domenica 31 agosto 2008

DIPLOMA SENZA VALORE LEGALE PER UN PO’ DI SANA CONCORRENZA , Il Tempo 31 agosto

“A’ Dottò!” risuona in molte “commedie all’italiana”. Il titolo di “dottore” (nel senso di laureato) pare non si neghi a nessuno. Già 50 anni fa, era considerato un “pezzo di carta” privo di significato sostanziale, ma essenziale per potere accedere a varie categorie d’impiego (non solo nel settore pubblico) e come tale “protetto” con una batteria di sanzioni nei confronti di chi se ne fregia senza che gli è stato conferito.
Il contrasto tra autonomia e libertà accademica, da un lato, e il “valore legale” del titolo di studio è antico: “valore legale” implica conformarsi a programmi definiti in via amministrativa. Storicamente, in Francia e Germania (rari Paesi che, come l’Italia, conferiscono tale “valore legale”) è stato lo strumento per consentire al Principe di mettere le mani sull’università. Lo Stato Sabaudo lo mutuò dalla Francia e lo estese all’Italia in via di unificazione al fine di controllore (ed uniformare) istruzione superiore spesso offerta da ordini religiosi. In gran parte del mondo, è in vigore un sistema d’accreditamento (per assicurare che le università abbiano standard minimi di strutture e docenza) ma il valore dei titoli è dato dal mercato. Nel 1973, il Premio Nobel Michael Spence dimostrò come il titolo di studio è segnale utilissimo : i datori di lavoro sono agevolati nelle loro scelte differenziando tra titoli di valore (conferiti da buone università) e titoli-bidone (conferiti da università mediocri). In tal modo, si riducono i costi di selezione del personale con vantaggio per tutti.
La proposta di Mariastella Gelmini di abolire il “valore legale” si situa in un contesto in cui le tutele per i “dottori” ci stanno allontanando sempre più dal resto d’Europa e dei Paesi Ocse. Non soltanto la Convenzione di Lisbona (ratificata nel 2002) comporta il riconoscimento automatico dei titoli di studio conferiti da altri Paesi Ue (in gran parte dei quali non esiste il “valore legale”) ma anche Francia e Germania stanno abbandonando questo mezzo di controllo (politico e burocratico) sulle università. In Francia, ormai i titoli che contano (sul mercato del lavoro) sono rilasciati dalle “grandes écoles” non dalle università; l’intero sistema è in fase di riforma. In Germania, l’unificazione ha accelerato un processo in atto, nei Länder occidentale, sin dal dopoguerra.
Tuttavia, non basta cancellare il “valore legale” con un colpo di spugna. Ne risulterebbe non una sana concorrenza tra università alla ricerca dei migliori studiosi, dei migliori docenti e dei migliori allievi, ma un vero e proprio proliferare di simil-università a carattere commerciale. Occorre non solo un sistema forte d’accreditamento (quale in atto nei Paesi che non danno alcun “valore legale” ai titoli di studio) ma anche un potenziamento degli strumenti di valutazione esistenti ed una loro maggiore divulgazione in modo che i “clienti” (studenti e famiglie) possano fare scelte informate.

sabato 30 agosto 2008

JESI E QUEI DUE CHE RIFECERO LA MUSICA, Il Domenicale 30 agosto

Quando, circa otto anni fa, il musicologo Vincenzo De Vivo mi parlò dell’organizzazione di un festival (a Jesi e dintorni) dedicato a Spontini e a Pergolesi mostrai perplessità. Jesi è rimasta nei libri di storia per avere dato i natali a Federico II ma è anche il luogo di nascita di due musicisti che in modo, misura ed epoche differenti hanno trasformato il teatro in musica europeo: Gaspare Spontini e Gian Battista Draghi (o Drago, le fonti documentarie non collimano) detto Pergolesi in quanto discendente da una famiglia di Pergola. L’occasione erano i 150 anni dalla morte di Gaspare Spontini, il quale a cavallo tra la fine del Settecento e l’inizio dell’Ottocento fu vero e proprio Titano nel teatro lirico francese e tedesco. Tuttavia un festival Spontini (dati i pochi lavori prodotti e la sostanziale impossibilità di metterli in scena per il loro carattere monumentale e gli enormi organici richiesti) doveva includere anche Pergolesi di cui il 4 gennaio 2010 si celebrano i 300 anni dalla nascita. Sorgeva un altro problema: in 26 anni vita, di cui soltanto sette di professione, Pergolesi ha composto piuttosto poco (nonostante molti lavori gli siano stati attribuiti). C’era il rischio che nell’arco di pochi anni venisse a mancare la materia prima. Tuttavia, l’entusiasmo non mancava, la manifestazione veniva finanziata quasi interamente dagli enti e dalle imprese locali, per effettuare economie si fondeva con l’esistente “teatro di tradizione” (il “Pergolesi” di Jesi), valorizzava i magnifici piccoli teatri di Maiolati Spontini, Monsano, Montecarotto, Monte San Vito e San Marcello, si poneva come strumento di marketing territoriale, dava vita ad un circuito teatrale-musicale marchigiano, lanciava collaborazioni internazionali (anche intercontinentali). C’erano le carte per tentare.
Siamo alle soglie della Ottava Edizione che, dal 5 al 13 settembre 2008, in co-produzioni con il Festival di Radio France et Montpellier e l’Accademia della Pietà dei Turchini di Napoli, promette di portare alcuni dei suoi spettacoli in giro per l’Europa. Il tema è “opera prima, alle radici del genio”. Presenta “opere prime” non solo dei due compositori jesini ma anche di Mozart, Scarlatti, Soler, Vivaldi ed altri. L’evento centrale è la prima rappresentazione in tempi moderni de “La Salustia”, dramma per musica, composto da Pergolesi a 21 anni.

Un cenno a Spontini, di cui nel festival si esegue io giovanile “Li Puntigli delle Donne”. Il compositore appartiene alla schiera degli “esuli” che, a cavallo tra la fine del Settecento e l’inizio dell’Ottocento, cercarono la loro fortuna al di fuori dei confini degli statarelli della Penisola ed emigrarono presso le più grandi corti europee (Parigi, Vienna, San Pietroburgo, Piccini): Piccini, Salieri, Morlacchi, Paisiello. Il loro impatto, quindi, si esplicò su tutto il teatro in musica europeo; rappresentano l’anello di congiunzione tra la tragédie lyrique gluckiana e post-gluckiana, da un lato, il “bel canto” neoclassico, da un altro, e il melodramma italiano, da un altro ancora. A differenza degli altri, nell’arco della sua lunga vita, una volta effettuata la propria svolta artistica (con “La Vestale”), Spontini fece evolvere il proprio linguaggio non per successiva rigenerazione ma per consolidamento, perfezionamento e proliferazione dei germi innovativi scoperti; un’evoluzione per molti aspetti analoga a quella di Wagner (dal “Lohengrin” in poi) che forse anche per questa ragione lo considerò suo maestro. Con Wagner, c’è un altro parallelo: il pessimo carattere, che lo reso straniero non solo in Patria ma anche all’estero, in quella Parigi del Primo Impero e della Restaurazione ed in quella Berlino di Federico Imperatore dove fu molto più del musicista di corte diventando il vero leader di scuole, che presero orientamenti così differenti approdando, ad esempio, a Meyerbeer , a Berlioz ed allo stesso Wagner.

Differente ed ancora maggiore l’impatto di Pergolesi. Napoletano di formazione ( al “Conservatorio dei poveri di Gesù Cristo), le sue prime opere di composizione furono a carattere religioso - "La fenice sul rogo, ovvero la morte di San Giuseppe, oratorio in 2 parti", "Li prodigii della Divina Grazia nella conversione di San Guglielmo Duca d'Aquitania, la "Messa in Re maggiore"."Salustia" con cui Pergolesi esordisce al Teatro di San Bartolomeo avrebbe dovuto lanciarlo sulla scena teatrale, ma non fu il successo sperato anche perché, venuto a mancare, alla vigilia della prima rappresentazione, il cantante per cui era stata scritta (il Nicolino), dovette essere riscritta per più giovane , e meno abile, (Giocacchino Conti). In effetti, quella che si ascolterà a Jesi è una “prima assoluta” poiché viene eseguita la scrittura vocale originaria del lavoro. “La Salustia” segue i canoni dell’”opera seria”: passioni smisurate, calunnie, pure combattimenti con le fiere, ed immancabile lieto fine. Un’analisi della partitura documenta come in questa e nell’”opera seria” successiva (“Il Prigionier Superbo”) , Pergolesi facesse uno sforzo non solo di assimilare ma di rendere chiaro e trasparente il linguaggio dei musicisti allora all’avanguardia (Leo, Hasse, Vinci). In “Adriano in Siria”, visto ed ascoltato a Jesi l’autunno scorso e grande successo del festival di musica barocca di Beaune questo luglio, Pergolesi affronta tutte la opportunità che il “sistema melodrammatico” può offrire. Ne “L’Olimpiade” (che da Jesi è andato in una lunga tournée nel 2003) effettua una scelta stilistica intimista. Accanto a questo percorso nel teatro serio, ne svolge uno parallelo nella musica sacra (“Salve Regina”, “Stabat Mater”) e soprattutto nella commedia in musica (“”Lo’ Frate Innamoratu”, “La Serva Padrona”, “Livietta e Tracollo”, “Il Flaminio”). In tutte queste composizioni, anche le più religiose o le più esilaranti, pone al centro “il palpito dell’anima” (come ha acutamente scritto Francesco Degrada).

Fu questo “palpito dell’anima”, ancor più della rappresentazione a Parigi nel 1752 de “La Serva Padrona” (peraltro già messa in scena nella capitale francese nel 1746) a scatenare “la querelle de bouffons”, la polemica durissima fra tradizione francese e musica italiana che segnò un punto di svolta non solo nella storia della musica ma nell’evoluzione dell’illuminismo (Russeau si schierò sul fronte italianofilo e compose un’opera, “Le Devin du Village”, di stile pergolesiano, oltre che un breve trattato di estetica, “Lettre sur la Musique”). La “querelle” influenzò la musica, e la politica, anche Oltrereno. Pergolesi era morto di tisi a Pozzuoli da circa tre lustri ma la sua musica e la sua leggenda (recenti analisi concludono che solo 8 dei 21 pezzi utilizzati da Stravinkij per il suo “Pulcinella” ufficialmente basato su trascrizioni da Pergolesi, sono stati compositi dalla jesino).

Una leggenda priva di basi? Non solo le edizioni critiche e le esecuzioni avviate a Jesi ci permettono di apprezzare quanto riuscì ad anticipare ma la frequenza con cui sue composizioni sono utilizzate come musica da film (non solo in Europa occidentale ma anche negli Usa ed in Russia) ci dicono come questo malaticcio autore della prima metà del Settecento sappia parlare anche al grande pubblico di oggi. Un impatto maggiore di quello del conterraneo Spontini.

LA RAPIDA CORSA VERSO IL MODELLO “ZERO HUB” Il Tempo, 30 agosto

In mandarino l’ideogramma che vuol dire opportunità, significa, se rovesciato, rischio. Nella nuova economia dei trasporti – quella che ha una delle sue fucine all’Università Erasmus a Rotterdam (dove, utilizzando metodologie innovative, sono stati riprogrammati gli aeroporti del Nord Europa) – il sistema degli “hub”, tipico di vettori nazionali e regionali, è superato da quello che è chiamato il “modello zero hub” meglio adatto a compagnie internazionali od a reti internazionali d’ aviolinee su base nazionale.
Occorre tenerlo presente nel valutare le opportunità ed i rischi, per Fiumicino, delle decisioni pertinenti al futuro di quella che fu l’Alitalia. Lo scalo ed il suo ruolo hanno un’importanza vitale per Roma ed il suo hinterland non solamente per l’occupazione a loro collegata ma anche per i contenuti tecnologici dell’infrastruttura e per gli investimenti effettuati nell’area. I documenti ufficiali sulla Compagnia Area Italiana (Cai) che incorporerà le attività più promettenti di Alitalia e di AirOne non dicono nulla sul futuro dei maggiori aeroporti italiani. Esperti italiani come Giulio De Carli e stranieri come Han Smit , ritengono che in prospettiva il modello “zero hub” sia quello che prevarrà, specialmente se tra gli azionisti della Cai entreranno – ipotesi non del tutto improbabile – sia AirFrance-Klm sia Lufthansa, facendo diventare la nuova azienda la cerniera del traffico aereo dell’intera Europa continentale proiettato verso il resto del mondo.
Ciò rappresenta un’opportunità di rilievo per Fiumicino (che diventerebbe sempre più internazionale ed avrebbe un aumento quantitativo e qualitativo delle attività). E’, però, anche un rischio: in un modello “zero hub” gli scali sono in competizione gli uni con gli altri. Vince chi offre i servizi migliori in termini di puntualità, imbarco e sbarco, comfort a terra. Tutti gli interessati ad un futuro prospero per Fiumicino (sindacati e fornitori di servizi di collegamento con la città, come i taxi e le ferrovie) devono collaborare per fare sì che in un mondo “zero hub” i consumatori scelgano lo scalo vicino alla capitale.
Chi viaggia frequentemente per lavoro, come il vostro “chroniqueur”, ha sotto i propri occhi un esempio: il rifiorire dello scalo di Fontana Rossa nei pressi di Catania che potrebbe contendere a Fiumicino il primato per le rotte per il bacino del Mediterraneo, per l’Africa ed anche per l’Estremo Oriente (passando per il Golfo Persico). E’ un concorrente più agguerrito di Malpensa per gli ottimi servizi che oggi offre e di cui pochi (al di fuori del mondo dell’aeronautica civile) si sono accorti.
In un mondo dove tutti corrono, chi si ferma è perduto. Lo hanno scritto tanto il Rev. Lewis Carrol quanto Tinto Brass: nella massima c’è verosimilmente del vero.

