giovedì 31 ottobre 2013

Vi confesso perché questa Legge di stabilità mi ha sconcertato in Formiche 31 ottobre



Vi confesso perché questa Legge di stabilità mi ha sconcertato
31 - 10 - 2013Giuseppe Pennisi Vi confesso perché questa Legge di stabilità mi ha sconcertato
Non ho commentato sino ad ora il disegno di legge di stabilità perché quando ho avuto in mano il testo giunto al Senato ho provato un senso di sconcerto. Probabilmente, sentimenti analoghi sono stati avvertiti da numerosi senatori della Repubblica. Non lo proveranno i deputati perché a Montecitorio arriverà un articolato differente da quello che si sta analizzando, e modificando, a Palazzo Madama.
Lo sconcerto ha a che fare in primo luogo con la lunghezza e la complessità del documento. A mia memoria, la legge di stabilità deve indicare:
a) il livello massimo del ricorso al mercato finanziario e del saldo netto da finanziare in termini di competenza, per ciascun anno considerato nel bilancio pluriennale (ivi comprese le eventuali regolazioni contabili e debitorie pregresse) e le variazioni di aliquote, detrazioni e scaglioni, nonché le altre misure che incidono sulla determinazione del quantum della prestazione, in relazione alle diverse tipologie di imposte, tasse e contributi, con effetti a partire dal 1° gennaio dell’anno cui la legge di stabilità medesima si riferisce (in relazione alle sole imposte, essa deve anche indicare le correzioni conseguenti all’andamento dell’inflazione);
b) gli importi dei fondi speciali e le corrispondenti tabelle, vale a dire le somme, ripartite per ministeri, destinate alla copertura dei provvedimenti legislativi che si prevede saranno approvati nel corso degli esercizi finanziari compresi nel bilancio pluriennale, distintamente per la parte corrente e per la parte di conto capitale Una serie di tabelle in allegato alla legge di stabilità sono finalizzate ad indicare, per ciascuno degli anni considerati nel bilancio pluriennale: bI) gli importi relativi alle leggi di spesa di carattere permanente la cui quantificazione è rinviata alla legge di stabilità, aggregate per programma e per missione, con l’esclusione delle spese obbligatorie; bII) gli importi delle leggi di spesa in conto capitale a carattere pluriennale, aggregate per programma e per missione, con specifica ed analitica evidenziazione dei rifinanziamenti, delle riduzioni e delle rimodulazioni; bIII) gli importi delle riduzioni delle autorizzazioni legislative relative alla spesa di parte corrente, aggregate per programma e per missione; bIV) l’importo massimo da destinare ai contratti del pubblico impiego e alle modifiche del trattamento economico e normativo del personale dipendente dalle amministrazioni.
c) le norme che comportano aumenti di entrata o riduzioni di spesa, ad esclusione delle norme a carattere ordinamentale ovvero organizzatorio, facendo salva l’eccezione delle spese recate da norme eventualmente necessarie a garantire l’attuazione del Patto di stabilità interno, nonché a realizzare il Patto di convergenza disciplinato dalla legge sul federalismo fiscale n. 42 del 2009;
d) le norme recanti misure correttive degli effetti finanziari delle leggi la cui attuazione possa recare pregiudizio al conseguimento degli obiettivi di finanza pubblica;
e) le norme eventualmente necessarie a garantire l’attuazione del Patto di stabilità interno e del Patto di convergenza.
In breve, anche per evitare che il ddl, prima, e la legge, poi, diventino “un vestito d’Arlecchino” (per utilizzare una frase di Giuliano Amato) oppure un treno su cui tutti, tentato di salire, dovrebbe essere un articolato stringato, quasi all’osso, sui saldi e sulle misure da attuare per pervenirvi. Invece, questa volta, il “vestito d’Arlecchino” e la tradotta della finanza escono da Palazzo Chigi per andare dritti dritti in Parlamento.
Ad esempio, il solo titolo 2 (relativo alle misure per rilanciare lo sviluppo) contiene sette articoli e oltre 100 commi rivolti a micro-provvedimenti; ciò indurrà non solo ad un vero e proprio assalto al treno(per aggiungere altri micro-provvedimenti ora non inclusi) ma una vera e propria frammentazione legislativa con moltiplicazione degli obiettivi, inevitabile confusione tra finalità e strumenti, irrigidimento nell’impiego delle risorse con difficoltà di spostare fondi da progetti di spesa in ritardo ad altri che avanzano più rapidamente.
Appare, poi, mancare un coordinamento settoriale e territoriale degli interventi , almeno in linea, ad esempio, con le proposte di riforma istituzionale formulate dai “saggi”. Alcuni titoli del disegno di legge, poi, sono in contrasto con regole di base sul bilancio dello Stato, quale l’introduzione di “norme ordinamentali” ( titolo 3 del disegno di legge) nella legge di stabilità oppure con il principio di leale collaborazione tra livelli di governo (il titolo 4 del disegno di legge). Si potrebbe continuare.
È importante sottolineare che questi aspetti possono sembrare “tecnici” o “di lana caprina” ma è su questo scoglio che si incagliano i provvedimenti normativi e la loro effettiva capacità di incidere o meno.
Ciò non vuol dire che non si debba dare peso ai commenti della Banca d’Italia e della Corte dei Conti sull’ottimismo forse eccessivo del quadro macroeconomico. Se, però, ad ipotesi che si rivelassero troppo positive sull’andamento dei macro-aggregati si aggiungo norme farraginose, ci si mette in una camicia di forza da cui sarà difficile (in caso di esigenza) districarsi.
Cosa pensare? Da un lato, che al Governo sono mancate le collaborazioni tecniche necessarie per approntare il documento. Da un altro, che l’Esecutivo abbia voluto lasciare al Legislativo ampio margine di manovra per mostrare la propria creatività. Ma anche negli Usa, dove la seconda interpretazione è un po’ la prassi, eventi recenti mostrano che non è un metodo così buono.

