Unicamente Alexis Tsipras e Yanis Varoufakis si illudono che continuare su
questa strada convenga loro. Dall’inizio di questa puntata della “saga greca”
(la richiesta di un nuovo salvataggio a spese dei contribuenti del resto
dell’Unione europea), abbiamo esaminato i tentativi di negoziare un accordo
utilizzando come schema di riferimento la “teoria dei giochi”. Da giorni, siamo
arrivati al “gioco a ultimatum”, con Atene che minaccia il crollo dell’unione
monetaria ove non dell’Ue se la Grecia fosse “costretta” a lasciare l’area
dell’euro, mentre il Fondo monetario internazionale (e altri) rispondono che,
tutto sommato, si tratterebbe di poco danno.
Nell’ultima settimana, Atene ha insistito che c’erano tutti gli elementi per
giungere a un’intesa entro la sera di domenica 31 maggio. La prognosi è stata
definitivamente smentita quando è apparso chiaro che Tsipras e Varoufakis
intendevano un accoro quadro di massima. Con l’accordo sarebbe arrivato denaro
fresco (dal resto dei contribuenti europei) per permettere alla Repubblica
Ellenica di pagare la rata di rimborso al Fmi in scadenza il 5 giugno.
Naturalmente, al resto dei Governi europei un accordo quadro (i cui contenuti
sarebbero stati definiti nelle settimane successive) non sta bene: lo ha detto
senza perifrasi il ministro delle Finanze tedesco Wolfgang Schäuble e lo hanno
ripetuto gli altri. Lo ha compreso lo stesso Jack Lew, Segretario di Stato
degli Usa, il quale aveva posto i propri buoni uffici nel timore che, in caso
di fallimento, Atene sarebbe finita nella braccia di Mosca.
Sabato 30 maggio, Il Corriere della Sera (quotidiano che ha spesso
guardato alla Grecia con una dose di simpatia) ha pubblicato un’analisi
comparata degli esiti del riassetto strutturale effettuato nella Repubblica
Irlandese e dei risultati del mancato riassetto strutturale in quella Ellenica.
Sempre il 30 maggio, sulla prima pagina del New York Times spiccava il
titolo: “Per la Grecia, la scadenza è arrivata; si tenta di annegarla in un
diluvio di parole”. The Economist insisteva: “Le chiacchiere devono
finire”.
In effetti, il clima è molto cambiato rispetto a qualche settimana fa. Da un
lato, il “gioco a ultimatum”, suggerito da Varoufakis, non si fa se la pistola
è scarica. Infatti, dopo una trattativa durata tanto a lungo, l’uscita dalla
Grecia dall’unione monetaria (o perché decisa da Atene o perché la Repubblica
viene espulsa - secondo alcuni giuristi verrebbe messa contemporaneamente alla
porta anche dell’Ue) non causerebbe tanti guai. L’Italia è stata presentata
come il Paese a più alto rischio di contagio (a ragione dell’elevato debito
pubblico e di un Governo tanto più fragile quanto più autoritario); non solo il
ministro dell’Economia e delle Finanze Pier Carlo Padoan ha rassicurato che
“siamo in sicurezza”, ma l’esperienza storica e recenti analisi economiche
mostrano che il rischio di contagio è bassissimo. D’altro canto, la minaccia di
un rovesciamento delle alleanze, con la Grecia alleata alla Federazione Russa,
è minima: Putin ha fatto capire alle diplomazie occidentali che, con tanti
problemi a casa propria e nei dintorni, non è affatto pronto ad abbracciare “i
due difficili ragazzi greci”.
E allora, nei prossimi giorni dal “gioco
a ultimatum”, Atene passerebbe al tentativo di un “gioco cooperativo”:
metterebbe sul piatto la riforma delle pensioni e la privatizzazione del porto
del Pireo per ottenere in cambio dal Fmi la possibilità di pagare le quattro
scadenze di giugno in un’unica rata a fine mese e predisporre, nel contempo, il
piano dettagliato di riforme. A mia memoria, il Fmi ha concesso solamente una
volta, allo Zambia circa quaranta anni fa, la possibilità di combinare in un
unico pagamento più rate con una dilazione (per le prime rate) di alcune
settimane. Tsipras non lo sa, ma Varoufakis ne è ben consapevole. Ad Atene si
fa di tutto per evitare di far sapere che si sta tentando di essere trattati
come Lusaka: i greci sono orgogliosi e la leadership della sinistra ha già
abbastanza problemi con la base del partito.