AL SUD PIU’ QUALITA’ SE C’E’ COMPETIZIONE. Libero 30 agosto

Giuseppe Di Vittorio, leader storico del sindacato e non certo “uomo di destra”, aveva uno stile spartano. La sera cenava, di solito piuttosto presto, in una pizzeria di Via Genova che aveva come insegna la marca di un vino a buon mercato dei Castelli Romani (“Est! Est! Est!”) ed accoglieva, al suo tavolo, giovani (come me, all’epoca) che frequentavano il Teatro Eliseo in quel di Via Nazionale ed andavano a prendere una pizza prima dello spettacolo. Di Vittorio amava ripetere una massima: “la tracotanza è figlia dell’ignoranza”. La avrebbe ripetuta oggi a fronte della polemica della sinistra di Capalbio e di Sabaudia sulle misure annunciate dal Ministro Mariastella Gelmini per rilanciare la scuola nel Sud? Probabilmente sì perché la polemica mostra come chi la ha suscitata ignori gli insegnamenti di base dei propri maestri (ce ne sono stati anche di “buoni” non solo di “cattivi”), nonché studi quantitativi recenti. Lo ha correttamente ricordato lo stesso Tullio De Mauro, linguista di rango ed ex-Ministro dell’Istruzione, con termini che dovrebbero fare vergognare tutti quelli che hanno sollevato la polemica.
Ad un semplice economista non è appropriato entrare in terreni in cui i sociologici ed i pedagogisti hanno una cassetta degli attrezzi più consona a comprendere perché ci sono tali e tante differenze d’apprendimento in diverse parti dell’Italia. I dati essenziali sono stati pubblicati ampliamente in questi giorni sui giornali: studi quantitativi, peraltro non recentissimi, dell’Ocse e della Banca d’Italia evidenziano come al Sud la dispersione scolastica (ossia i ragazzi che non completano il ciclo) è molto più elevata che al Centro-Nord e che i quindicenni del Sud “sanno” molto meno di quelli del Centro-Nord in matematica e scienze (le sole materie per cui è possibile un confronto internazionale). Inoltre, i ragazzi dei ceti ad alto reddito del Sud hanno un livello d’apprendimento minore di quelli a basso reddito del Centro-Nord- dato che suggerisce come il fenomeno sia destinato ad acuirsi. Il problema – inoltre – non si cura necessariamente aumentando le risorse finanziarie: in un articolo apparso su www.lavoce.info, un’analisi di Maria Flavia Ambrosiano e Massimo Bordigon (due economisti certamente non collaterali al centro-destra) dimostra che la spesa pubblica pro-capite per istruzione in Calabria è doppia rispetto al livello effettivo in Lombardia. Il “Quaderno Bianco sulla Scuola” – presentato, con una certa fanfara, da Romano Prodi nel settembre 2007, ma presto accantonato – aveva il divario tra Sud e Centro-Nord come tema fondante.
Cosa fare? Ci si può strappare i capelli e rotolarsi per terra, lamentando che non c’è modo di uscire da questo circolo vizioso. E’ un po’ ciò che fanno (econometricamente parlando) Luigi Guiso, Paola Sapienza e Luigi Zingales (non certo collaterali al Governo in carica) nel loro ultimo lavoro (CEPR Discussion Paper No. DP6657) in cui si riallacciano ad un beniamino del centro-sinistra, Robert Putman dell’Università di Harvard (il quale ha studiato a lungo le Regioni italiane) e in base di una strumentazione econometrica comparata, concludono che il Sud ha ormai trovato un equilibrio (ad un livello basso) e ci vorranno almeno 500 anni per colmare il differenziale, specialmente di conoscenze e di apprendimento.
Si possono proporre miglioramenti graduali e progressivi, come fa il Ministro imperniandoli sulla formazione degli insegnanti e sulla sperimentazione. Si possono suggerire alternative che possono sembrare radicali, come quella lanciata da Franco Debenetti (sulla base dell’esperienza svedese) della competizione tra scuole tramite un sistema di vouchers. E’ interessante notare come nell’ultimo numero di “Economic Affaire” Greg Forster pubblichi un saggio comparato (non limitato alla Svezia ma sull’esperienza dei vouchers negli Stati degli Usa) in cui conclude come i “vouchers” abbiano migliorato la qualità delle scuole e gli esiti scolastici degli studenti – lo avevo già detto, negli Anni 70, mâitre à penser della sinistra (come Jenks, Illich e Delors) , che probabilmente a Capalbio e Sabaudia non vengono letti, ma sui cui libri Di Vittorio avrebbe passato nottate.
In Italia l’argomento principale contro gli “school vouchers” è quello che potrebbero favorire le scuole private (anche e soprattutto nel Sud), la cui qualità sarebbe inferiore a quella delle scuole pubbliche , aggravando il problema ed aumentando i costi complessivi (poiché il pubblico ha obblighi specifici). Un’analisi di Giuseppe Bertola, Daniele Checchi e Veruska Oppendisano (per ora pubblicata dall’Istituto federale tedesco d’analisi dei problemi del lavoro – IZA Working Paper No 3222- è da augurarsi che venga diffusa anche in Italia) conferma, in base a tre rassegne empiriche, che gli esiti in istruzione superiore e nel mercato del lavoro sono migliori per coloro che hanno frequentato le scuole pubbliche (rispetto a coloro che hanno frequentato quelle private). E’, tuttavia, un’analisi statica: le scuole private verrebbero incoraggiate a migliorare da un meccanismo di “voucher” (altrimenti perderebbero allievi). Uno studio delle Università di Berkeley e della McMaster University (NBER Working Paper No. W14176) prova che in un’ottica dinamica è ciò che è successo dove in Nord America si sono introdotti i “voucher”: un miglioramento della qualità (in termini d’apprendimento) del 6-8%. Non abbastanza a colmare il gap tra Sud e Centro-Nord, ma in grado di ridurlo in misura significativa.
Nessuno di questi titoli recenti è stato echeggiato nelle polemiche degli ultimi giorni: segno che a Capalbio ed a Sabaudia si ignorano tanto quanto si ignorano i maestri del pensiero della sinistra in questi campi. Di Vittorio avrebbe detto che si tratta di ulteriore conferma di come la tracotanza vada a braccetto con l’ignoranza.
Mariastella, non ti curar di loro. Vai avanti!

venerdì 29 agosto 2008

OMABA ALLA CASA BIANCA? ALL’EUROPA CONVIENE L'Occidentale , 30 agosto

Ho studiato e lavorato negli Stati Uniti per oltre tre lustri, i miei figli sono cittadini degli Stati Uniti, alcuni dei miei migliori amici vivono Oltreoceano, ho insegnato dieci anni in un’Università americana, il prossimo anno accademico tornerò ad insegnare in un’Università anglosassone. Quindi, mi sento emotivamente coinvolto ad ogni elezione presidenziale Usa. Mantenendo, però, la razionalità illuministica dell’europeo. Non ero presente all’incoronazione di Barack Obama a candidato alla presidenza negli Usa allo stadio di Denver il 28 agosto. Vi era una folta delegazione della sinistra italiana corsa alla corte di quello che già ritiene essere il vincitore delle elezioni Usa del prossimo novembre. A commento dell’adunata oceanica, i leader del PD hanno formulato l’ipotesi (un po’ peculiare) secondo cui una svolta a sinistra negli Usa renderebbe più facile un’analoga svolta in Europa (come si fosse parte di un Impero di cui Washington è la capitale).
L’Occidentale ha chiaramente preso posizione per il candidato repubblicano. Se fosse stato “Condi” Rice avrebbe avuto il mio voto senza esitazione (nell’ipotesi che avessi diritto di voto). Nella scelta tra McCain e Obama, tuttavia, voterei, se potessi, per il Senatore dell’Illinois per queste ragioni:
· In primo luogo, dal 1980 la Casa Bianca è abitata da repubblicani (fatta eccezione del periodo, peraltro piuttosto farsesco-boccaccesco, della Presidenza Clinton). L’alternanza è il sale della democrazia. Specialmente quando manca un candidato decisamente superiore, come sarebbe stata “Condi”. Mi auguro che pure in Italia tra due-tre lustri (ossia dal 2020 o giù di lì) la sinistra abbia le carte (in termini di uomini e di programmi) per potere assumere responsabilità di governo.
· In secondo luogo, all’interno degli Stati Uniti, una vittoria di Obama potrà una volte per tutte esorcizzare le tensioni razziali : gli afro-americani saranno fieri del loro Paese e l’integrazione farà un salto davvero irreversibile. Gli ispano-americani (ed altre minoranza come gli italo-americani) penseranno, a ragione, che in una prossima volta l’inquilino della Casa Bianca sarà uno dei “loro”. Un’America integrata e coesa conviene a tutto il mondo. Pure all’Europa.
· In terzo luogo, il “capitalismo reaganiano” (per utilizzare il lessico di un fortunato libro di Michel Albert) ha svolto la propria funzione e si è affermato, in vario modo, ovunque (pure in Paesi refrattari al liberismo come l’Italia). C’è bisogno di un cambiamento di orientamento che McCain, per età e radicamento culturale, non offre (ma che forse “Condi” avrebbe potuto offrire).
· In quarto luogo, Obama ha, sotto il profilo economico, un’offerta ancora più polverosa di quella di McCain: disavanzi di bilancio (e della bilancia dei pagamenti) a go-go, protezionismo durissimo (che farà esplodere tensioni con la Cina, con il Canada, con il Messico, con l’Ue e rischierà di seppellire il Wto), centralizzazioni delle funzioni “sociali” a livello del Governo federale (mettendo in crisi i rapporti con gli Stati dell’Unione). Basta scorrere l’elenco di chi lo ha finanziato per avere un’idea che la sua politica economica “prammatica” (così la ha definita) è un’insalata mista di vecchio ideologismo di sinistra (che negli Usa non è mai arrivato alla Casa Bianca) e concessioni alle lobby più disparate e più contraddittorie. Per l’Europa ciò è un rischio (tensioni nel riassetto degli squilibri finanziari mondiali) ma anche un’opportunità (assumere di nuovo un ruolo di rilievo nel contesto economico mondiale).
· In quinto luogo, in politica estera, Obama è chiaramente poco interessato all’Europa ed all’Asia. Il suo marcato ideologismo lo spinge ad un ritiro immediato dall’Iraq, ad una resa senza condizioni nei confronti dell’Iran, a concessioni a Hamas, a posizioni decisamente anti-Israele. Non sta a me, in questa sede, se ha torto o ragione. Occorre, però, sottolineare che non tutti gli americani la pensano come lui. La politica estera è competenza non solo della Casa Bianca ma anche del Senato. E’, dunque, facile prevedere una paralisi. Ciò sarebbe un’opportunità per l’Europa. Se ne è avuta un’anteprima nella recente crisi Russia-Georgia dove il Presidente del Consiglio Europeo, Nicolas Sarkozy, ha svolto un ruolo chiave, proprio in quanto gli Usa erano alle prese con le loro questioni interne.
Quindi, da europeo non posso non essere per Obama. Pur se per ragioni non necessariamente collimanti con quelle di WV (Walter Veltroni).