Per gli Stati Uniti l’area di libero scambio cp l'UE è una difesa dall'espansione asiatica in Avvenire 31 ottobre



l’analisi Per gli Stati Uniti l’area di libero scambio con l'UE è una difesa dall'espansione asiatica


DI GIUSEPPE PENNISI P er afferrare a pieno il dibattito di politica economica in corso in Italia (compreso quello sulla legge di Sstabilità in discussione al Se­nato), occorre tenere conto non sola­mente degli obblighi europei (come quelli derivanti dal Trattato di Maa­stricht e dal Fiscal Compact), ma an­che del contesto internazionale.

Dalla metà degli anni Novanta l’eco­nomia mondiale è alla ricerca di nuo­vi equilibri: Europa, Nord America e pochi Paesi dell’Emisfero Meridiona­le hanno perso infatti il monopolio del progresso tecnologico di cui hanno go­duto per due secoli. Ciò ha consentito da un lato a circa un miliardo e mezzo di persone di uscire dalla povertà as­soluta (un reddito equivalente a meno di due dollari al giorno), dall’altro ha comportato una contrazione dei red­diti nelle aree che hanno mostrato me­no «efficienza adattativa» alla nuova situazione.

Nell’ambito di questo contesto più va­sto, vediamo cosa sta avvenendo negli Usa, in Asia edin Europa e ciò che com­porta per noi. Negli Stati Uniti e nel vi­cino Canada è in corso una ripresa: nel­l’ultimo trimestre il Pil dei due Paesi è cresciuto a tassi annui, rispettivamen­te, del 2,5% e dell’1,7%. La disoccupa­zione è sul 7% della forza lavoro e il tas­so d’inflazione attorno all’1,3%. So­prattutto, la crisi del 2007-2010, ha for­nito agli Usa l’occasione di ridurre dra­sticamente indebitamento di famiglie ed imprese (grazie anche – occorre dir­lo – a una normativa fallimentare par­ticolarmente attenta a questi aspetti): nel 2008, l’indebitamento di famiglie e imprese americane sfiorava il 350% del Pil rispetto al 180% oggi (tanto quan­to l’Italia). Ciò è avvenuto anche gra­zie alla crescita alimentata in parte da flussi immigratori (specialmente di giovani molto preparati e molto deter­minati ad avere un futuro migliore), ma anche a una politica di bilancio e della moneta rivolta allo sviluppo. Ciò ha comportato misure monetarie non convenzionali (ossia un’espansione della liquidità che consente ai tassi d’interesse a dieci anni di aggirarsi sul 3% l’anno), una politica di bilancio mo­deratamente restrittiva (si pensi al di­battito sull’autorizzazione ad aumen­tare il tetto del debito pubblico) e una negligenza benevola nei confronti del tasso di cambio, che si è gradualmen­te deprezzato, nel corso dell’ultimo an­no, rispetto alle principali valute.
