costi del possibile intervento
Un «conto» da 15 miliardi al mese che
affonderebbe le finanze europee
Le guerre si possono vincere o perdere. Anche
se va fatto ogni sforzo perché non si combattano. Quale che sia l’esito, è
comunque certo che comportano pesanti costi sia in termini di vittime sia
economici. Quanto costerebbe un’eventuale guerra nel Mediterraneo? Gli
avvenimenti sono stati così rapidi e convulsi che nessuno, sinora, ha
predisposto stime – come accadde, invece, per le due guerre del Golfo, che
ebbero una lunga premessa di lavorio democratico.
Inoltre, mentre alcuni centri studi americani
– come la Rand Corp in California e la Rac a Washington – sono specializzati in
questa tipologia di analisi, in Europa solo alcune università britanniche
dedicano risorse a ricerche del genere, ponendo attenzione particolare, però,
agli studi sull’economia del terrorismo piuttosto che sull’economia della
guerra – tema che da 70 anni appare desueto e privo di interesse.
Occorre chiedersi quali sarebbero le
implicazioni di politica economica per i Paesi maggiormente coinvolti nel
conflitto in generale, e per quelli dell’Ue mediterranea in particolare. Alcuni
parametri ci sono e possono essere utilizzati. Ai tempi della seconda guerra
del Golfo, le prime stime di fonte americana (elaborate dell’ormai defunta
banca d’affari Lehman Brothers) parlavano di un costo “finanziario” in senso
stretto di 5,4 miliardi al mese. Tali stime riguardavano esclusivamente l’onere
“finanziario” del dispiego delle forze Nato, e non comprendevano né le spese,
sempre “finanziarie”, per il sostentamento dei profughi, né quelle per riparare
e rimettere in funzione strutture danneggiate. Non comprendevano né i costi
umani (in termini di perdite di vite, di mutilazioni, di dislocazioni) né i
costi “economici” (in termini di effetti sulla produzione, sul reddito e
sull’occupazione dei Paesi coinvolti). Non solo, dopo pochi mesi si rivelarono
errate del 300%, su base mensile, ma il conflitto che sarebbe dovuto durare
poche settimane è ancora in corso. Allora, gli Usa esponevano un tasso di
aumento del Pil tra il 2,75% ed il 3,5% l’anno, e un saggio di disoccupazione
pari a solo il 4,2% della forza di lavoro. E gran parte del costo finanziario
era sul loro bilancio.
Prendendo come base minima (molto prudenziale)
15 miliardi di euro al mese, e ipotizzando che gran parte dell’onere graverebbe
sull’eurozona (che tra l’altro dovrebbe noleggiare parte degli armamenti), è
legittimo chiedersi quali sarebbero le implicazioni in termini sia di finanza
pubblica sia d’economia reale. Specialmente in una fase in cui l’area dell’euro
sta faticando ad uscire da una lunga e pesante recessione che ha sfiancato il
sistema manifatturiero di numerosi Paesi e portato al 12% il tasso medio di
disoccupazione.
La guerra sarebbe indubbiamente “una
circostanza eccezionale e straordinaria” per rivedere in modo marcato il Fiscal
Compact (o la sua interpretazione) in quanto tutti gli Stati dell’area
dovrebbero aumentare spesa pubblica sia di parte corrente che in conto
capitale. Potrebbe anche diventare il grimaldello per consentire l’applicazione
di quella golden rule in base alla quale l’investimento viene esentato dal
computo di alcuni parametri. Al tempo stesso, comporrebbe un forte storno di
risorse dal civile al militare. Non solamente salterebbe il già traballante
Piano Juncker ma si porrebbero seri problemi di valutazione della spesa per
assicurare che vengano adottati principi di efficienza, efficacia ed
economicità. Tentativi in questo senso vennero effettuati circa 23 anni fa (nel
1991-92) ma i risultatati non sono mai stati pubblicati e non si sa se il
gruppo di studio esista ancora. Sarebbe l’occasione giusta per riattivarlo.
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