LE DUE –TRE COSE CHE SO DI MONSIEUR ATTALI, Libero 29 agosto

Ho stima ed amicizia per il Prof. Amato da circa trent’anni, quando io ero in Banca Mondiale ed lui alla Brookings Institution (quindi a pochi passi l’uno dall’altro, nella capitale Usa). Conosco l’Ing. Attali (molti dimenticano che il nostro è un ingegnere minerario, non un filosofo od un economista) da quando scrisse l’”Anti-economiste” (saggio contro la disciplina economica). Ho ottimi rapporti con l’Ing. Gianni Alemanno – ora Sindaco di Roma- da una diecina d’anni.
Non mi permetto di dare suggerimenti al Prof. Amato ed all’Ing. Alemanno. Tuttavia, sarebbe utile ricordare alcuni fatti a proposito dell’Ing. Attali e delle “sue” Commissioni. In primo luogo, l’unico libro dell’Ing. Attali tradotto in italiano (per l’appunto “L’anti-economista”) ha venduto circa 300 copie. I numerosi saggi e romanzi pubblicati in Francia non hanno richiesto, o avuto, ristampe. Il suo film a puntate “Warburg, un homme d’influence” ha avuto un audience così bassa in televisione che la versione ridotta non ha mai raggiunto le sale cinematografiche. Scrivo dalla Francia (mia moglie è francese e passiamo Oltralpe parte dell’estate); secondo la stampa locale, non più del 10% delle raccomandazioni dell’ultima Commissione presieduta dall’Ing. Attali hanno una media probabilità di essere attuate. Nel contempo, l’80% delle riforme approvate dagli organi costituzionali francesi (pure quella della Costituzione della V Repubblica) vanno in direzione opposta alle indicazioni dell’Ingegnere e della “sua” Commissione. Tanto il Prof. Amato quanto il vostro “chroniqueur” sono di origine siciliana. Di fronte a tanti risultati, dovrebbe valere il motto “non è vero, ma ci credo”. Ed eliminare il nome dell’Ing. Attali dalla Commissione.
L’Ing.Attali e la “sua” Commissione hanno, però, avuto un contributo importante al futuro della Francia: hanno frammentato quel che restava della sinistra riformista francese, permettendo alla “droite” di cambiare pure la Costituzione, nel giro di meno di un anno, ed avere dieci anni di governo sereno di fronte a sé. Se tale era l’obiettivo dell’Ing. Alemanno , lo ha già raggiunto.
Ciò non vuole dire che il Prof. Amato alla guida di un gruppi di esperti bi-poli-multi-partisan non possa svolgere una funzione utile nel tratteggiare il percorso per Roma capitale. Tanto meglio riuscirà in questo scopo quanto più la Commissione produrrà progetti concreti corredati (data la situazione del Campidoglio) da analisi (quanto meno preliminari) dei loro costi e dei loro benefici finanziari, economici e sociali. Altrimenti l’esito sarà aria fritta , come quello della Commissione guidata dall’Ing. Attali. Gli eletti dal popolo sovrano daranno al rapporto un’occhiata tra l’ironico ed il sarcastico (come è avvenuto in Francia).
A tal fine, è essenziale che la Commissione o Gruppo di Lavoro che dir si voglia non si attardi in discussioni teologiche o teleologiche che hanno dato prova di essere irrisolvibili (quali quella delle licenze dei taxi): i componenti che hanno pregiudiziali a riguardo ed il gusto della teologia o della teleologia farebbero meglio a utilizzare tempo ed energie in altri pensatoi, oppure, come suggerito da Amleto ad Ofelia, in convento.

IL PICCOLO GRANDE FESTIVAL DI JESI OMAGGIA PERGOLESI, Il Velino 28 agosto

Dall’inizio del XXI secolo, gli appassionati di grande musica vanno all’inizio di settembre in una piccola città delle Marche, nota soprattutto per avere dato i natali a Federico II: Jesi. Vi sono anche nati due musicisti che hanno rivoluzionato la musica europea : Pergolesi e Spontini. E’ nato un piccolo grande festival dedicato ai due musiciati. Lo si è fatto una modesta iniezione di denaro dal Fondo Unico per lo Spettacolo, Fus, contributi dagli enti ed imprese locali. Pochi pensavano che avesse vita duratura: viaggia verso la decima edizione ed ha assunto un rilievo internazionale Dal 5 al 13 settembre 2008, in co-produzioni con il Festival di Radio France a Montpellier e l’Accademia della Pietà dei Turchini di Napoli, promette di portare alcuni dei suoi spettacoli in giro per l’Europa. Il tema è “opera prima, alle radici del genio”. Presenta “opere prime” non solo dei due compositori jesini ma anche di Mozart, Scarlatti, Soler, Vivaldi ed altri. L’evento centrale è la prima rappresentazione in tempi moderni de “La Salustia”, dramma per musica, composto da Pergolesi a 21 anni.
Si tratta in effetti di una prima mondiale poiché proprio quando l’opera stava per essere messa in scena, venne a mancare, alla vigilia della prima rappresentazione, il cantante per cui era stata scritta (il Nicolino). Dovette essere riscritta per più giovane , e meno abile, (Giocacchino Conti). In effetti, in quella che si è ascoltata a fine luglio al Festival di Radio France a Montpellier e si vedrà ed ascolterà a Jesi , viene eseguita la scrittura vocale originaria del lavoro. “La Salustia” segue i canoni dell’”opera seria”: passioni smisurate, calunnie, pure combattimenti con le fiere, ed immancabile lieto fine. Un’analisi della partitura documenta come in questa e nell’”opera seria” successiva (“Il Prigionier Superbo”) , Pergolesi facesse uno sforzo non solo di assimilare ma di rendere chiaro e trasparente il linguaggio dei musicisti allora all’avanguardia (Leo, Hasse, Vinci). In “Adriano in Siria”, visto ed ascoltato a Jesi l’autunno scorso e grande successo del festival di musica barocca di Beaune questo luglio, Pergolesi affronta tutte la opportunità che il “sistema melodrammatico” può offrire. Ne “L’Olimpiade” (che da Jesi è andato in una lunga tournée nel 2003) effettua una scelta stilistica intimista. Accanto a questo percorso nel teatro serio, ne svolge uno parallelo nella musica sacra (“Salve Regina”, “Stabat Mater”) e soprattutto nella commedia in musica (“”Lo’ Frate Innamoratu”, “La Serva Padrona”, “Livietta e Tracollo”, “Il Flaminio”). In tutte queste composizioni, anche le più religiose o le più esilaranti, pone al centro “il palpito dell’anima” (come ha acutamente scritto Francesco Degrada).
Dopo avere ascoltato “La Salustia” a Montpellier meno di un mese fa, un critico musicale americano a Montpellier, Michael Milenski, ha scritto, su “Seen and Heard International Opera Review”, ha scritto “le meraviglie non cessano di esistere”.Milenski è severo nei confronti della durata del lavoro (tre ore e mezzo con un breve intervallo- tipico per l’epoca) ma ne esalta la parte musicale e sottolinea le trovate dell’allestimento scenico. Molto positive le recensioni (delle rappresentazioni a Montpellier) su ODB Opéra Forum, un web francese dedicato alla lirica.
Ancora una dimostrazione che l’intelligenza paga. Rechiamocii a Jesi ed innaffiamo “La Salustia” con un buon Verdicchio.

UN MITO DA SELEZIONARE, Milano Finanza 29 agosto

Il MiTo, ossia la festa musicale che in settembre porterà a Milano ed a Torino pubblico da tutto il mondo, fa un salto importante rispetto al 2007: da una kermesse organizzata con molto entusiasmo ma anche con una buona dose d’improvvisazione, diventa l’ultimo festival. Non solo in senso cronologico – chiude l’estate festivaliera ed fa da preludio alle “stagioni” (operistiche, concertistiche) dell’autunno-inverno. Ma anche nel senso di “ultime” in francese e “ultimate” in inglese – ossia il più complesso ed il più completo dei festival italiani del 2008. Offre ben 230 eventi, la metà dei quali gratuiti e molti i cui biglietti costano, di massima, 10 euro o poco più. Si rivolge al tutto il “popolo della musica” – dalla classica tradizionale a quella contemporanea, dal jazz al country. Compie, in tal modo, un’operazione culturale importantissima: si rivolge ai giovani, che già hanno caratterizzato il MiTo 2007 e che dovrebbero essere ancora più presenti nelle prossime settimane. I 230 eventi, però, non sono una proposta casuale, portando a Torino ed a Milano artisti comunque in giro per l’Italia. Hanno due – tre fili conduttori importanti: la personale di Harrison Birtwhile (uno dei massimi compositori contemporanei), il barocco (nel senso etimologico di musica che non segue regole prestabilite) e nelle sue espressioni attraverso i secoli, il nesso con il visivo.
Come orientarsi in tanta offerta? In gran parte dipende dai gusti di ciascuno: chi ama la grande classica non perderà i concerti della Royal Concertbow Orchestra di Amsterdam e della Cleveland Orchestra (in luglio ed agosto in residenza a Salisburgo); chi predilige il virtuosismo cameristico correrà ad ascoltare Sayaka Shoi, chi è appassionato di jazz o il rock ha un menù vasto sia italiano (Rea e Sellani) sia straniero (Reed, Anderson e Zorn).
Occorre scegliere con cautela per non andare incontro ad emozioni inferiori alle attese. Ad esempio, Cecilia Bartoli è un mezzosoprano d’agilità tra i migliori su piazza: un conto ascoltarla al Teatro dell’Opera di Zurigo od al Massimo Bellini di Catania (due meraviglie acustiche di 800 posti), un altro nel grande spazio del Lingotto. Inoltre, “Gesualdo considered as a murderer” di Luca Francesconi è lavoro ambizioso ma può essere ostico al pubblico meno avvezzo alla traslazione dei madrigali in linguaggio musicale contemporaneo. Infine, “Book of Longing” di Philip Glass per musica, parole ed immagini sarà senza dubbio apprezzato (con una punta di nostalgia per l’avanguardia-che-fu) da chi ha più di 65 anni ma ai giovani può sembrare un glaciale gioco intellettuale.

mercoledì 27 agosto 2008

MANTENUTA LA PROMESSA DI BERLUSCONI, Il Tempo 28 agosto

Si vede luce alla fine del tunnel della lunga vicenda Alitalia. C’è una compagine d’azionisti italiani pronti a versare un miliardo d’euro per fare volare la parte giudicata tecnicamente sana dell’azienda. Si profila la possibile concorrenza tra due grandi vettori internazionali (AirFrance-Klm e Lufthansa) per diventare partner di un’Alitalia risanata. Se queste prospettive si materializzano, il Governo potrà affermare di avere, ancora una volta, fatto centro.
Il tunnel è, però, ancora lungo. Il decollo della nuova Alitalia richiede, in primo luogo, una svolta sindacale: non tutte le sigle sembrano avere metabolizzato il rischio che a soffrire non siano 5-7.000 esuberi (in parte ricollocabili) ma 20.000 lavoratori e le loro famiglie (ed un numero analogo nell’indotto). Gli investitori, in secondo luogo, chiedono garanzie per impedire che si trasferisca sulle loro imprese il costo delle perdite e dei debiti accumulati da Alitalia; tali garanzie potrebbero fare sì che (se le cose non vanno per il verso giusto) a pagare siano ancora una volta i contribuenti. Ci sono, poi, trabocchetti. Il primo è la possibilità che la discontinuità aziendale (con lo scorporo d’attività in perdita) venga impugnata dall’Ue , oppure da uno o più concorrenti nei confronti dell’Ue; ne risulterebbe una vertenza complicata da cui l’Italia potrebbe uscire perdere. Il secondo è la necessità di una deroga alle norme anti-trust. Tale potrebbe non essere concessa o, se concessa, rappresentare un precedente pericoloso.

IL SISTEMA DI PREVIDENZA PUBBLICO NON VA BUTTATO, VA FATTO FUNZIONARE,L'Occidentale 27 agosto

Piaccia o non piaccia, il “dossier” della previdenza pubblica sarà all’attenzione del Governo e delle parti sociali alla ripresa settembrina. I temi sul tappeto sono numerosi (non necessariamente la revisione dell’età minima per le pensioni di anzianità come suggerito da alcuni organi di stampa per fornire la consueta dose di terrorismo ferragostano): a) i tempi ed i modi della revisione dei “coefficienti di trasformazione” ((i parametri in base ai quali il montante dei contributi versati o comunque computati viene “trasformato” in trattamenti previdenziali annuali), b) i metodi per l’indicizzazione specialmente per le pensioni più basse e per quelle dei più anziani, c) la tenuta complessiva del sistema a fronte di un’economia la cui crescita è inferiore al previsto, d) il rinnovo degli organi di gestione dei principali istituti di previdenza.
Una serie di analisi recenti del servizio studi della Banca d’Italia (diramate on line agli abbonati proprio nelle settimane attorno al Ferragosto) confermano che l’alto tasso di risparmio delle famiglie, la composizione dei relativi impieghi (ad esempio, il peso dell’immobiliare nello stock di ricchezza) e le decisioni relativi ai trasferimenti intergenerazionali (in parole povere, quanto e cosa lasciare in eredità ai figli) sono aspetti importanti della formazione di capitale che in Italia assumono caratteristiche differenti (di quelle di altri Paesi) a ragione, in parte, dell’incertezza in materia di politica previdenziale. L’alto numero di riforme della previdenza (almeno cinque dal 1993) inducono individui, famiglie ed imprese a tenere che nuovi riassetti siano dietro l’angolo. Quindi, bene ha fatto il Ministro del Lavoro, della Previdenza, della Salute e della Solidarietà Sociale Maurizio Sacconi ha smentire in modo chiaro e netto il terrorismo mediatico ferragostano. Ciò nonostante, in settembre ci sarà un’agenda previdenziale molto densa che potrà portare (una volte concluse le v verifiche indicate) ad una serie di ritocchi al sistema che si sta mettendo in atto dalla metà degli Anni 90.
Un tema di cui poco si parla ma che dovrebbe essere messo sul tappeto sono i rendimenti dei versamenti degli italiani (lavoratori e datori di lavoro) per la previdenza pubblica. Vengono spesso dibattuti, anche sulla stampa d’informazione, i rendimenti della previdenza privata (i fondi pensione) : il loro livello generalmente basso viene considerato tra le determinanti che tengono molti italiani lontani dai fondi.
Può sembrare pleonastico parlare dei rendimenti dei versamenti per la previdenza pubblica in un meccanismo a ripartizione in cui i lavoratori attivi di oggi finanziano, con i loro contributi, i trattamenti di chi è in pensione. Tuttavia è un argomento che occorre sviscerare (specialmente alla vigilia dei rinnovi dei CdA dei maggiori istituti di previdenza) non solo perché gli organi di governo degli istituti non lo hanno sollevato con sufficiente risalto in passato ma per due ragioni:
· da un lato, se gli investimenti degli istituti di previdenza (le “riserve tecniche” che per decenni hanno vincolato gli istituti a investimenti immobiliari) rendessero più e meglio (di quanto non rendano oggi) sarebbe meno pesante il trasferimento che dalla casse generali dell’erario deve essere fatto ogni anno a quelle degli istituti;
· da un altro, il sistema contributivo che si sta introducendo dal 1995 potrebbe essere visto come il tassello essenziale vero pensioni “fully funded” (ossia che si finanziano da sole).
E’ tema negli ultimi anni al centro delle politiche previdenziali di Paesi come il Canada, l’Irlanda, la Nuova Zelanda e la Norvegia il cui sistema è rimasto quasi totalmente pubblico (ed a ripartizione). A metà agosto, la Banca mondiale ha pubblicato un interessante rassegna (World Bank Policy Resarch Working Paper n. 4499) curata di Dmitri Vittas, Gregorio Impavido e Ronan O’ Condor. Il lavoro è mirato ad individuare come si può “upgrade” (migliorare) le politiche d’investimento della previdenza pubblica proprio partendo dall’esame di Paesi dove si è cercato di svecchiare le polverose tecniche di gestione, introducendo, al tempo stesso, guarentigie per evitare che i fondi previdenziali pubbliche divengano preda di pressioni particolaristiche (vi ricordate gli scandali relativi agli immobili degli istituti?).
Un aspetto interessante è come i fondi previdenziali pubblici in questione si avvalgano dei bassi costi di gestione (caratteristici della previdenza pubblica) ed abbiano gradualmente cambiato strategie d’investimento- da puramente passive ad attive.
Il pubblico non va buttato via con l’acqua sporca. Ma va fatto funzionare e rendere al meglio.