I l deprezzamento del cambio Usa preoccupa naturalmente l’Euro­pa e l’Italia. Preoccupa ancora di più l’Asia, specialmente la Cina (prin­cipale acquirenti, da lustri, di titoli de­nominati in dollari). Tuttavia, nel ba­cino del Pacifico, gli effetti della poli­tica economica americana sono tem­perati, in parte, dall’«Abenomics», la forte politica espansionista del Giap­pone, nonché dal leggero rallenta­mento della crescita cinese e dai se­veri problemi interni del Celeste Im­pero: si pensi solamente agli effetti nefasti di anni di politica di severo controllo nelle nascite.

L’Asia è comunque in crescita soste­nuta e sta risolvendo parte dei pro­blemi di povertà assoluta. Tuttavia, sono in fase di rallentamento i pro­grammi di integrazione finanziaria, monetaria e commerciale, abbozzati in passato seguendo l’esempio del­l’Unione Europea (Ue). O meglio si sta andando lentamente verso una vasta zona di libero scambio del Pa­cifico, con un drappello di punta nei Paesi dell’Asean (Associazione delle Nazioni del Sud Est Asiatico) mentre sembrano accantonati quelli finan­ziari e monetari (anche per evitare tensioni quali quelle oggi in atto nel Vecchio Continente). A riguardo, oc­corre valutare molto positivamente l’iniziativa presa all’inizio di ottobre dal governo Letta di annunciare per l’autunno 2014 una riunione a Mila­no dei Capi di Stato e di governo del­l’Asem (Asia - Europa Meeting) , una struttura agile che in passato è stata molto utile alla collaborazione tra i due Continenti e alla loro compren­sione reciproca, ma che negli ultimi anni era parsa in dormiveglia.

È chiaro che per gli Stati Uniti gran parte dell’Europa è considerata di fat­to un «vecchio» Continente, con me­no potenziale, cioè, per gli america­ni, dell’Asia. Tuttavia, da Washington è stato presentato un ramoscello d’u­livo: la Transatlantic Partership, un grande negoziato per liberalizzare barriere agli scambi di merci e servi­zi. Esso rappresenta un’opportunità per i Paesi con più difficoltà a cresce­re (per l’Eurozona il 2013 si chiude con una contrazione del Pil dello 0,3% e per l’Italia dell’1,7%). Implichereb­be infatti una drastica revisione della politica agricola comune (che pesa in modo molto forte sui contribuenti e sui consumatori italiani) e una forte apertura dei servizi (in primo luogo quelli finanziari). Bloccare la trattati­va in nome dell’«eccezione cultura­le » (tesi francese, seguita però da nu­merosi italiani) potrebbe avere un co­sto elevato soprattutto per le future generazioni.

Il quadro economico internazionale, quindi, quasi ci obbliga a una strate­gia di crescita. A riguardo sarà inte­ressante notare nelle prossime setti­mane le reazioni alla proposta tede­sca di rivedere i Trattati dell’eurozo­na tramite protocolli interpretativi e accordi contrattuali. Il secondo se­mestre 2014, quando l’Italia presie­derà il Consiglio europeo, potrebbe essere la fase chiave di una trattativa. Già si parla di un grande convegno in­ternazionale tecnico a Roma per il 24-25 marzo sotto l’egida dell’Istituto Af­fari Internazionali, da sempre molto vicino alla Farnesina.

