanzi – “Ogni cosa è illuminata” e “Molto forte, incredibilmente vicino” sono stati in testa ai best seller americani sin dalla seconda metà degli anni novanta (quando l’autore era adolescente); in traduzione hanno buon esito anche in Italia. Lo ho ascoltato alla sala Magazine della Staatoper under den Linden, dove ha enorme successo di pubblico, specialmente di giovani. Non c’è vicenda ma sette quadri in cui l’autorità (il carceriere, il medico, il burocrate, la spia) impedisce tentativi di fuga (di prigionieri, malati, impiegati, delatori) “dal silenzio” (ossia da una condizione kafkiana in cui non si comunica). Ciascun quadro ha un compositore ed un regista differente (tra i secondi nomi di rango come Peter Mussbach i compositori (Haddad, Bernhard Lang, Cathy Milliken, José-Maria Sanchez-Verdù, Annette Schmuck, Miroslav Srnka, Larisa Vrunch) sono tutti attorno ai 30 anni. Seguono sintassi orchestrali e vocali molto differenti: dalla dodecafonia rarefetta del primo (una sola battuta di 150 note con quattro consecutive riproposizioni frammentate) al ritmo ai confini con il jazz e con la musica afrocubana del settimo passando per un duetto “di coloratura” del quinto, per una struttura “ad arco” di quello centrale (il quarto), per eleganti accenti timbrici nel terzo, per il melologo nel secondo ed il concertati nel sesto. Ma lo spettacolo ha una sua integrità ed affascina per oltre due ore senza intervallo. Nel mondo anglosassone, i due filoni – quello tradizionalista e quello innovatore – hanno pubblici distinti ma che, grazie ad una buona cultura musicale di base ed ad una politica attenta, talvolta arrivano a confluire.
La sperimentazione e la tradizione confluiscono nelle esperienze più marcatamente europee. Se ne avuto un assaggio questa estate in “Julie” di Philippe Boesmans oppure ‘Un Retour’di Oscar Strasnoy, grande successo a Aix-en-Provence) oltre che a Bruxelles ed a Vienna ed ora in una tournée che mi auguro arrivi in Italia. Un altro assaggio è “The flight” di Jonathan Dove oppure i due ottimi lavori di Peter Oetvos (“Trois seours” e “Le Balcon”) visti in mezza Europa (oltre che negli Usa) ma mai approdati in Italia. 
Cosa frena i nostri sovrintendenti? La scarsa cultura musicale di alcuni e la mancanza di una vera politica musicale. 
Nel saggio “L’orchestra del Duce” (Utet, 2003), Stefano Biguzzi lamenta che l’interesse dei Governi per una politica della musica e della cultura musicale (e per trovare un equilibrio tra tradizione e sperimentazione) occorre tornare all’epoca fascista: il primo festival internazionale di musica contemporanea fu quello iniziato a Venezia nella seconda metà degli Anni Trenta – e Igor Stravinskij, che mantenne corrispondenza privata con Mussolini sino al 1942 - chiese di essere sepolto nel cimitero della città lagunare (dove in effetti sono le sue spoglie).
Quando ero adolescente i teatri seguivano ancora la prassi di commissionare un’opera contemporanea l’anno. Così venni affascinato dai lavori di Hans Werner Henze, da poco scomparso che ha sempre vissuto nei pressi di Roma. Ero melofilo già allora; arrivavo con gli occhi stanchi a scuola dopo una serata wagneriana (gli spettacoli al Teatro dell’Opera iniziavano alle 21,15 in punto e con Götterdämmerung si tornava a casa alle 3 del mattino) e il mio professore di filosofia mi diceva che il Teatro doveva essere trasformato in museo.


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