TASSI, ROMA E PARIGI CONTRO LA UE Il Tempo 27 agosto

Se il 12 settembre, Christine Lagarde (Ministro dell’Economia e delle Finanze francese) e Giulio Tremonti (sua controparte italiana) verranno visti passeggiare la mano nella mano ne “la promenade des anglais” (10 km di stupendo lungomare e palli “belle époque” o ultramoderni) o cenare a lume di candela da “Chantecler” (il ristorante del Negresco, il miglior hotel di Nizza) guardando dalle finestre “la baie des anges”, non pensate a nulla di romantico. Si tratta meramente di un’ “alleanza naturale” (dicevano i vecchi testi per la preparazione al concorso per la carriera diplomatica) tra Francia ed Italia perché il resto dell’Europa si dia una mossa rispetto alla recessione che minaccia l’area dell’euro. Cade a metà settembre, uno dei due Ecofin (riunione dei Ministri economici e finanziari) “informali” (ossia senza ordine del giorno e comunicati) dell’anno; la riunione rappresenta l’occasione migliore per fare sì che l’Europa non risponda in ordine sparso al brutto tempo dell’economia reale (oltre che della finanza). La presiede, a Nizza, Christine Lagarde in quanto la Francia ha, nel semestre in corso, la presidenza di turno dell’Ue. Il carattere “informale” fa sì che si possa parlare senza peli sulla lingua e senza troppe orecchie indiscrete. E senza troppi giornalisti attorno.
La svolta europea, se pilotata da Francia ed Italia, potrà avere effetti immediati su altre riunioni in calendario; quelle del Consiglio della Banca centrale europea (Bce) del 18 settembre e del 2 ottobre e, soprattutto, quella del Fondo monetario del 13 ottobre a Washington (preceduta, come di consueto, da un G7 economico e finanziario).
Il Tempo del 18 agosto ha delineato le caratteristiche della recessione che minaccia l’Europa. Per dare una risposta alla situazione economica, il Presidente del Consiglio spagnolo Zapatero è rientrato di corsa a Madrid ed ha varato il 16 agosto una batteria di misure (24 provvedimenti di stimolo all’offerta dal costo complessivo di 20 miliardi di euro su due anni). Anche il Governo francese ha tenuto il pomeriggio del 18 una riunione straordinaria, presieduta non da Nicolas Sarkozy (come si era pensato in un primo momento) ma dal Presidente del Consiglio François Fillon (per il quale – ha scritto “Le Monde” si è trattato di una vera e propria “resurrezione” in quanto nell’ombra da diversi mesi) e limitata ai sei Ministri economici di cui Christine Lagarde è il più importante (e ha la guida sia intellettuale sia operativa).. Prima della riunione ministeriale, Fillon ha avuto un lungo scambio di idee con il Presidente di turno dell’Eurogruppo, il Presidente del Consiglio del Lussemburgo Jean-Claude Junker al fine di porre il problema al centro della riunione del 12-13 settembre a Nizza.
Al di là delle misure specifiche approvate a Parigi (dirette principalmente a sostenere le piccole e medie imprese ed contenere il costo dei trasporti pubblici), l’esito principale è quello di accelerare ed intensificare “l’intesa cordiale” con Roma al fine di giungere ad una strategia (ed una serie di azioni) comune in sede Europea. Christina Lagarde ha avuto mandato di predisporre (entro il primo settembre) un rapporto al Capo dello Stato, Nicolas Sarkozy, base di un Consiglio dei Ministri che verrà tenuto prima della riunione Europea. Nel frattempo, le diplomazie economiche europee ed internazionali di Parigi e di Roma sono in stretto contatto.
Lo spiega a tutto tondo Nicolas Bavarez, uno degli economisti più ascoltati sia da Christine Lagarde che soprattutto da Nicolas Sarkozy: “Italia e Francia hanno gli stessi interessi poiché la Germania perde colpi a ragione dell’andamento negativo dell’export ma ha margini di manovra grazie all’eccellenza della sua base industriale e la Spagna gode di una situazione di finanza pubblica che le ha permesso di iniettare 20 miliardi di euro nell’economia. Italia e Francia sono i Paesi più colpiti dalla recessione ormai in vista e non dispongono di strumenti analoghi a quelli della Germania e della Spagna”. Durissimo l’attacco di Bavarez alla Bce: aumentare i tassi in luglio mentre l’Europa entrava in recessione “è stata una follia:occorre smetterla con questo gioco al massacro”. Toni analoghi quelli di Christian de Boissieu, un tempo uno dei teorici dell’unione monetaria (quanti studenti, anche italiani, hanno studiato sui suoi libri sull’euro!) ed ora Presidente del Comitato di Analisi Economica del Governo francese: dato che su piano nazionale le possibilità di azione sono ristrettissime, occorre “un’iniziativa finanziaria europea”.
Il messaggio è diretto, in primo luogo, a Jean-Claude Trichet, Presidente della Bce, ed al direttorio dell’istituto (che si riunisce il 4 settembre). E’ un messaggio è chiaro e netto: un eventuale ritocco ai tassi deve essere al ribasso non al rialzo. In caso contrario, potrebbe esserci uno scontro durissimo con i responsabili della politica economica Ue. Lo ribadisce da Londra, uno dei maggiori esperti di ciò che avviene nei corridoi di Francoforte (sede della Bce), Mike Hume, chief economist di Lehman Brothers per l’area dell’euro: “La Bce deve riconoscere di essersi sbagliata ed essere pronta a fare un passo indietro, prima che sia troppo tardi”. Trichet sa di non avere più una sponda in Francia (anche ai fini di una sua carriera futura). Tuttavia, sa di godere dell’appoggio della Germania e dei Paesi di quella che un tempo era l’area del marco. E’ probabile che il 4 settembre il Consiglio Bce si limiterà a conviviali post-ferragostani ed ad un esame della situazione, mantenendo immutati i tassi. Quindi, è al 18 settembre (dopo l’Ecofin di Nizza) o al 2 ottobre (alla vigilia dell’assise del Fondo monetario) che si guarda per un ritocco (all’ingiù); tale ritocco è probabile specialmente se i corsi del petrolio e delle altre materie prima tenderanno al ribasso e ci saranno, quindi, meno preoccupazioni sul fonte dell’inflazione. E se Francia e Italia (ossia Giulio e Christine) sapranno farsi ascoltare dagli altri dei vari consessi Ue (specialmente dall’Eurogruppo)..
Su quali punti specifici? Il primo, ed il più importante, riguarda la necessità di una risposta europea (non di uno spezzatino di risposte nazionali) ad una recessione che colpisce l’intera area dell’euro. Il secondo riguarda la natura della risposta: non deve essere “congiunturale” (ossia rivolta al breve periodo e realizzata con strumenti anch’essi a breve termine- sul tipo di quelli, si afferma a Bercy, sede del Ministero dell’Economia e delle Finanze,che hanno caratterizzato le risposte ad altre recessioni,). Deve fare perno, invece, su aspetti strutturali – quali in Francia le riforme del mercato del lavoro, le misure per le piccole e medie imprese, l’università e la sanità. L’Italia ha, in gran misura, messo sulla corsia appropriata il mercato del lavoro del lavoro con la legge Biagi ed in materia di istruzione universitaria ha problemi e soluzioni analoghi a quelli della Francia. A differenza di Parigi, Roma non può permettersi di rallentare (per motivi congiunturali) il passo in materia di riassetto della pubblica amministrazione; deve anzi accelerarlo.
Una risposta “strutturale”, poi, implica due aspetti su cui Italia e Francia dovrebbero marciare all’unisono e convincere gli altri Governi dell’area dell’euro. Da un lato, l’esigenza di una interpretazione estensiva del protocollo del marzo 2005 al patto di stabilità per potere meglio disporre delle risorse necessarie per le riforme strutturali (in attese che esse diano i loro frutti) senza un ulteriore declino dei tenori di vita, specialmente per le fasce più deboli delle popolazione. Da un altro, un programma straordinario di finanziamento delle infrastrutture da realizzarsi tramite indebitamento della Commissione Europea o della Banca Europea per gli Investimenti. I lettori de Il Tempo ricorderanno che poco più di un anno fa una proposta del genere venne formulata in un documento dell’Istituto Affari Internazionali (curato da Oliviero Pesce e Maria Teresa Salvemini). Adesso Christian de Boissieu ha fatto propria l’idea (“l’iniziativa finanziaria europea” a cui si è fatto cenno): potrebbe essere una delle basi dell’intesa cordiale tra Parigi e Roma perché l’Europa si rimetta in moto.
In tale contesto – la domanda nasce spontanea – ritorna in gioco anche un possibile abbraccio tra Alitalia e AirFrance-Klm? Jean-Cyril Spinetta ripete che ormai i giochi sono fatti. Chi lo conosce da quando era funzionario del Ministero dell’Istruzione, sa, però, che è un bravo catto-socialista e che non ha mai sbattuto la porta con un secco “no” al potere politico.