mercoledì 30 ottobre 2013

Legge di stabilità e le preoccupazioni degli italiani in L'Indro 29 ottobre

La sfida della riduzione dei costi






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Giuseppe Pennisi
Martedì 29 Ottobre 2013, 10:05

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bicameralismocostilegge di stabilitàmagistratura amministrativa



La Legge di Stabilità è all’esame del Senato. Ed i giornali sembrano avere relegato alle ultime pagine della sezione ‘politica’ le vicende ad essa attinenti. In effetti, ad un esame tecnico ciò che si comprende sono solamente due aspetti: a) l’aumento delle entrate supera la riduzione delle spese (quindi, di riffa,di raffa o di baracca, se approvata tale e quale varata dal Consiglio dei Ministri, il ‘Grande Fratello’ metterà le mani nelle tasche degli italiani; b il documento è così carente che il Parlamento deve esserci mano anche solo perché ciascun cittadino comprenda cosa ci guadagna e cosa ci perde.
Le Camere hanno, quindi, un lavoro difficile e complesso. Mi sono chiesto cosa dovrebbe esserci nella legge (fatti salvi gli impegni con l’Unione Europea) qualsiasi altra cosa ci sia . È un po’ il problema rawlsiano della identificazione dei “beni primari” (ciò che tutti vogliono qualsiasi altra cosa essi vogliano) nella “Teoria della Giustizia” del lontano 1971. Riprendendo in mano la letteratura sulla crescita economica degli ultimi vent’anni ci si accorge che c’è un filone comune: crescono i Paesi e le regioni con i costi di transazione più bassi, ossia quelli ove le transazioni possono essere fatte pagando meno in procedure, bolli e quant’altro e dove, quindi, c’è una forte fiducia reciproca, essenziale per effettuare transazioni senza troppi marchingegni che ne aumentano il costo. È questo il filo conduttore nel rigoglio di nuovi approcci (molti ancora in nuce, alcuni a livello solo teorico ed altri ancora non molto più di uno slogan o di mera affabulazione). Ciò implica il rilancio del neo-istituzionalismo, utilizzando, però, i metodi quantitativi d’analisi sviluppati nei decenti precedenti.
È il nesso che collega le teorie dello sviluppo endogeno a quelle basate sull’applicazione della teoria economica dell’informazione allo sviluppo, a quelle ancora ancorate all’analisi dei costi economici e politici di transazione, alla revisione di alcuni paradigmi di base dell’economia internazionale, all’utilizzazione, a fini esplicativi, di alcuni paradigmi tecnico-economici derivanti dalle nuove tecnologie dell’informazione e della comunicazione. Ad esempio, sono marcatamente e chiaramente neo-istituzionalisti i concetti di fondo degli ultimi “World Development Reports” con i quali si cerca di sistematizzare il fiorire di nuovi approcci. È anche neo-istituzionale il concetto di “social capital”, inteso come il complesso di norme e di reti che consentono agli individui di agire collettivamente. Siamo alle prese – dice acutamente O.E. Williamson – con un “calderone di idee”, molte in competizione le une con le altre, sia in materia di storia economica e sviluppo di norme sociali e quindi di capitale sociale sia in materia di costi di transazione, sia nel campo della comprensione e modellizzazione dei rapporti semi-contrattuali informali sia in quello dell’economia evoluzionaria.