Nonostante l’Amministrazione
americana insista perché il Fmi sia “comprensivo”, non è detto che alla
prossima riunione del Cda del Fondo (3 giugno), la Grecia ottenga, sul filo,
il bundling concesso decenni fa allo Zambia. Anche ove ciò
avvenisse, il passaggio da “gioco a ultimatum” a “gioco cooperativo” non è
affatto facile, dopo tante parole forti, inganni e disinganni.
Ho ricordato più volte La
guerre de Troie n’aura pas lieu di Jean Giradoux del lontano 1935
(riproposta da Diego Fabbri al Teatro della Cometa negli anni Sessanta): anche
lì, grazie alla mediazione di Ulisse (da parte greca) e di Ettore (da parte
troiana) si era passati da ultimatum feroci a un compromesso (Elena sarebbe
stata resa a Menelao che se la sarebbe ripresa con annessi e connessi di
corna). Durante i festeggiamenti per l’accordo raggiunto, bastò una freccia
impazzita di un soldato avvinazzato a scatenare dieci anni di putiferio.
In questo fine settimana, la saga greca dovrebbe giungere a
conclusione. O quanto meno, effettuare una svolta. Le parole del managing
director del Fondo monetario internazionale (Fmi), Christine Largarde,
devono essere meditate con cura. Non sarebbe affatto la prima volta se uno dei
membri di un’unione monetaria la lascia oppure ne viene cacciato, nonostante il
trattato istitutivo dell’unione medesima, o i suoi statuti, la dichiarino
‘irreversibile’. Quando le politiche dei vari “soci” divergono eccessivamente,
la corda che li lega nell’unione monetaria prima o poi si spezza.
La rottura della corda comporta necessariamente un “contagio”?
Casi degli ultimi cinquanta anni mostrano che gli esiti possono essere molto
differenti. Nel novembre 1967, ad esempio, la rottura del patto implicito tra
Bank of England e gli altri portò alla morte dell’area della sterlina in poche
ore. Analogamente, nel 1975, la fine dell’unione monetaria dell’Africa
orientale ebbe conseguenze in una zona molto vasta, Africa australe inclusa.
Più o meno nello stesso periodo, la secessione del Madagascar dalla Comunità
Finanziaria Franco-Africana (che aveva una moneta unica) non lasciò nessun
ferito sul campo. Una decina di anni prima, Singapore sbatté la porta
dell’unione monetaria della Malesia (e si diede una Costituzione in cui vietava
l’istituzione di una banca centrale) e pochi ne soffrirono.
Quindi molto dipende da circostanze quali il grado di integrazione
e la convergenza (o meno) delle politiche economiche. Sugli effetti di un’uscita
(volente o nolente) della Grecia dall’unione monetaria europea, molto si è
scritto e si è detto. Toccherebbe certamente le tasche degli italiani (se non
rimborsa, o perché non può oppure perché non vuole, il Tesoro i 40 miliardi di
euro di prestiti concessi dall’Italia), tuttavia, non è affatto certo che
sposti la speculazione internazionale verso i nostri titoli di Stato.
Il ministro dell’Economia e delle Finanze, Pier Carlo Padoan, è
uno studioso di economia internazionale. Afferma che l’Italia è “in sicurezza”.
La letteratura scientifica recente gli dà tutto sommato ragione.
Ad esempio, è uscito in questi giorni in lavoro di Theodore
Bratis, Giorgio Kouretas (ambedue dell’Università di Atene) e di Nikoforos
Laopolis (Università di Faifield) Systemic Risk and Financial Market
Contagion- Bank and Sovereign Credit Markets in the Eurozone. Lo studio
esamina in dettaglio lo spread dei Credit Default Swaps sia dei titoli bancari
sia nel debito sovrano nell’eurozona tanto tra mercati quanto tra Paesi e
conclude che i casi di contagio (dal 2008) sono stati molti rari.
