OPERA/ Orfeo di Hector Berlioz
al Teatro Massimo di Palermo
Pubblicazione:
lunedì 23 febbraio 2015
Foto di Pino PIpitone
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Il mito di
Orfeo ed Euridice è uno dei più antichi della storia della poesia e della
musica. Per molti aspetti, il teatro d’opera nasce con L’Euridice di
Ottavio Rinuccini del 1600 di cui ben poco è rimasto. Tuttavia, da La Favola
di Orfeo di Claudio Monteverdi (ancora spesso in scena) all’Orfeide di
Gian Francesco Malipiero nel Novecento ‘storico’ all’Orphée nègre di
Marcel Camus, con musiche di vari autori brasiliani, del 1960 (per non citare
esempi più recenti) si può dire che l’amore eterno (oltre la morte) di
Orfeo ed Euridice è la quintessenza stessa del teatro in musica.
Delle varie
versioni, la “tragedia” in musica su Orfeo ed Euridice di Christoph W. Gluck è
una delle poche opere del Settecento rimaste nei cartelloni nei secoli
successivi. Nell’Ottocento la si è messa in scena nell’adattamento (ai gusti
dell’epoca) fattone nel 1859 da Hector Berlioz. Nel Novecento nella versione
edita nel 1889 da Ricordi che interpolava l’adattamento di Berlioz con le due
versioni originali di Gluck (una del 1762, in italiano, per Vienna ed una del
1774, in francese, per Parigi) , nonché con arie di altre opere del compositore
boemo. Alcuni anni fa, ha girato per mezza Italia un allestimento fedele alla
edizione con cui nel 1762 Gluck effettuò una vera e propria riforma fondendo
tutti i mezzi espressivi (parola, musica, danza, mimo) al servizio della verità
scenica. Sempre la versione 1762 è stata presentata allo scorso Maggio Musicale
Fiorentino nella bella regia di Denis Krief che si potrà gustare al Verdi di
Trieste a partire dal 5 marzo.
La versione
francese del 1774 in un adattamento (non filologico) dell’Opéra National di
Monptellier si è vista ed ascoltata a Bologna nel gennaio 2008. Le differenze
(rispetto alla versione viennese) sono molteplici: Gluck ampliò
l’orchestrazione, aggiunse arie e soprattutto riscrisse il ruolo del
protagonista – un castrato a Vienna ed un tenore dalla tessitura ampia (dal sol
al re acuto), ma prevalentemente alta, a Parigi. Purtroppo il tenore
Roberto Alagna è affiancato dai propri fratelli (David, regia e Frédéric scene)
hanno interpolato in modo tale libretto e partitura che quella messa in scena è
da dimenticare.
Queste note
possono sembrare di filologia musicale. Tuttavia, spiegano l’interesse per la
produzione in scena al Teatro Massimo di Palermo. Riguarda la messa in scena (a
mia memoria per la prima volta in Italia) della versione curata nel 1859 da
Hector Berlioz per il Théâtre Lyrique di Parigi.
Il lavoro
veniva adattato l’opera al romanticismo del Secondo Impero , prendendo non solo
le due partiture precedenti ma anche altri lavori di Gluck, modificando la
scrittura orchestrale per un più vasto organico , ponendo un coro più ampio (e
ponendolo in buca) e dando un ancora maggior ruolo al balletto (si era
all’epoca del grand opéra. La produzione nasce da una joint venture
tra Marsiglia e St. Etienne. Il primo è molto forte nelle arti coreutiche
e, quindi, la danza ha un ruolo dominante.
Non solo
ogni personaggio è impersonato non unicamente da un cantante ma anche un ballerino (Orfeo da
due per tenere conto della sua complessa personalità; da un lato, dolce ed
introverso e da un altro, pronto a sfidare anche l’oltretomba), ma il coro è in
buca mentre sul palcoscenico ballerini e ballerine danno corpo alla popolazione
di questo e dell’altro mondo. Cosi come Berlioz ( e quasi contemporaneamente
Offenbach) portò l’azione nel Secondo Impero, il regista e
coreografo Frédéric Flamand e lo scenografo e costumistai Hans Op
de Beek, la situaziono in una periferia di una grande città ai giorni
d’oggi, ossia una banlieue. I Campi Elisi, però, sono un bel e ridente
boschetto. In effetti, l’attualizzazione dei miti e dei libretti d’opera è
ormai prassi.
Non credo
sia il caso di fare una gara tra le tre stesure. Occorre dire che John Eliot
Gardiner preferisce alle altre la versione Berlioz e ne ha inciso una
registrazione mitica con Anne Sofie von Otter , Barbara Hendrick e Brigette
Fournier. Il vostro chromiqueur è particolarmente affezionato
alla tersa stesura del 1762, per il suo carattere realmente rivoluzionario nel
teatro musicale. Si deve però riconoscere la ‘versione Berlioz’ come una
svolta nel romanticismo musicale francese.
I quattro
atti (per complessivi 110 minuti) vengono presentati senza soluzione di
continuità. In un’atmosfera dove dominano, il bianco, il grigio, il verde
e l’azzurro, Marianna Pizzolato è un efficace Orfeo dal volume potente ,
Mariangela Sicilia una dolce Euridice ed Aurora Fagiolo un delicato Amore. Di
grandissimo livello i soliti ed il corpo di ballo. La concertazione
di Giuseppe Grazioli, però, non coglie a pieno l’impeto di Berlioz.
Ottima prova, invece, del coro guidato da Piero Monti.
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