Pure un concetto di base sia alle teorie dello sviluppo endogeno sia ai vari filoni dell’economia neo-istituzionale, quale quello del “sentiero pre-determinato” (“path dependence”), viene interpretato in modo giustapposto e divergente dalle varie scuole di pensiero. Ciascuna di esse, infine, pare seguire un proprio filone distinto di analisi e ricerca nell’ambito di una vasta area neo-istituzionale interdisciplinare in cui gli strumenti dell’economista devono fondersi con quello dello scienziato della politica, dello storico, dello psicologo e dell’esperto in problemi dell’amministrazione e della gestione. Un filone, paradossalmente, particolarmente consono alla formazione interdisciplinare del giornalista economico.
Ma torniamo a come ridurre i costi di transazione che in Italia sono più alti che negli altri Paesi dell’eurozona e di buona parte dei Paesi Ocse. Non basta costituzionalizzare che è lecito tutto ciò che non è vietato per legge. Occorre: a) costituzionalizzare che tutte le leggi (e regolamenti e circolari varie) siano “a termine” (una “sunset regulation” generalizzata) per impedire il formarsi di un Himalaya di norme; b) dimezzare il numero degli eletti (a tutti i livelli); c) mettere in soffitta il bicameralismo; e d) incidere sui comportamenti di individui, famiglie, imprese, pubblica amministrazione e politica. Douglas Cecil North ha preso il Nobel per avere dimostrato non solo che è possibile ma che negli ultimi cinquecento anni chi lo ha fatto è corso più rapidamente degli altri. Sotto il profilo teorico lo si ottiene con “giochi ripetuti” in modo che tutti si abituino a seguire le stesse regole - se possibile quelle di chi è più produttivo e più competitivo. Naturalmente i punti b) e c) richiedono una revisione della Costituzione, ma il punto a), a qual che io capisca di diritto, puo ben essere effettuato con legge ordinaria come quella ‘di stabilità’.
Senza una drastica riduzione dei costi di transazione, qualsiasi altra misura presente nel decreto sviluppo, non riuscirà a mordere. In Italia i costi di transazioni tra privati sono i più elevati nei Paesi Ocse: basti pensare al costo per la compravendita di un’auto o di un appartamento. Elevatissimi quelli tra imprese a ragione di una regolazione ferraginosa. Fortissimi i costi di transazione politici caratterizzati da alte asimmetrie informative e posizionali, tali da creare un’elevata avversione al rischio e a frenare l’innovazione. A questi costi di transazione, si aggiungono quelli connessi al cattivo funzionamento della giustizia: si legga l’University of Chicago Public Law Working Paper n. 223 (relativo unicamente alla magistratura amministrativa), diramato in questi giorni, per rendersene conto.
Una strada di piccoli passi, come suggerita da molti che di tali alti costi di transazione traggono vantaggio, non porterebbe a nulla; si avviterebbe su se stessa. Ci vuole una terapia d’urto. Da un lato, seguire quella quarantina di Paesi che hanno già introdotto (spesso con rango costituzionale) norme secondo cui leggi e regolamenti posso restare in vigore non più che un determinato numero di anni (“sunset regulation”). Da un altro, riformare drasticamente la giustizia imponendo tempi brevi per i procedimenti, sanzioni a chi supera la media Ue nei procedimenti civili, chiara differenziazione tra inquirenti e giudicanti.
Ed i costi di transazione connessi alla magistratura amministrativa? Quando nel maggio 1944 al Gen. Mark Clark  Patton venne spiegato cosa era e come funzionava, disse: “probabilmente sono ottime organizzazioni ma negli Usa non ce le saremmo potute permettere e pure vincere la seconda  guerra mondiale”. Non ci proponiamo di vincere alcuna guerra, ma più modestamente di fare sì che l’Italia torni a crescere a quel 1,3-1,6% l’anno che data la struttura demografica e l’assetto produttivo sembra essere il suo ‘tasso naturale di sviluppo’.