A conclusioni analoghe giungono due studi differenti in approccio
e metodologia ma che contengono indicazioni per le autorità bancarie centrali
(nel caso specifico, la Banca centrale europea, Bce).
Il primo è un CEPR Discussion Papewr (il No. DP10609- In
Fulfilliing Debt Crisis Can Monetary Policy Really Help?) e ne
sono autori Philippe Bacchetta e Elena Perazzi (ambedue dell’Università di
Losanna) e Eric Van Wincoop (Università della Virginia). Il secondo è un lavoro
del servizio studi della Banca centrale francese: ne è autore un economista
dell’istituto François Koulischer (Banque de France N0. 554- Asymmetric
Shocks in a Currency Union . The Role of Central Bank Collateral Policy).
In parole povere, i due studi, seguendo percorsi differenti, giungono alla
stessa conclusione: la Bce deve tenere i nervi saldi e non fare mancare
ossigeno al resto del sistema.
Sui germogli di crescita già si addensano
nubi internazionali
Vale sempre la pena leggere le indicazioni dall’economia
internazionale al fine di formulare stime sulla ripresa europea e sulle
politiche economiche per incoraggiarla. Il primo indicatore riguarda il
commercio mondiale, specialmente per un Continente (e un Paese come l’Italia)
la cui crescita ha preso l’abitudine di essere al traino delle esportazioni.
L’ultimo Rapporto dell’Organizzazione mondiale del commercio (Omc) afferma che
nel 2014 l’export mondiale è cresciuto appena del 2,8%. Per il 2015 si prevede
un +3,3%, stima già rivista però due volte al ribasso e comunque inferiore a
quanto necessario a fare da motore al Pil mondiale. Negli ultimi trent’anni il
Pil mondiale è di solito cresciuto a un tasso pari a due terzi quello del
commercio. Nel primo trimestre 2015 l’aumento del Pil mondiale ha riportato un
tasso annuo appena dell’1,2% a ragione in gran parte del rallentamento negli
Stati Uniti (di ieri la brusca frenata del Pil Usa), Cina e Giappone nonché
della stagnazione europea. La Fed di Atlanta ha pubblicato una stima ancora
meno incoraggiante: nel 2015 il Pil mondiale aumenterebbe meno dell’1% e già
adesso la crescita nel secondo trimestre sarebbe appena dello 0,7%. Nel
contempo, però, l’occupazione mondiale si sviluppa a un tasso dell’1,5% – più
veloce, dunque, di quello del Pil. C’è da stare allegri? Non proprio: la
differenza probabilmente rispecchia una contrazione della produttività. Così
come avvenne in Italia una diecina di anni fa, quando il tasso di
disoccupazione diminuiva e, dopo qualche tempo, ci si accorse di stagnazione e
riduzione della produttività. Questi dati possono suggerire che l’economia
mondiale è alla soglia di una nuova recessione, con insidie per chi – come
l’Italia – ne sta uscendo adesso. Possono anche voler dire che le misure
monetarie adottate negli Usa, in Europa e in Giappone stanno facendo sì che si
operi quasi a piena capacità: tra breve lo si dovrebbe avvertire nei mercati
del lavoro e ne risulterebbero aumenti delle retribuzioni e della domanda
interna (che sostituirebbe almeno in parte l’effetto commercio internazionale).
Dalle due interpretazioni derivano indicazioni di politica economica differenti
– puntare sull’export (anche nel nuovo programma tornaround appena varato dal
governo) oppure sulla domanda interna (riaprendo ad esempio la contrattazione
per il pubblico impiego, ferma da sei anni).