IL MUTUO PUO' DIVENTARE RISCHIOSO MA NON DEMONIZZIAMO L'INNOVAZIONE , Libero 27 agosto

Il 29 scade il termine per la rinegoziazione dei mutui “prima cas”a – una delle prime misure, si ricorderà, decise dalle banche, non senza qualche invito da parte del nuovo Governo in carica (per questo è formalizzata in una convenzione del 19 giugno tra Abi e Ministero dell’Economia e delle Finanze), sulla scorta di crescenti difficoltà di famiglie caricatesi, quando gli interessi era raso-terra, di mutui indicizzati oppure, in qualche modo, a tasso variabile. Sembrava stesse per ripetersi un film già visto: quello dei mutui in “ecu” conclusi alla fine degli Anni 80 quando la moneta unica cominciava a profilarsi all’orizzonte ma il differenziale tra i tassi d’interesse dell’Italia e quello di altri Paesi (specie Germania, Benelux, Francia ed Austria) era elevato. Le banche hanno in gran misura già inviato la modulistica agli interessati e la stampa specializzata sta compiendo un’opera, al tempo stesso doverosa e meritoria, di divulgazione.
Non siamo alle prese con un fenomeno analogo alla “crisi subprime”. La natura è differente poiché gli intermediari finanziari italiani (in particolare le banche) utilizzano criteri e parametri molto rodati e molto prudenziali per valutare l’affidabilità e le garanzie (reali e personali) dei mutuatari. Gli effetti, però, hanno alcuni punti in comune: famiglie che hanno contratto un mutuo (pur se indicizzato) pensando che un terzo del loro reddito disponibile dovesse essere impiegato per il pagamento degli interessi e l’ammortamento (ossia il servizio del debito), si sono trovate con un servizio del debito che supera la metà delle loro entrate. Lo scoppio di una crisi non giovava a nessuno: se gli intermediari finanziari avessero fatto valere i loro titoli ed ottenuto la proprietà della casa, il mutuatario sarebbe finito per strada e le banche con un patrimonio immobiliare la cui valorizzazione sarebbe stata in caduta. La rinegoziazione, e la convenzione Abi-Ministero dell’Economia, conviene a tutti.
Detto questo, però, occorre scavare un po’ più a fondo e porsi due domande a cui dare quella risposta professionale (ove non scientifica) che pochi oggi sembrano fornire. In primo luogo, le innovazioni nel campo del credito ipotecario immobiliare sono proprio un Belzebù trita-famiglie (è tesi oggi frequentemente proposta da giornali vicino al centro sinistra)? In secondo luogo, quale è il ruolo che ha l’immobiliare nello stock di ricchezza (non nel flusso di reddito) delle famiglie italiane? Provo a rispondere, invitando lettori e collaboratori di “Libero Mercato” a contribuire ad un dibattito che può essere molto utile per le strategia di ripresa del nostro Paese.
Indicazioni utili per dare una risposta alla prima domanda vengono da due saggi (con tesi contrapposte) apparsi sulla “Oxford Review of Economic Policy” Vol. 24 N. 1 2008 pp:145- 179. Nel primo, si esaminano i mercati immobiliari di Belgio, Regno Unito, Spagna e Svezia per studiare in che misura le aspettative di futuri aumenti delle valorizzazioni abbiano drogato il mercato ed inciso sui prezzi di compravendita delle prime case più di altri parametri come la dinamica demografica e i cambiamenti dei redditi reali. La risposta è “sì” : le aspettative (spesso gonfiate dai media e dagli agenti immobiliari) hanno contribuito al caro-casa. Le innovazioni nel comparto dei mutui (ossia i mutui indicizzazione) non sono, però, da biasimare; hanno vantaggi per gli individui e per la collettività quando le valorizzazioni immobiliari sono alte rispetto ai redditi e tendono ad essere “volatili” , ossia a fluttuare. Il secondo saggio non contraddice questa conclusione ma la qualifica: in un mercato finanziario sempre più integrato, il differenziale dell’innovazione finanziaria nel campo dei mutui (una variabile che dipende sia dalle banche sia dalla regolazione – quindi dalla mano politica), spiega le differenze che la “bolla immobiliare” ha assunto in vari Paesi. I rischi connessi all’innovazione, inoltre, variano seconda della robustezza o meno di un’economia rispetto a shock macro-economici. In parole povere, i due saggi (corredati da un ricco apparato statistico) dicono che i mutui indicizzati non sono Belzebù; anzi, in certe condizioni, possono essere un angelo custode che diventa, però, un diavoletto in Paesi (come l’Italia) poco robusti a fronte di shock macro-economici e con la mano politica pesante.
Ciò ci porta direttamente a tentare di rispondere alla seconda domanda. Un’analisi della Banca d’Italia compara lo stock di ricchezza delle famiglie negli Usa, Regno Unito, Giappone, Francia, Germania, Spagna ed Italia. Le famiglie italiane (nonostante ciò che dicano recenti indagine campionarie) hanno, grazie all’indebitamento relativamente basso, uno stock netto di ricchezza mediamente tra i più bassi tra quelli dei Paesi Ocse a più alto reddito. E’ caratterizzato da una ricchezza finanziaria minore di quella delle famiglie americane, inglesi o giapponesi ma maggiore di quella delle famiglie di qualsiasi altro Paese europeo. Un’analisi del servizio studi della Banca centrale europea scava più a fondo in base all’analisi sui bilanci delle famiglie 1989-2002 (un periodo lungo e precedente la “bolla” immobiliare). Da un lato, la casa in proprietà rappresenta una proporzione importante del loro stock netto di ricchezza, ma le famiglie italiane reagiscono in modo molto simile (in termini di consumi) agli andamenti del mercato mobiliare ed a quelli delle valorizzazioni immobiliari. Ciò le caratterizza rispetto alle famiglie di altri Paesi europei. Un lavoro recente della Banca d’Italia (relativamente specificatamente a questo punto) conferma l’analisi Bce.
Tiriamo le somme. I mutui “indicizzati” non sono un male, ma possono diventarlo in un Paesi poco robusto ed in cui la casa è uno dei cespiti di ricchezza a cui le famiglie danno più valore. Forse maggiore di quello di mercato. Il dibattito è aperto.
PER SAPERNE DI PIU’
Bartiloro L, De Bonis R., Coletta M:"Italian Household Wealth in a Cross-Country Perspective" , Banca d’Italia , 2008
Cannari L., Faiella I House Prices and Housing Wealth in Italy" Banca d’Italia 2008
Grant Ch, Peltonen T Housing and Equity Wealth Effects of Italian Households" ECB Working Paper No. 857
Honohan P. "Discussion of Financial Innovation and European Housing and Mortgage Markets , by David Miles and Vladimir Pillonca" Oxford Review of Economic Policy, Vol. 24, Issue 1, pp. 176-179, 2008
Pillonca V. "Financial Innovation and European Housing and Mortgage Markets" Oxford Review of Economic Policy, Vol. 24, Issue 1, pp. 145-175, 2008

martedì 26 agosto 2008

VIVA LA RAI SE DIVENTA DAVVERO TV DI TUTTI GLI ITALIANI L'Occidentale del 14 agosto

Su “Il Sole-24 Ore” del 7 agosto, il Consigliere d’Amministrazione RAI Sandro Curzi suggerisce che la Rai diventi una public company ad azionariato diffuso come unico rimedio per uscire dall’attuale impasse. Non è una missione impossibile. Anzè è percorso fattibile ed auspicabile che ho suggerito un anno fa su “Il Domenicale” e più recentemente nel “Sesto Rapporto di Società Libera sulla Liberalizzazione della Società Italiana”. Nella quadro attuale di conti in bilico e profonde liti interne a tutti i livelli, si potrebbe pensare che la Rai avrebbe difficoltà a trovare altri acquirenti che non fossero la Croce Rossa, la Comunità di Sant’Egidio, la Caritas o simili (sempre che la avessero a prezzo zero e con mani libere nel rimettere in sesto ciò che resta di un’azienda per decenni in monopolio e desiderosa di tornare ad essere tale)

Una via, tuttavia, c’è.. Occorre utilizzare immaginazione, esperienza e fegato. Il primo passo può sembrare bizzarro: collegare la privatizzazione della Rai alla nascita di una vera previdenza complementare per gli italiani. Il secondo consiste nel renderla una vera public company C’è un precedente importante: il modo in cui sono state realizzate le privatizzazioni ed i fondi pensioni in Bolivia negli Anni Novanta, seguendo i suggerimenti di Steve H. Hanke, Direttore del Centro di Economia Applicata della Università Johns Hopkins di Baltimore e Senior Fellow del Cato Institute.
In pratica, ciò vuol dire dare azioni Rai a tutti gli italiani. Seguendo quale metodo? Uno semplicissimo: l’età anagrafica, quanto più si è anziani tanto più si è pagato il canone (e ci si è sorbiti Santoro, Baudo e quant’altro), avendo, dunque, titolo ad un risarcimento con azioni da impiegare per la tarda età. Le azioni sarebbero vincolate per un lasso di tempo – ad esempio, cinque anni – a non essere poste sul mercato ma ad essere destinate ad un fondo pensione aperto (ed ad ampia portabilità) a scelta dell’interessato il quale, però, manterrebbe tutti i diritti (elezione degli organi di governo, vigilanza sul loro operato, definizione dei loro emolumenti) di un azionista (in base alle azioni di cui è titolare sin dal primo giorno). Gli azionisti deciderebbero se scorporare le reti. Unica regola: applicazione delle stesse norme contabili che si applicano al resto dell’universo delle s.p.a. (con fallimento e liquidazione se i consuntivi vanno da profondo rosso a profondo rosso ed i debiti diventano non sostenibili) Il management dell’intera Rai (o di una rete) che non ci riesce sarebbe passabile di azione di responsabilità e, ai sensi della normativa societaria in vigore, se l’indebitamento supera certi parametri la liquidazione diventerebbe obbligatoria.
Ed il “servizio pubblico”? Nell’età della rete delle reti, ci bada Internet: già adesso tutti i dicasteri, le Regioni, le Province, i Comuni, le Comunità Montane dispongono di siti interattivi. I siti di informazione e contro-informazione pullulano – tanto generalisti quanto specializzati. Non siamo più ai tempi dell’Eiar , anche se il Partito Rai vorrebbe tornare al passato, come la protagonista del film “Good bye, Lenin”.
E la cultura? In primo luogo, pensiamo che gli italiani siano meno imbecilli di chi compila gli attuali palinsesti: una Rai che risponde al popolo azionista proporrà più cultura dell’attuale (come dimostrano gli abbonamenti a canali culturali digitali). In secondo, si potrebbe prevedere agevolazioni tributarie per gli sponsor.

TRE ALLEANZE E UN’ANTITRUST, L'Occidentale 18 agosto

Nel tormentone Alitalia, parafrasando la pucciniana “Turandot” (“Gli enigmi sono tre, la morte è una”), si potrebbe dire : le alleanze sono tre, l’antitrust è una. Ed il futuro di Alitalia dipende, in gran misura, da quello che deciderà l’antitrust. Non l’authority nostrana oppure quella europea ma quella Usa in materia di trasporti aerei a cui si sono rivolte la American Airlines, la British Airways e la Iberia per avere una deroga (od un’interpretazione “in deroga”) ai regolamenti in vigore. American Airlines, British Airways e Iberia fanno parte dell’alleanza Oneworld ed hanno appena firmato un patto per rotte comuni attraverso l’atlantico (e nel resto del mondo) che darebbe loro una posizione dominante (in termini di slots) in numerosi aeroporti (Heathrow soprattutto). Non è la prima volta che Oneworld chiede la deroga: ha tentato nel 1999 e nel 2002, con esiti negativi (nonostante che gli accordi per rotte comuni di allora fossero molto meno cogenti di quello appena concluso). Virgin Atlantic Airways ha già rivolto un contro-appello all’antitrust, argomentando che Oneworld avrebbe il 65% della capacità passeggeri tra Heathrow e New York (ed ancora di più tra Heathrow e Boston, Miami, Chicago e Los Angeles); quindi, potrebbe fare il bello ed il cattivo tempo nei cieli attraverso l’Atlanfico:
Silenzio, per ora, dalle altre due alleanze: Skyteam (guidata da AirFrance-Klm e Delta Airlines – e di cui fa parte Alitalia) e Star (guidata da United Airlines e Lufthansa- e di cui fa parte AirOne). Anzi, la richiesta (di deroga) da parte di Oneworld afferma specificatamente che Skyteam all’aeroporto parigini Charles de Gaulle e a quello Amsterdam e Star a quello di Francoforte hanno una posizione dominante ancora più forte di quella che l’alleanza avrebbe a Heathrow. Non solo ma – pare quasi di leggere il recente libro “Cartello a perdere” curato da Alberto Mingardi - la richiesta implica che, senza la posizione dominante a Heathrow, l’alleanza rischierebbe di andare in perdita (anche a ragione dell’aumento dei costi e della diminuzione dei passeggeri).
Cosa c’entra tutto ciò con le vicende della nostra Alitalia che perde oltre un milione di euro al giorno, il cui piano industriale, possibili ricapitalizzazioni ed intese finanziarie ed industriali sono al vaglio di Intesa- SanPaolo ed in cui CdA si riunirà il 29 agosto per deliberare su come uscire da quello che sembra un cul-de-sac senza uscita?
C’entra molto. In primo luogo, un’eventuale deroga dell’antitrust Usa a favore di Oneworld, renderebbe più malleabili gli antitrust Ue e dell’Italia nei confronti delle tratte Roma-Catania e Roma-Milano. Un’eventuale deroga a favore di Oneworld, però, renderebbe più difficile uno dei tasselli su cui pare stia lavorando Intesa-SanPaolo: la fusione o incorporazione di AirOne in Alitalia. Non solo a ragione della situazione finanziaria ed industriale di AirOne (su cui, dopo tante voci e tante inchieste giornalistiche, unicamente l’azienda può fare chiarezza , mostrando a tutti i risultati finanziari ed operativi per il 2007), ma anche in quanto nei cieli europei ed atlantici si delineano tre alleanze contrapposte:Oneworld, Skyteam e Star. Per Alitalia ed Airone è difficile stare simultaneamente in due delle tre. AirOne potrebbe facilmente sganciarsi da Star ed entrare in Skyteam, ma – dato che è estremamente improbabile la ripresa del dialogo tra Alitalia e AirFrance-Klm mentre Lufthansa e Alitalia appaiono adesso come alleati “naturali” (per utilizzare il lessico della diplomazia)- la soluzione logica sarebbe l’uscita di Alitalia da Skyteam ed il suo ingresso in Star con in prospettiva un’intesa con Lufhansa. Ma a Colonia, sede della Lufthansa –si dice – AirOne non è particolarmente amata.