lunedì 28 ottobre 2013

"Peter Grimes" di Britten inaugura la stagione sinfonica dell'Accademia di Santa Cecilia



OPERA/ "Peter Grimes" di Britten inaugura la stagione sinfonica dell'Accademia di Santa Cecilia

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Peter Grimes di Benjamin Britten Peter Grimes di Benjamin Britten
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Il 26 ottobre l’Accademia Nazionale di Santa Cecilia ha inaugurato la stagione sinfonica 2013-2014 con la presentazione in forma di concerto dell’opera Peter Grimes di Benjamin Britten – doveroso omaggio al centenario della nascita di uno dei maggiori compositori del Novecento- secondo www.operbase.com , il maggior sito di musica lirica, Britten è il tredicesimo compositore più rappresentato al mondo  ed il secondo, dopo Händel in Gran Bretagna.
Per mera coincidenza  l’intera giornata del 25 ottobre e la mattina del 26, si è svolto alla Facoltà di Lettere dell’Università ‘La Sapienza’ di Roma un importante convegno, in memoria di Pierluigi Petrobelli sul tema ‘Giuseppe Verdi, dalla musica alla messa in scena’; le analisi presentate ed il dibattito si addicono ancora in più a Benjamin Britten il quale – come ho sottolineato in un saggio apparso nel’ultimo fascicolo del 2012 de La Nuova Antologia – dedicò gran parte della propria vita e del proprio lavoro ad individuare nuove forme di teatro in musica per il Novecento, ed i secoli successivi, nella convizione che la forme ottocentesche e della prima metà del ventesimo secolo, non fossero più ‘sostenibili’ in epoca di accresciuta concorrenza di altre forme di spettacolo (cinema, televisione) e di aumento dei costi reali per maestranze tecniche ed artistiche. Occorre, quindi, chiedersi quando sia appropriato presentare  Peter Grimes in forma di concerto, tanto più che il lavoro manca da Roma da decenni. Una delle conclusioni del convegno è che sino al 1920 , o giù di lì, nel teatro in musica c’è stato un certo equilibrio tra azione scenica e sviluppo drammaturgico, ma da allora alla metà degli Anni Settanta, la diffusione della radio, prima, e della musica registrata hanno dato un primato dalla parte musicale; da quaranta anni, il ‘teatro di regia’ sta in vari modi ristabilendo l’equilibrio iniziale. E’ una delle ragioni per cui nel Nord America, in Nord Europa, in Germania ed in molti Paesi dell’Est il pubblico si rinnova; i giovani affollano i teatri d’opera mentre disertano quelli italiani.

 Peter Grimes è il primo dramma in musica che nel 1945 impose Britten all’attenzione mondiale. Nel 1945 “Grimes” era rivolto al futuro: sviscerava temi nuovi (solitudine, ambiguità sessuale) con soluzioni musicali nuove proprio perché eclettiche ed in cui per la prima volta dai tempi di Purcell sfruttava tutta la musicalità della lingua inglese.  Tratto da una novella inglese, in versi, del tardo Settecento con un libretto di Montagu Slater e la musica di Britten, è “British” dall’inizio alla fine, nonostante rappresenti una rivoluzione che nel 1945 ha inciso profondamente sul teatro in musica della seconda metà del Novecento. C’è senza dubbio una ricerca volta a snellire l’organico ma lo si sfoltisce soltanto rispetto a quello tradizionale dell’opera lirica. In “Grimes” non c’è happy ending: il protagonista (innocente dei crimini di cui è accusato) viene indotto al suicidio in mare mentre il borgo torna tranquillo (ora che il “diverso” non c’è più) alle sue occupazioni  di sempre. Non manca , però, un velo di pietà cristiana nei confronti del “diverso”.  La scarna vicenda di solitudine e incomprensione è arricchita non solo da un testo stringato ed efficace ma da una partitura ricchissima: sei “interludi marini” separano le varie scene e la vocalità alterna declamato con ariosi di grande lirismo e concertati polifonici di spessore (sia a quattro voci femminili sia di tutta la compagnia).
 Nell’edizione originale, l’opera  ha un organico orchestrale contenuto e non richiede che un piccolo coro ed una quindicina di solisti, in gran misura in ruoli secondari per dare vita al cicaleccio del borgo marinaro del Suffolk, gretto e pettegolo, ma soprattutto incapace (tranne la maestra di scuola Ellen) di comprendere il dramma dell’esclusione sociale progressiva del protagonista. Ebbe- come si è detto- la ‘prima’ al Sadler’s Wells poiché ritenuto più simile a Porgy and Bess di George Gershwin che all’opera in senso stretto  ma, dopo l’esecuzione, venne salutata come il segno del riscatto del teatro musicale inglese e, nel giro, di pochi anni rappresentata in tutto il mondo principalmente in lingua originale. Il suo stile musicale eclettico non rifiuta mai la scrittura tonale ed è accattivante anche per chi non ha dimestichezza con le convenzioni della musica del Novecento: pur continuando nella grande tradizione britannica iniziata con Purcell, fa propria (nel teatro in musica) la tecnica di Berg di adottare la forma di un tema su cui costruire ciascuna scena inserendo molteplici variazioni, e intercalando le varie scene con intermezzi indipendenti che servano da elementi di unificazione musicale e drammatica. Altro aspetto fondante è la capacità di ottenere il massimo colore e calore orchestrale con il minimo di organico.