Co2, commissionato per l'Expo a Giorgio Battistelli dal Teatro alla Scala, è
innanzitutto un lavoro accattivante che strizza l'occhio al pubblico
internazionale. E ai giovani; proprio per questo motivo ho scelto di andarlo a
vedere non alla prima il 16 maggio ma alla diurna del 24 maggio, uno spettacolo
della serie Scala Aperta a prezzi ridotti. Avevo avuto un’esperienza simile a
Palermo con Senso di Marco Tutino, la cui prima era stata impedita da scioperi;
alla pomeridiana, con 700 ragazzi, si avvertiva come il buon teatro in musica
li avvincesse.
CO2 e Senso sono lavori molto differenti. Il primo è tratto da una
novella risorgimentale di Arrigo Boito e da un notissimo film di Luchino
Visconti. Il libretto, in inglese, di Ian Burton è tratto da un libro
filosofico del Premio Nobel Al Gore. In 90 minuti, gli spettatori assistono a
una conferenza scientifica sul cambiamento climatico intercalato con il
racconto biblico dalla Genesi all'Apocalisse. Per rendere l'apologo
comprensibile, vengono utilizzate tutte le tecniche della drammaturgia e della
scenografia oggi disponibili. A partire dalla regia di Robert Carsen fino alle
scene di Paul Steinberg e i costumi di Petra Reinhardt, nonché i giochi di luce
di Peter van Praet e i video (anche tridimensionali) di Finn Ross.
Non mancano riferimenti a leggende indù, momenti dedicati alla
conferenza di Kyoto e allo tsunami in Thailandia. Nel finale, lo scienziato
protagonista dell'opera si rivolge direttamente al pubblico chiedendo: «Se
questa non è mia responsabilità, allora di chi è?». Il pubblico risponde con
dieci minuti di ovazioni, dimenticando, forse, che la responsabilità della società
iper-consumistica mostrata nell'opera è anche sua. Il complesso apparato
scenico è inquadrato in un enorme iPad e la scrittura musicale è eclettica e
facilmente fruibile: arie, ariosi, sprechgesang, canto vero, declamazione
intonata. Buona la concertazione di Cornelius Meister, di livello i numerosi
solisti.
A differenza di altri lavori di Battistelli che nella tradizione
della literatur oper di fine ottocento- inizio novecento si basano su drammi,
commedie ed anche film di successo, CO2 ci porta dalla Genesi all’Apocalisse
passando per il Protocollo di Kyoto. L’opera ha una struttura simbolica, nove
scene e un epilogo con un filo conduttore che è il rapporto tra uomo e natura:
si parte da Adamo ed Eva e si arriva allo tsunami. A guidare lo spettatore la figura
di uno scienziato, David Adamson, che tradotto significa “figlio di Adamo”.
Racconta le deturpazioni che il mondo ha subito e le catastrofi naturali. C’è
una danza degli uragani dove sfilano le maggiori calamità che hanno messo in
ginocchio varie zone del pianeta negli ultimi 25 anni. E c’è quello che l’uomo
ha provato a fare per tutelare la terra: il Vertice di Kyoto con i delegati
che, discutendo di clima, parleranno ognuno nella propria lingua, inglese,
arabo, russo e giapponese. Il finale racconta l’Apocalisse con quattro
arcangeli che dialogano con quattro scienziati.
Con Battistelli hanno lavorato il librettista Ian Burton ed il
regista Robert Carsen. CO2 è la seconda opera di Giorgio Battistelli su un
testo di Ian Burton dopo Richard III (2005). Il titolo fa riferimento alla
formula chimica dell’anidride carbonica, sostanza indispensabile per i processi
vitali della natura – quali, per esempio, la respirazione dell’uomo e degli
animali e la fotosintesi delle piante – ma al contempo responsabile, insieme
con altre, del surriscaldamento globale e dell’effetto serra che minacciano la
Terra.
E’ facile profetizzare che l’opera avrà grande successo all’estero
mentre in Italia si farà di tutto per ignorarla. Si pensi a Senso; si sarebbe
dovuta vedere a Bologna ed a Trieste (dove non è stata calendarizzata) mentre
ha ricevuto ovazioni a Varsavia e mi si dice che sta trionfando in America.