E’ SULL’INDICIZZAZIONE DELLE PENSIONI CHE SI GIOCA IL FUTURO DELLA PREVIDENZA, L'Occidentale 19 agosto

Dal 1993 ad oggi, la bolletta della previdenza pubblica è costata all’erario circa 80 miliardi di euro di meno di quanto sarebbe pesata se le pensioni fossero state indicizzate non in base all’indice dei prezzi al consumo per le famiglie degli operai e degli impiegati ma in base all’andamento dei salari (come avveniva in base alla normativa del 1969, riformata dal Governo Amato sulla scia del tracollo dei conti con l’estero e dell’uscita della lira dagli accordi dei cambi europei, con immediata svalutazione). La revisione dell’indicizzazione è stata sino ad ora la voce più importante di risparmio previdenziale effettuata dallo Stato; i risparmi relativi al meccanismo di definizione delle spettanze (da “retributivo” a “contributivo figurativo) si cominceranno ad avvertire dal 2013 o giù di lì e saranno sensibili dal 2030 in poi.
Se l’erario ha risparmiato, i pensionati ci hanno rimesso. Il calcolo è presto fatto se la produttività multifattoriale (ossia dell’insieme dei fattori di produzione) aumenta dell’1% l’anno e tale incremento si rispecchia nell’andamento salariale, i pensionati non ricevono un’indicizzazione che copre tale incremento (a cui hanno pur contribuito, in varia misura, con il loro lavoro durante la loro vita attiva): Nell’arco di dieci anni, perdono circa il 12% (l’interesse è composto). Ove si tornasse ad aumenti di produttività del 3% (come negli Anni 60 e 70), in dieci anni le loro pensioni sarebbero oltre un terzo inferiori rispetto ai livelli che avrebbero con un’indicizzazione che catturasse gli aumenti di produttività del sistema. Paradossalmente, i bassi aumenti di produttività del sistema Italia degli ultimi tre lustri hanno salvaguardato i pensionati. Naturalmente dato che l’utilità marginale del reddito è inversamente proporzionale al livello di reddito (chi è nella fasce alte utilizza eventuale reddito addizionale per serate in allegria “di donnine e champagne in compagnia”, come Danilo Dalivich de “La Vedova Allegra”; chi è in quelle basse ci si risuola le scarpe e si compra una bistecca), coloro che sono andati in pensione in più giovane età ed hanno le pensioni più basse sono quelli su cui morde di più il sistema di indicizzazione introdotto dalla riforma Amato del 1993. Non è una novità. Lo hanno sottolineato, da sempre, tutti gli esperti. Nel 2001 la “Guida alla riforma delle pensioni” pubblicata dalla Fondazione Ideazione considerava il nodo delle indicizzazioni come uno dei primi da affrontare nella Legislatura che stava per iniziare.
Alla vigilia di Ferragosto, il Ministro del Lavoro, della Previdenza, della Salute e delle Politiche Sociali, Maurizio Sacconi ha suggerito la possibilità che si utilizzi un paniere differente (più prossimo alla spesa effettiva di chi è a basso reddito) come soluzione al problema. E’ un approccio prammatico.
Ci si deve però chiedere se sia fattibile e se possa dare gli esiti sperati senza una revisione complessiva di altri aspetti del sistema. Da un lato, dinamiche di lungo periodo inducono ad un aggiornamento del sistema contributivo ed ad una revisione dei “coefficienti di trasformazione” (i parametri in base ai quali il montante dei contributi versati viene “trasformato” in trattamenti previdenziali annuali): su questo punto concorda anche gran parte dell’opposizione (come dimostra il lavoro Arel “Flessibilità e sicurezza” appena pubblicato a cura di Salvatore Pirrone) . Da un altro, l’età mediana degli elettori (ossia quella attorno alla quale si addensa il numero più alto di votanti) è 46 anni e sta aumentando (raggiungerà i 55 anni nel 2040); è un’età in cui già si cominciano a contare gli anni che separano dalla pensione ed il peso dell’assegno mensile (e si resiste a cambiamenti in peius).
A mio avviso, per ragioni di equità (e per evitare trabocchetti come le “pensioni di annata”) non c’è molto tempo disponibile per rivedere sia i “coefficienti di trasformazione” sia il meccanismo d’indicizzazione. I “coefficienti” devono essere tali da indurre a restare nel mercato del lavoro almeno sino a 67 anni di età (l’età a cui si comincia a percepire la pensione in gran parte dei Paesi che , come l’Italia, hanno preso la strada del sistema “contributivo figurativo) – con la prospettiva di portarla a 70 anni man mano che l’aspettativa di vita si allunga. L’indicizzazione deve essere articolata per fasce di età e di reddito. In primo luogo, occorre pensare ad un’indicizzazione più alta dopo i 75 anni di età quando c’è verosimilmente maggiore esigenza di cure ed assistenza. Occorre anche pensare ad un’indicizzazione per le fasce di reddito (o consumo) più basso proprio a ragione di differenze di utilità marginali ben note a chi da decenni utilizza strumenti quantitativi per analizzare i costi ed i benefici sociali delle politiche pubbliche.

Sull’indicizzazione delle pensioni si gioca il futuro della previdenza. E’ auspicabile che collaboratori e lettori de L’Occidentale intervengano con idee e suggerimenti.

IL FEDERALISMO FISCALE PER FUNZIONARE HA BISOGNO DI QUELLO GIUDIZIARIO, L'Occidentale 22 agosto

Si può pensare ad un federalismo fiscale senza predisporre, in parallelo, un federalismo giudiziario? Il tema è stato sollevato, in tempi non sospetti, da uno scienziato della politica tra i più noti in Italia ed all’estero – Giovanni Sartori -, il quale non gode certo di simpatie né per l’attuale Presidente del Consiglio né per la coalizione che ha vinto le elezioni della scorsa primavera. Lo sollevò quando nell’ultimo scorcio della XIII Legislatura, il centrosinistra, allora guidato da Giuliano Amato, approvò il nuovo Titolo V della Costituzione che conferiva vasti poteri alle Regioni in materie concorrenti con lo Stato Centrale. Le numerose leggi regionali (1200 unicamente nel campo dell’assistenza sociale nell’arco di un solo anno solare) – argomenta Sartori – avranno certamente esigenza di magistrati specializzati nella loro interpretazione , al fine di dirimere vertenze. Nel corso della XIV Legislatura, ho fatto parte di una Commissione – presieduta dal Prof. Sabino Cassese – per riorganizzare il Ministero delle Attività Produttive, le cui competenze erano state, in gran misura, spolpate a ragione del nuovo Titolo V della Costituzione. Parve a noi tutti necessario non tanto dare un nuovo organigramma al dicastero quanto congetturare su come sarebbe stata interpretata la normativa specialmente in materia industriale (in gran misura diventata di competenza delle Regioni).
Non sta a me esprime un giudizio di merito sulla “bozza Calderoli” sul federalismo tributario pubblicata in questi giorni da alcuni quotidiani. E’ compito di specialisti di diritto tributario. Tuttavia, una lettura attenta mostra ancora una volta l’esigenza (in numerosissime materie) di una magistratura specializzata e che abbia come riferimento le Regioni ed i propri organi. In caso contrario, c’è la probabilità che la magistrature centralizzata non avendo gli strumenti per interpretare le norme regionali rallenti ulteriormente il tutto e porti la crescita dell’Italia da rasoterra e sottoterra.
Il federalismo giudiziario – ha scritto in molti dei suoi 40 libri uno dei più noti giuristi mondiali Richard Posner – è l’antidoto alla lentocrazia giudiziaria ed alla malagiustizia in quanto i pubblici ministeri ed i giudici non sono solamente seperati in termini di accesso alla professione e di carriera ma sono sottoposti al controllo sociale, sempre più forte e sempre più rigoroso in una società attiva (come sta diventando la nostra).Ciò non evitare errori giudiziari ma li limita con lo stigma sociale nei confronti di chi li commette (oltre che come avviene in alcuni Stati dell’Unione con la radiazione sia dalla magistratura sia dai pubblici uffici). E’ stato anche un elemento dello sviluppo economico degli Usa.
Si potrebbe pensare ad un’organizzazione giudiziaria di primo grado a livello regionale, ad un secondo grado a livello interregionale (come i “precints” Usa), mantenendo la Cassazione a livello centrale. Ed il CSM? Da sempre parte delle sue funzioni non si applicano nella Regione Siciliana che ha un proprio Consiglio di Giustizia Amministrativa. La soluzione logica sarebbe avere dei mini-CSM regionali con un organo centrale di tre-cinque componenti.

TRA ALITALIA E LUFTHANSA SI PROFILA UN MATRIMONIO D’INTERESSI, L'Occidentale 25 agosto

La geografia dell’aeronautica civile in Europa ed attraverso l’Atlantico si è, al tempo stesso, semplificata e complicata venerdì 22 agosto quando è giunta la notizia (poco notata in molte redazioni italiane) che AirFrance-Klm ha commissionato alla banca d’affari Lazard una “due diligence” su Austrian Airlines, compagnia di bandiera austriaca in procinto di essere privatizzata “al 100%”, ossia interamente, secondo le fonti ufficiali.
La mossa semplifica il quadro in quanto indica che AirFrance-Klm vuole restare il maggior vettore europeo anche dopo la fusione tra British Airways e Iberia (accompagnata da un patto per le rotte atlantiche con American Airlines). La “due diligence” è, infatti, un preliminare ad un’offerta all’asta che il Governo austriaco intende lanciare per vendere Austrian Airlines al miglior offerente – procedura (si fa notare a Vienna) più chiara, più lineare, più trasparente, più efficiente e più produttiva di quella adottata dal Governo Prodi nel dicembre 2006 per trovare chi si prendesse i resti di Alitalia).
Lo complica, però, per varie ragioni:
1. AirFrance-Klm hanno appena attuato un severo programma di riduzione delle rotte per far fronte al rincaro dei costi.
2. Tanto gli aeroporti di Parigi quanto quello di Amsterdam prevedono crescita zero del traffico tanto nel 2008 quanto nel 2009.
3. La compagnia austriaca porta in dote un forte stock di debito, conti probabilmente in perdita nell’esercizio in corso, ma pure una flotta relativamente giovane ed una rete specializzata sulle destinazioni oggi secondarie (ma potenzialmente importanti) dell’Europa Centrale e del Medio Oriente. Tale rete è, per di più, complementare a quella di AirFrance-Klm, consentendo, quindi, sinergie.
4. Last but not least, come più volte indicato da L’Occidentale, Lufthansa ha da tempo messo gli occhi sulla compagnia aerea austriaca per riequilibrare il mercato europeo ed atlantico a poco favore.
Ove queste complicazioni non fossero sufficienti , c’è la nuova “intesa cordiale”tra Parigi e Roma perché alle prossime scadenze europee (la più immediata è l’Ecofin in calendario 12 ed il 13 settembre a Nizza) spingano il resto dell’Eurogruppo ad una strategia coordinata per un’interpretazione benevola del patto di crescita e di stabilità e per maggiori finanziamenti Ue alle infrastrutture a fronte dei crescenti timori di una recessione nell’area dell’euro. Nel quadro di questa “intesa cordiale” si parla di un nuovo fidanzamento AirFrance-Klm con Alitalia che il livello politico francese starebbe suggerendo, con argomenti a cui è difficile dire di “no”, al livello manageriale della compagnia. Il livello politico è ancora l’azionista di riferimento di AirFrance-Klm. E’ in tale contesto che a Parigi si sottolinea come la richiesta di “due diligence” potrebbe essere una mossa diversiva di Jean-Cyril Spinetta, “patron” di AirFrance-Klm, per potere dire elegantemente “no” a pressioni per un nuovo fidanzamento con Alitalia (visto che il primo non è finito particolarmente bene).
Ipotesi concreta o pura congettura? Propendo nel pensare che, quali che siano le pressioni su Spinetta, l’interesse per la compagnia austriaca è principalmente industriale: la flotta giovane e gli slots in Europa Centrale e Medio Oriente rappresentano carte importanti nei confronti del principale concorrente europeo, Lufthansa.
A questo punto occorre rivolgersi a Von-Gablenz-Strasse 2-6 50679 Cologne 21, sede centrale della Lufthansa. In un uggioso fine settimana estivo, non si mostrano lieti della possibilità di perdere la preda austriaca che consideravano già nelle loro mani. Anche in quanto ciò implicherebbe un fidanzamento coatto (di interessi non certo d’amore) con Alitalia. A Von-Gablenz-Strasse dicono i maligni non piacerebbe finire sotto le stesse lenzuola con AirOne – suvvia, siamo tedeschi ed a certe cose teniamo anche a letto! - . I maligni sovente sono bene informati. La patata bollente, quindi, torna alla Magliana; se per salvare Alitalia è essenziale un partner internazionale, se AirFrance-Klm rotto un fidanzamento non ne vuole fare un altro, se Lufthansa (pur di non restare casta ma zitella) è disposta alle nozze con l’intrapresa italiana (purché non ci siano terzi incomodi bi-partisan, multi-partisan, poli-partisan), la scelta è tra un’alleanza alla matricina ed una teutonica. Per valutarne i rispettivi costi e benefici occorrerebbe vedere le carte. E’ auspicabile che il CdA Alitalia (convocato per il 29 agosto) cominci a farlo.
Non è mai troppo tardi – lo diceva anche la televisione di Ettore Bernabei.