 E’ doveroso dire che negli anni l’organico e coro sono stati ampliati dallo stesso Britten man mano che il dramma in musica diventava ‘popolare’ in teatri di grandi dimensioni. A riguardo, interessante confrontare la registrazione Decca del 1958 con Britten sul podio e quella EMI del 1992 con Bernard Haitikin, ambedue con i complessi della Royal Opera House al Covent Garden: organico orchestrale e corale sono molto differenti; la registrazione del 1958 ha un’impostazione lirica mentre quella del 1992 ne ha una epica.

  Ho avuto la fortuna di vederne due edizioni sceniche nell’ultimo decennio: a Firenze nel 2003, con la direzione musicale di Seji Ozawa, la regia di David Kneuss e Philp Langrige nel ruolo del protagonista, ed alla Scala, nel giugno 2012, concertata da Robin Ticciati, allestita da Richard Jones e con John-Graham Hall nella parte di Grimes. Due esecuzioni di grandissimo livello. Nella prima, il mare era costantemente presente nell’allestimento scenico (come è d’uopo) mentre nella seconda, il giovane Ticciati estraeva dall’orchestra della Scala sonorità di grandissimo livello, specialmente negli interludi. 

L’edizione in forma di concerto concertata da Antonio Pappano è, se si vuole, più epica che lirica. In ciò pare quasi costretta dalla mancanza di azione drammatica, di scene , di costumi e dall’affidare unicamente a orchestra e coro (ambedue di vastissime proporzioni) la presenza continua del mare (purtroppo assente dal palcoscenico della Scala nel 2012) . Con i solisti sul proscenio, inoltre, Pappano ha accentuato sonorità di coro ed orchestra traendo effetti acustici mirabili (anche se non sempre in linea con la partitura originale di Britten); in breve, un’interpretazione personalissima in cui il protagonista giganteggia rispetto ai borghigiani all’aria di apertura Now the Great Bear and Pleiades al grandioso arioso finale What Harbour Shelters Peace. Gregory Kunde (vi ricordate quando nel 1992 entusiasmò il Rossini Opera Festival come giovane tenore lirico di coloratura in Armidaha gestito molto bene l’evoluzione, nel corso degli anni, della propria voce ed è ora un bari-tenore di altissimo livello; al debutto nel ruolo, da al personaggio anche richiami belcantistici della prima fase della sua carriera. Anche Sally Matthews (Ellen) debuttava nel ruolo e viene principalmente da interpretazioni da soprano lirico. 
Ha dato un tono molto dolce alla maestrina vedova, unico personaggio che, come si è detto,  davvero tenta di comprendere Grimes. Ottimi tutti gli altri, in gran parte veterani dei rispettivi personaggi (Alan Opie, Susan Bickley, Elena Xanthoudakis, Simona Mihai, Michael Colvin, Matthew Best, Harry Nicol , Roderick Williams, Darren Jeffrey, Gabriella Martellacci, Marco Santarelli). Si distingue tra tutti Felicity Palmer che a settanta anni per eleganza e vocalità è sempre giovanissima.

Torniamo agli interrogativi iniziali. In forma di concerto, Peter Grimes non è il ‘nuovo’ dramma in musica quale inteso da Britten ma una grande sinfonia in più parti; specialmente nella prima parte (prologo e primo atto) i solisti sembravano imprigionati nel boccascena, mentre nella seconda (secondo e terzo atto) c’erano segni di mise en éspace (ossia di azione).

Grande successo . Ma occorre dire che almeno due terzi del pubblico erano per la prima volta alle prese con Peter Grimes.