Oppure a Le Malentendu di Matteo D’Amico; tre recite a Macerata nel 2009 e poi,
nulla. Oppure ancora Il Tempo Sospeso nel Volo di Nicola Sani e Franco Ripa di
Meana, opera di grande impatto civile (tratta del viaggio verso la stragi di
Capaci) che dovrebbe essere vista in tutte le scuole ma dopo la prima
esecuzione si può vedere unicamente in DvD di servizio. Tranne Senso si tratta
di lavori a basso costo con una musica fruibile: ciò che gli amministratori di
teatri dovrebbero inseguire. Ed il Ministero costringerli a farlo.
Ho ritrovato un mio articolo del 2006,
anno mozartiano. Mentre i teatri italiani inauguravano le stagioni
all’insegna di Mozart (in occasione del 250esimo anniversario dalla nascita)
oppure con titoli notissimi quali “Traviata” e “Fidelio”, alcuni
dei maggiori teatri stranieri inauguravano con “prime” mondiali o europee di
autori contemporanei. Ad esempio, a Londra l’English National Opera (2800
posti) è in “prima mondiale” con “The bitter tears of Petra von Kant” (“Le
lacrime amare di Petra von Kant”) del compositore irlandese Gerald Barry. A
Bruxelles, la stagione de La Monnaie è stata aperta da “Thyeste” novità
assoluta di Jan van Vljimen e a Strasburgo (nonché negli altri teatri associati
all’Opéra du Rhin nell’Est della Francia), da “Pan”, altra novità assoluta,
questa volta di Marc Monnet. A Berlino, addirittura due novità, una “europea” e
una “mondiale”, quasi in contemporanea: alla Deutsche Opera, nei quartieri
occidenti della città, la prima europea di “Sophie’s Choice” (“La scelta di
Sofia”) di Nicholas Maw (già un successo negli Usa) e, a due chilometri di
distanza, nei pressi della Porta di Brandeburgo, la Staatsoper under den Linden
proponeva la “prima mondiale” di “Seven attempted escapes from silence” (“Sette
tentativi di fuga dal silenzio”), un libretto di Jonathan Safran Foer messo in
musica da sette giovani compositori di Paesi e scuole musicali differenti.
Oltreoceano, poi, inaugurare con prime mondiali di autori contemporanei è ormai
prassi; al War Memorial Opera House di San Francisco l’avvio veniva dato il
primo ottobre con “Doctor Atomic” di John Adams, una ricostruzione, a 60 anni
di Hiroshima e Nagasaki del Manhattan Project che portò alla prima bomba
atomica e del travaglio che comportò per gli scienziati in essi coinvolti.
Quest’anno War Memorial Opera House apre la stagione con ‘Two Women’ di Marco
Tutino trattoda ‘La Ciociara’ di Moravia.
Come spiegare il fenomeno? Soffermiamoci prima sugli aspetti
positivi - perché l’opera lirica contemporanea “funziona”, ha un suo pubblico
all’estero – per vedere poi quelli, negativi, che riguardano il nostro Paese.
In primo luogo, specialmente nel mondo anglosassone, ci sono due filoni ben
distinti: uno di teatro in musica tratto da drammi, romanzi o anche film di
successo (alla stregua della “literaturoper” a cavallo tra la fine
dell’Ottocento e l’inizio del Novecento); uno chiaramente sperimentale.
Il primo è rivolto al grande pubblico: vicende note, musica
accattivante, spesso diatonica, enfasi sul ritmo, Attenzione, non si è alle
prese con dei musical alla Broadway ma con opere liriche vere e proprie (che
seguono tutte le “convenzioni” dell’opera lirica: grande organico orchestrale,
arie, duetti, concertati, voci assolutamente non microfonate e nella tassonomia
abituale (soprano, mezzo, contralto, tenore, baritone, basso, con la
riapparizione dei controtenori di epoca barocca). In Italia se ne è avuto un
assaggio con “A streetcar named desire” di André Previn (dal dramma di
Tennessee Williams) messo in scena al Teatro Regio di Torino, nonché con “The
death of Kinglofer” di John Adams (sulla vicenda dell’Achille Lauro) allestito
a Ferrara ed a Reggio Emilia e con A View from the Bridge di William Bolcom.