SPESA SOCIALE AI COMUNI E TANTE PRIVATIZZAZIONI, Il Tempo del 25 agosto

La fine di agosto è il periodo in cui i principali Paesi dell’Ue e dell’area dell’euro predispongono le rispettive leggi di bilancio. Dei grandi Paesi dell’Ue solo la Gran Bretagna ha un calendario differente – il “budget” viene presentato in primavera. L’Ecofin di settembre è l’occasione consueta per scambiare idee sulle manovre in atto. Le leggi finanziarie in preparazione di maggior rilievo per l’Italia) sono quelle di Germania, Francia e Spagna.
Il 2008 è un anno anomalo. Prima delle vacanze estive, in Italia il Parlamento ha convertito in legge un decreto che specifica obiettivi e misure di finanza pubblica per i tre esercizi finanziari che iniziano il 1 gennaio 2009. La finanziaria italiana, quindi, sarà essenzialmente un ulteriore specificazione di quanto già approvato anche perché la manovra deliberata ipotizzava il rallentamento dell’economia in corso. Anche in Spagna, si sono accorciati i tempi con la riunione straordinaria del Consiglio dei Ministri che, il 16 agosto, ha definito una manovra anti-ciclica di 20 miliardi di euro, da attuarsi in gran misura tramite l’Ico (l’istituto pubblico di credito), e mirata essenzialmente a sostenere la domanda. Gli altri grandi Paesi dell’area dell’euro (Francia, Germania ed Italia) non sono in condizione di seguire la Spagna (e realizzare una manovra reflattiva coordinata) a ragione dei loro disavanzi di finanza pubblica, al limite di quanto previsto nei programmi di rientro definiti con le autorità europee.
E’ proprio dalla Francia e dalla Germania, però, che vengono alcune idee e proposte che possono essere utili nell’affinare la strategia dell’Italia (senza modificare i parametri del programma triennale approvato poche settimane fa dal Parlamento). In Francia, in particolare, le ristrettezze di finanza pubblica stanno inducendo ad una svolta silenziosa ma che, se si realizza a pieno nella “loi des finances” da presentare a fine settembre all’Assemblea Nazionale, potrebbe essere epocale. In breve, in un Paese tradizionalmente molto centralizzato, una parte crescente della spese in materia di solidarietà sociale (e di gettito fiscale) verrebbe affidato direttamente agli enti locali (Regioni, grandi Comuni) nella convinzione che il controllo sociale dal basso ne migliorerebbe efficienza e qualità. In altri termini, una forma di federalismo fiscale.
In Germania, invece, spostata gradualmente a 67 anni l’età per poter fruire delle pensioni, la grande partita è quella della privatizzazione di una delle maggiori attività di mercato ancora di proprietà federale: le ferrovie. Binari e stazioni resteranno di proprietà e controllo federale, ma il materiale rotabile e la gestione vengono messi sul mercato non soltanto per fare cassa ma con l’intenzione di rendere un migliore servizio.
Mentre il federalismo fiscale ha alta priorità nella politica di finanza pubblica italiana, di privatizzazione si parla molto poco. Dalla Repubblica Federale potrebbe venire uno stimolo a parlarne (e farne) di più.

UNA SCOMMESSA SULLE PENSIONI CHE PUO’ AIUTARE L’ECONOMIA, Il Tempo del 21 agosto

Approvato il programma triennale di finanza pubblica, alla ripresa settembrina, Governo e parti sociali troveranno sulla loro scrivania un “dossier” diventato ancora una volta molto caldo: le pensioni. Da un lato, dinamiche di lungo periodo (specialmente l’invecchiamento) inducono ad un aggiornamento del sistema contributivo ed ad una revisione (al ribasso) dei “coefficienti di trasformazione” (i parametri in base ai quali il montante dei contributi versati viene “trasformato” in trattamenti previdenziali annuali): su questo punto concorda anche gran parte dell’opposizione (come dimostra il lavoro Arel “Flessibilità e sicurezza” appena pubblicato a cura di Salvatore Pirrone) . Da un altro, l’età mediana degli elettori (ossia quella attorno alla quale si addensa il numero più alto di votanti) è 46 anni e sta aumentando (raggiungerà i 55 anni nel 2040); è un’età in cui già si cominciano a contare gli anni della pensione ed il peso dell’assegno mensile. Da un altro ancora, l’incidenza della previdenza pubblica sul pil sta viaggiando verso il 15% del pil – ci superano, tra i Paesi Ocse solamente Grecia e Francia).In aggiunta, la stagnazione economica e la ripresa dell’inflazione stanno falcidiando i trattamenti dei pensionati nelle fasce più basse di reddito; in Germania è nato un partito dei pensionati, le cui fila si stanno ingrossando rapidamente, anche se il peso effettivo potrà essere valutato solamente alle elezioni in programma in autunno. Infine, le modifiche di calcolo per l’indicizzazione introdotte dal Governo Amato nel 1993 hanno fatto sì che le pensioni delle fasce più basse siano al di sotto della sussistenza; una proposta è stata delineata dal Ministro Sacconi a questo riguardo.
Gary Burtless del Centro di Analisi sulle Pensioni della Brookings Institution nota (nel CCR Working Paper 2008-6) che in tutti i Paesi industriali , mentre nel mezzo secolo successivo al termine della seconda guerra mondiale è diminuita gradualmente la partecipazione al mercato del lavoro (ed all’occupazione) degli ultra-60nni, adesso ha ripreso ad aumentare. Nei 21 Paesi analizzati, nel primo lustro del XXI secolo, il tasso di partecipazione di coloro tra i 60 ed i 64 anni ha recuperato un quarto di quanto perso nei 50 anni precedenti.
Ciò fornisce un’indicazione preziosa: incoraggiare le politiche per l’invecchiamento attivo, parte integrante sia del “Libro Verde” del 25 luglio del Ministero del Lavoro, della Salute e delle Politiche Sociali sia dello studio Arel citato in precedenza. E’ un terreno, dunque, sul quale si può trovare una larga intesa tra maggioranza e le componenti effettivamente riformiste dell’opposizione.
Il dilemma delle pensioni, dunque, può diventare un’opportunità di grande rilievo. Che può estendersi ad altri campi e settori e diventare la leva per un’efficace strategie di riassetto dell’economia e della società italiana.

TOCCATO IL FONDO, ED ORA SI RISALE LA CHINA, Il Tempo del 18 agosto

Come preannunciato da Il Tempo dell’11 agosto, per la prima volta dall’introduzione della moneta unica, l’area dell’euro è entrata in recessione. Gran parte della stampa ha dato risalto al Bollettino Bce: una contrazione dell’attività economica dello 0,2% nel secondo semestre rispetto all’incremento dello 0,7% nel primo. Pochi hanno messo l’accento sul fatto che i quattro maggiori Paesi dell’area- Francia, Germania, Italia, Spagna – stanno simultaneamente perdendo colpi. Solo l’Austria ed il Portogallo segnano un tasso di crescita (+ 0,4%). Per far fronte alla situazione, il Presidente del Consiglio spagnolo è rientrato dalla vacanze (il Cancelliere tedesco non è in pratica mai partito) ed il Capo dello Stato Presidente francese ha convocato , per il 18 agosto, un Consiglio dei Ministri straordinario. L’area dell’euro è alle prese non solo con lo spettro della recessione ma anche con quello dell’inflazione: i prezzi aumentano ad un tasso del 4% (il doppio dell’obiettivo della Bce). La crescita dei prezzi è specialmente sostenuta nei comparti dei trasporti (7,2%) e dell’alimentazione ed alloggi (6,7%), mentre, per ragioni tecnologiche, c’è un calo (- 2,2%) in quello delle comunicazioni e, a causa della flessione della domanda, una contrazione anche in quello dell’abbigliamento (-0,5). I due spettri, insieme, hanno la sagoma del fantasma della stagflazione – una brutta bestia poiché tanto la teoria quanto l’esperienza del passato ci dicono che i tradizionali rimedi della politica macro-economica (ossia gli strumenti della moneta e del bilancio) rischiano di aggravare il male invece di lenirlo.
Su Il Tempo dell’11 agosto abbiamo indicato alcuni rimedi possibili. I dati degli ultimi giorni consentono di precisarli. Il Bollettino Bce prevede una caduta di breve durata; per l’intero 2008, l’aumento del pil dell’area dovrebbe essere attorno all’1,7%. Leggermente meno ottimisti la Survey mensile of Professional Forecasters (principalmente europei) ed il sondaggio settimanale dell’Economist tra 20 istituti privati di previsione: 1,3%-1,2% . Nelle varie stime, l’Italia resta fanalino di coda – un aumento del pil dello 0,4% nel 2008 e dello 0,9% nel 2009- in quanto oltre al ciclo internazionale si deve assorbire il forte aumento della pressione fiscale attuato nei due anni del Governo Prodi. Complessivamente, però, la ripesa è all’orizzonte, anche se debole. Lo confermano i dati trimestrali delle maggiori banche internazionale ed il rilancio di Opa transnazionali e transcontinentali. Sul fronte dei prezzi, poi, petrolio e materie paiono avere messo la retromarcia ed il rapporto di cambio euro-dollaro Usa sembra in fase di riequilibrio. C’è, quindi, spazio per crediti d’imposta per certe categorie di redditi da lavoro e per un maggiore accento sulla contrattazione integrativa decentrata al fine di dare uno stimolo alla domanda interna (e migliorare i tenori di vita delle famiglie a reddito basso).

IL MERCATO DEL LAVORO NELL’EUROPA DELLA MONETA UNICA, Formiche Luglio-Agosto

Nel numero precedente di “Formiche” abbiamo dedicato questa rubrica al decennale dell’euro ed abbiamo posto alcuni interrogativi sia sulle compatibilità delle politiche mirate all’integrazione monetaria con la crescita reale sia sugli squilibri finanziari internazionali in atto. E’ utile, quindi, rivolgersi ad un altro aspetto,sotto molti angoli speculare all’unione monetaria: in che misura si stanno integrando i mercati del lavoro europei. E’ argomento da qualche anno non più alla ribalta pure poiché pare essersi allontano lo spettro della disoccupazione di massa che si aggirava per l’Europa nella seconda metà degli Anni Novanta: secondo gli ultimi dati comparativi Eurostat, il tasso di coloro che cercano lavoro senza trovarlo è, nell’area dell’euro, pari al 7,1% della forza lavoro (ed in Italia pari al 6%). Le stime si riferiscono allo scorso aprile: Indicazioni preliminari suggeriscono che c’è stato un aumento negli ultimi mesi. Un giudizio di merito si potrà dare soltanto al termine dell’estate (in base alle indagini sulle forze lavoro di giugno), ma si è, in ogni caso, lontani dalla minaccia di tassi di disoccupazione a due cifre incombente circa dieci anni fa.
Un’analisi condotta congiuntamente da università britanniche, spagnole e svedesi in base di dati empirici di sette Paesi dell’Ue conclude che stanno emergendo quattro modelli distinti (quindi poco integrati) la cui variabile significativa non è (come si riteneva negli Anni Novanta) il grado d’intervento pubblico nella regolazione del mercato del lavoro ma il valore che si dà al “tempo” disponibile per la famiglia ed alle pertinenti politiche economiche e sociali. Le differenziazioni più marcate riguardano il genere. Nei Paesi nordici, viene dato lo stesso valore al tempo degli uomini e delle donne; lo “universal breadwinner model” che ne risulta comporta alta partecipazione tanto di uomini quanto di donne nel mercato del lavoro, ampia diffusione del tempo parziale e di altre forme di flessibilità e tassi di occupazione elevati per ambedue i generi nel corso della loro vita attiva. Un modello differente è quello francese (viene chiamato il “modified breadwinner model”) dove le donne o lasciano il mercato del lavoro per dedicarsi alla famiglia ( e tentano a volte di rientrarvi più tardi con vario grado di successo) o restano in rapporti di lavoro a tempo pieno per tutta la loro vita professionale. Ancora più marcata la differenziazione nei Paesi mediterranei (i due studiati sono Italia e Spagna); vi prevale un modello “aut aut”- “esci” o “resta a tempo pieno”, in cui la partecipazione femminile al mercato del lavoro è relativamente bassa ma le donne che trovano un’occupazione la mantengono a tempo pieno. Il quarto modello esaminato è quello del “maternal part-time work” prevenante in Germania, in Gran Bretagna e nei Paesi Bassi; la maternità è associata ad una riduzione della partecipazione nella forza lavoro meno marcata che in Francia e nei Paesi mediterranei , ma anche ad una forte diffusione del lavoro a tempo parziale in cui le donne restano anche quando i figli sono grandi. L’analisi conclude che il modello nordico è quello che produce la meno pronunciata differenza di genere nell’allocazione del tempo all’occupazione ed il miglior invecchiamento “attivo” dei lavoratori anziani. E’ il frutto di politiche coerenti di gestione del tempo e del reddito non di misure frammentarie ed a macchia di leopardo che caratterizzano gli altri modelli.
A conclusioni analoghe giunge uno studio dell’Università di Bologna, pubblicato però non da un centro di ricerche italiano ma dall’istituto federale tedesco di analisi del mercato del lavoro. L’analisi riguarda l’Ue a 25 (ossia prima dell’adesione di Bulgaria e Romania) nel periodo 2000-2005. E’ basata su indicatori quantitativi di “generosità delle politiche del lavoro” (in parole povere, spesa per politiche del lavoro in rapporto al pil) , di esiti occupazionali e di efficienza delle istituzioni del settore. I risultati indicano che alti tassi d’occupazione sono, di norma, associati a forte spese in politiche del lavoro (specialmente in politiche attive del lavoro) e bassa rigidità nella regolazione e del mercato del lavoro e di quello di beni e servizi.
Negli ultimi mesi, si è parlato molto di “flexicurity” – ossia di mercati del lavoro che coniugano flessibilità con forti ammortizzatori sociali. Se ne parlerà molto di più alla ripresa autunnale. La prima delle analisi di cui si sono riassunti i punti essenziali suggeriscono, però, che occorre spostare il tiro. Il nodo non è tanto quanto si è disposti a spendere in termini d’ammortizzatori ma il valore relativo che viene dato al tempo delle donne da dedicare alla famiglia rispetto a quello da allocare al lavoro. E’ una dimensione non tanto economica quanto socio-culturale. Più difficile da trattare di quanto non sia la creazione ed il funzionamento di un’unione monetaria.

Per saperne di più

Anxo Dominique , Fagan Collette, Cebrian Immaculada, Moreno Gloria "Patterns of Labour Market Integration in Europe: A Life Course Perspective on Time Policies"Socio-Economic Review, Vol. 5, 2007
Rovelli Riccardo, Bruno Randolph Luca "Labor Market Policies, Institutions and Employment Rates in the EU-27" IZA Discussion Paper No. 3502
Whiltagen Ton "Flexicurity: A New Paradigm for Labour Market Policy Reform?" Social Science Research Center Berlin Discussion Paper No. FS I 98-202

BRETTON WOODS MORI’ 35 ANNI FA MEGLIO NON RISUSCITARLA Libero 15 agosto

Il 15 agosto 1971 , gli Usa mandarono in pensione il meccanismo di cambi gestiti collegialmente noto come “sistema di Bretton Woods”. La notizia prese il mondo di sorpresa. Allora vivevo negli Usa, giovane funzionario della Banca Mondiale, ed ero in vacanza, con mia moglie e la nostra bambina di pochi mesi, in un albergo chiamato lo “Sky Chalet” nel Blue Ridge, la catena di montagne appalachiane che dal Delaweare arriva alle Carolines. La notizia ci colpì tutti: una breve e secca conferenza televisiva in cui la Casa Bianca annunciava che il tasso fisso di conversione del dollaro in oro era sospeso, i cambi avrebbero fluttuato liberamente ed un’addizionale del 10% veniva posta a ciascun dazio della tariffa doganale Usa. In Europa non venne compresa l’importanza di quanto stava accadendo: collaboravo a “Il Sole-24 Ore”, telefonai a Milano per chiedere se volevano un servizio e mi venne risposto che avrebbero preso la notizia dall’Ansa poiché la dettatura di un articolo avrebbe comportato una telefonata lunga e costosa.
Si tratterebbe di un mero “amarcord” ferragostano se un libro di successo ( Paul H. Dembinski, Università di Friburgo,”Finance servante ou finance trompeuse?” Desclée de Brouwer, Parigi) non additasse nella decisione di Richard Nixon la causa principale del marasma finanziario di questi anno, ivi compresa la crisi dei Cdo subprime). Dembinski propone una nuova versione dei meccanismi che sono stati in vigore tra il 1946 ed il 1971; la si attuerebbe ponendo un’imposizione internazionale (per finanziare il Fondo monetario o qualche istituzione ad esso analoga) sui movimenti di capitale a breve (ossia una riedizione di quella Tobin Tax, ripudiata una diecina di anni fa dal Premio Nobel James Tobin in persona).
Non credo sia il caso di fare polemiche o scenari controfattuali su “cosa sarebbe invece accaduto se…..”. A parere mio, e non solo mio, il sistema di Bretton Woods era morto da anni. La Casa Bianca ed il Tesoro Usa si comportarono da bravi becchini per dare onorevole sepoltura al meccanismo defunto. Vale,però, la pena tornare sull’argomento adesso in quanto da molte parti (in particolare dall’Eliseo, con toni che a volte vengono riecheggiati da Palazzo Chigi) si parla di una nuova Bretton Woods per tornare a cambi gestiti collegialmente. Pure la Tobin Tax fa ogni tanto capolino come spauracchio da agitare nei confronti dei “mercatisti”. E’ tutto ciò auspicabile? E’ fattibile?
Una prima risposta (che potrebbe sembrare eretica visto da dove proviene) la fornisce il servizio studi della Banca centrale europea, Bce, nell’EBC Working Paper n. 911 (ne sono autori Thierry Bracke e Michael Fidora) messo in rete proprio nei giorni precedenti questo Ferragosto 2008. I bassi premi di rischio e l’ampliamento degli squilibri delle bilance dei pagamenti che caratterizzano l’economia mondiale dalla fine degli Anni 90 – dimostra lo studio con un’accurata analisi econometrica – sono il frutto di abbondanza di liquidità (“liquidity glut”) all’origine sia degli squilibri finanziari e reali della posizione esterna degli Usa sia di un “saving glut” (eccesso di risparmi) che sta caratterizzando le economie asiatiche. Lo conferma, paradossalmente, un’analisi (rigorosamente keynesiana) di Jőrg Bibow del Bard College (Levy Economic Institute Working Paper N. 531). Il paradosso è che il mondo in via di sviluppo persegue da anni politiche di avanzo delle partite correnti delle bilance dei pagamenti destinate principalmente alla volta degli Stati Uniti. Questo quadro si contrappone nettamente a quello nel cui ambito venne creato il sistema di Bretton Woods: “dollar shortage” (ossia carenza di valute ritenute robuste), vincoli ai movimenti di capitale ed anche ai pagamenti, priorità alla liberalizzazione dei commerci (ritenuta possibile soltanto in sintonia con una graduale rimozione delle barriere valutarie).
Un’ipotesi interessante è tracciata in un lavoro di economisti del servizio studio della Deutsche Bank, di Brown University e della Università di California a Santa Cruz (Nber Working Paper N. W 13978). Saremo già in un sistema di Bretton Woods n. 2 (molto differente però da quello auspicato da Dembisnki). In tale sistema (in cui il resto del mondo finanzia la bilancia dei pagamenti Usa), tutti sarebbero felici e contenti poiché i Paesi ad alto reddito fruirebbero di tassi d’interesse bassi e i Paesi emergenti d’opportunità di crescita. Il costo di un arresto del flusso di capitale netto verso gli Usa sarebbe elevato. Per tutti. Una Tobin Tax (ammesso che sia tecnicamente fattibile escogitarla ed applicarla) potrebbe innescarlo (facendo più danni che altro) . Ma il rischio è contenuto perché tutti hanno interesse a mantenere un sistema che fornisce bassi tassi d’interesse reali (rispetto al passato) e potenziale di crescita.
Quindi, meglio non fare nulla? Non proprio. C’è una gamma di miglioramenti possibili: da un regime regionali di cambi gestiti in Asia Orientale ad un graduale riassetto del sistema dei controlli valutari in Cina. Tutti, però, nel contesto di una Bretton Woods n.2 di fatto già in vigore. Perché la lex mercatoria è più cogente dei trattati internazionali.

ECCO PERCHE’ IL PETROLIO STUPIRA’ ANCORA Libero 20 agosto

I prezzi del greggio hanno fatto, negli ultimi giorni, una leggera marcia indietro. E’ l’indicazione di una svolta oppure la domanda (principalmente da parte dei Paesi emergenti) tornerà ad avanzare rapidamente ed a riportare i prezzi alle stelle? Che influenza hanno le grandi compagnie petrolifere internazionali (le “sette sorelle” di una volta) nell’allocare produzione e nel determinare i prezzi? Quanto incidono, invece, l’Opec e le grandi imprese pubbliche nazionali , come la russa Gazprom e la società petrolifera iraniana? Quali sono le prospettive per l’Europa di aggirare il giogo russo- ed anche quello dell’Opec?
Queste domande sono collegate l’una con l’altra. Le rende di estrema attualità non soltanto l’inversione di tendenza dei corsi del petrolio degli ultimi giorni ma anche un’inchiesta del “New York Times” pubblicata lo scorso fine settimana ; in essa si mette in rilievo come le “sorelle” di un tempo siano in quelle che esse considerano gravi difficoltà industriali (non certo finanziarie): i profitti sono elevatissimi (il consuntivo Exxon Mobil segna un margine operativo lordo di 57 miliardi di dollari) a ragione degli alti prezzi ma la produzione sta facendo marcia indietro (sempre la Exxon Mobil la ha ridotta di 650.000 barili al giorno) e soprattutto la loro incidenza sul mercato è sempre più debole. Vengono citati studi della Rice University a Houston, dove il Dipartimento energia è particolarmente autorevole. Una tesi analoga, e per certi aspetti ancora più radicale, è in due lavori di John Simpson della Curtis University of Technology: il primo studia gli effetti delle decisioni Opec (e sostiene che il cartello potrà avere in questi anni implicazioni sulla stabilirà finanziaria mondiale analoghe a quelle che ha avuto negli anni 80 e 90); il secondo documenta, con un’approfondita analisi statistica, che le“major” (le “sorelle”) non sono state in grado, negli ultimi dieci, ad anticipare le mosse dell’Opec.Negli anni 70, le “sorelle” pompavano la metà del greggio mondiale; adesso, appena il 13% e controllano soltanto il 10% delle riserve accertate. Inoltre, mentre nel 1994 spendevano il 15% dei loro utili non distribuiti agli azionisti in ricerca e sviluppo, oggi ne impiegano appena il 6% (mentre il 34% va in diversificazione in altri settori ed in buyback – allo scopo, dicono i maligni, di tenere alte le quotazioni delle loro stesse azioni). Inoltre, l’attacco non viene solo dall’Opec ma soprattutto dalle nuove imprese pubbliche nazionali (ovviamente a carattere monopolistico) che stanno mettendo a soqquadro la stessa vecchia Opec quando sono di Paesi che del cartello dei 13 esportatori non fanno parte.
Il quadro, però, è probabilmente meno fosco di quanto non sembri. In primo luogo, un’analisi di Ed Morse, capo del servizio studi energia di Lehman Brothers, sottolinea come, in termini reali, le quotazioni del petrolio sono destinate a diminuire gradualmente (nonostante l’aggressività nei nuovi monopoli nazionali). Lo dicono non soltanto le previsioni dell’Ocse e dell’Agenzia Internazionale per l’Energia , ma soprattutto l’esperienza delle crisi precedenti – sempre seguite da un rallentamento della domanda. Questa volta è specialmente la Cina (responsabile di oltre la metà della domanda addizionale negli ultimi tre anni) a fare marcia indietro: da 490.000 barili al giorno (in media) negli ultimi tre anni a 390.000 previsti per il 2009. Secondo Morse i prezzi si stabilizzeranno sui 90 dollari al barile. Il rapporto revisionale dell’Opec pubblicato a Vienna il 14 agosto traccia un quadro ancora più ottimista (per i Paesi importatori): “la crescita domanda globale di greggio nel 2009 sarà al livello più basso dal 2002” poiché “la domanda, tradizionalmente forte in estate in Cina e nel resto dell’Asia, non è stata in grado di controbilanciare la caduta della domanda di petrolio nei Paesi Ocse”.
.Una conferma indiretta viene da un’analisi del servizio studi della Banca centrale spagnola (Banco de España Research Paper N. WP 0731) relativa alle risposte all’aumento dei prezzi del petrolio in Francia, Germania, Italia e Spagna. Nel complesso gli effetti sono stati meno devastanti di quanto inizialmente temuto.
Altro aspetto interessante (e poco studiato) è l’efficienza relativa nei nuovi entranti (i monopoli nazionali, specialmente quelli non-Opec). Un’analisi di Christopher Wolf della Università di Cambridge diffusa il 14 agosto (EPRC N. 0813) esamina 1001 osservazioni di efficienza organizzativa nel periodo 1987-2008 (in basa ad una banca dati unica e costruita con pazienza certosina); il risultato è che rispetto alle “sorelle” i monopoli nazionali mostrano scarsa efficienza nell’impiego del lavoro e del capitale, nella generazione di reddito e nella profittabilità in generale: “la preferenza per il petrolio di Stato – dice Wolf – ha un costo molto chiaro”:
Un altro lavoro utile viene dal servizio studi della Bce (Ecb Occasional Paper n. 92). Mette in evidenza come i Paesi del Consiglio per la Cooperazione nel Golfo Persico abbiano in atto non solo un vasto programma di diversificazione interna ma anche di più stretto collegamento con l’Ue, pure al fine di non accentuare il loro ruolo di finanziatori della bilancia dei pagamenti Usa. E’ proprio nel numero di giugno della “Opec Energy Review” un saggio quantitativo di Carole Nahkie che strizza gli occhi all’Ue: smentisce le profezie secondo cui le riserve tradizionali del Mare del Nord: ce ne sarebbero maggiori, anche se ancora non accertate tecnicamente nel Mare di Bering e nell’area regionale artica:
Il supporto non viene unicamente dal Nord, ma anche dal Sud – dalla rete di nuovi gasdotti ed oleodotti per collegare direttamente l’Europa con i bacini dell’Asia centrale (in primo luogo il Kazkhstan quali il TGI (Turchia, Grecia, Italia), il Nabucco ed il White Strema. Non è un caso che nel recente conflitto tra Russia e Georgia non una sola bomba russa sia caduta nei pressi del BTC (la condotto che collega Baku in Azebarjan con Tiblisi e con il porto di Ceyhan in Turchia. I russi sanno che la reazione occidentale sarebbe stata immediata in quanto un eventuale attacco avrebbe messo a repentaglio uno schema su cui si è ormai definito un consenso.
Questa geopolitica economica sarà il fondale dell’evoluzione del mercato del petrolio nei prossimi anni. E’ bene averne chiari i punti essenziali.