L’altro filone è più chiaramente sperimentale. Un esempio è “Seven
attempted escapes from silence”, prodotto dell’ingegno di un enfant prodige
Safran Foer (allora aveva 27 anni) i cui due primi romanzi – “Ogni cosa è
illuminata” e “Molto forte, incredibilmente vicino” sono stati in testa ai best
seller americani sin dalla seconda metà degli anni novanta (quando l’autore era
adolescente); in traduzione hanno buon esito anche in Italia. Lo ho ascoltato
alla sala Magazine della Staatoper under den Linden, dove ha enorme successo di
pubblico, specialmente di giovani. Non c’è vicenda ma sette quadri in cui
l’autorità (il carceriere, il medico, il burocrate, la spia) impedisce tentativi
di fuga (di prigionieri, malati, impiegati, delatori) “dal silenzio” (ossia da
una condizione kafkiana in cui non si comunica). Ciascun quadro ha un
compositore ed un regista differente (tra i secondi nomi di rango come Peter
Mussbach i compositori (Haddad, Bernhard Lang, Cathy Milliken, José-Maria
Sanchez-Verdù, Annette Schmuck, Miroslav Srnka, Larisa Vrunch) sono tutti
attorno ai 30 anni. Seguono sintassi orchestrali e vocali molto differenti:
dalla dodecafonia rarefetta del primo (una sola battuta di 150 note con quattro
consecutive riproposizioni frammentate) al ritmo ai confini con il jazz e con
la musica afrocubana del settimo passando per un duetto “di coloratura” del
quinto, per una struttura “ad arco” di quello centrale (il quarto), per eleganti
accenti timbrici nel terzo, per il melologo nel secondo ed il concertati nel
sesto. Ma lo spettacolo ha una sua integrità ed affascina per oltre due ore
senza intervallo. Nel mondo anglosassone, i due filoni – quello tradizionalista
e quello innovatore – hanno pubblici distinti ma che, grazie ad una buona
cultura musicale di base ed ad una politica attenta, talvolta arrivano a
confluire.
La sperimentazione e la tradizione
confluiscono nelle esperienze più marcatamente europee. Se ne avuto un assaggio
questa estate in “Julie” di Philippe Boesmans oppure ‘Un Retour’di Oscar
Strasnoy, grande successo a Aix-en-Provence) oltre che a Bruxelles ed a Vienna
ed ora in una tournée che mi auguro arrivi in Italia. Un altro assaggio è “The
flight” di Jonathan Dove oppure i due ottimi lavori di Peter Oetvos (“Trois
seours” e “Le Balcon”) visti in mezza Europa (oltre che negli Usa) ma mai
approdati in Italia.
Cosa frena i nostri sovrintendenti?
La scarsa cultura musicale di alcuni e la mancanza di una vera politica musicale.
Nel saggio “L’orchestra del Duce”
(Utet, 2003), Stefano Biguzzi lamenta che l’interesse dei Governi per una
politica della musica e della cultura musicale (e per trovare un equilibrio tra
tradizione e sperimentazione) occorre tornare all’epoca fascista: il primo
festival internazionale di musica contemporanea fu quello iniziato a Venezia
nella seconda metà degli Anni Trenta – e Igor Stravinskij, che mantenne
corrispondenza privata con Mussolini sino al 1942 - chiese di essere sepolto
nel cimitero della città lagunare (dove in effetti sono le sue spoglie).
Quando ero adolescente i teatri
seguivano ancora la prassi di commissionare un’opera contemporanea l’anno. Così
venni affascinato dai lavori di Hans Werner Henze, da poco scomparso che ha
sempre vissuto nei pressi di Roma. Ero melofilo già allora; arrivavo con gli
occhi stanchi a scuola dopo una serata wagneriana (gli spettacoli al Teatro
dell’Opera iniziavano alle 21,15 in punto e con Götterdämmerung si tornava a
casa alle 3 del mattino) e il mio professore di filosofia mi diceva che il
Teatro doveva essere trasformato in museo.