RIPRESA?/ Gli studi che bocciano la strategia di Renzi
Pubblicazione: lunedì 15 giugno 2015
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È difficile comprendere perché il
Governo Renzi - o, d’altronde, qualsiasi esecutivo deputato a governare
l’Italia in questi anni - non ponga il nodo dell’aumento della produttività al
centro delle proprie riflessioni e della propria azione. Oppure, quanto meno,
come parametro essenziale per valutare le politiche istituzionali ed economiche
settoriali. I documenti Istat sono chiarissimi, in particolare il Rapporto Annuale
2015 pubblicato meno di un mese fa: la produttività (comunque la si voglia
definire) non cresce dal 1999 e dall’inizio della crisi nel 2007-2008 abbiamo
perso un quarto del valore aggiunto nel manifatturiero, con la probabilità di
non poterci ben presto più fregiare della palma di essere la seconda potenza
industriale dell’Unione europea.
Pare il Presidente del Consiglio non
abbia grande stima della “triste scienza” dell’economia e di chi la pratica.
Tuttavia, motivazioni di politique d’abord, ove non meramente
elettorali, dovrebbe spingerlo a dare la massima priorità all’argomento. Un
“comunicatore puro” come James Carville costruì per la campagna elettorale di
Bill Clinton lo slogan It is the economy, stupid. In Italia, the
economy vuole dire essenzialmente produttività.
Occorre ammettere che dalla
costituzione del Regno nel 1861 la produttività multifattoriale italiana è
cresciuta solamente in tre periodi: l’età giolittiana (quando l’Italia fu in
grado di mostrare un alto grado di “efficienza adattiva” nell’importare
innovazioni tecnologiche nate altrove e innescarle sulla nostra inventività),
il periodo fascista (grazie a un cambio fisso che teneva basso il costo del
lavoro rispetto agli Paesi industriali) e il “miracolo economico” (a ragione di
una forza lavoro molto ben addestrata e abbondante che dalla guerra d’Africa
era stata applicata ad attività poco o nulla produttive).
Occorre pur riconoscere che la
“grande industria” italiana non ha dato prova di grande imprenditorialità,
restando confinata in pochi settori a scarso contenuto innovativo (automobili,
pneumatici, cioccolata, ottica e maglieria di massa - ottenendo i propri utili,
in questo ultimo caso, da una lauta e lunghissima concessione autostradale).
Ciò vuol dire alzare le mani al Cielo e confidare nello stellone dicendo Io,
speriamo che me la cavo (in materia di produttività)? Sarebbe il cop out
rinunciatario di un gruppo dirigente che si è presentato con l’ambizione di
rinnovare l’Italia e portarla fuori dalla palude, piena di sabbie mobili, in
cui si trova. Vorrebbe anche dire dovere cedere presto ad altri.
Cosa fare? Si può suggerire una
strategia con due linee di azione differenti, ma convergenti. Da un lato,
valutare l’apporto alla produttività delle riforme in cantiere. Una valutazione
che deve essere con le metodologie quantitative di cui dispone la professione e
che dal 1995 al 2008 sono state insegnate dalla Scuola nazionale
d’amministrazione a schiere di dirigenti e funzionari pubblici. È possibile che
risulti, dall’analisi, che il Jobs Act ha molti meriti, ma non
contribuisca all’aumento della produttiva e che certi aspetti della riforma
costituzionale abbiano affetti negativi sulla produttività (ad esempio, le
specifiche per portare all’inattività del Cnel sono state stimate in un costo netto
di 3 milioni di euro l’anno).
Da un altro, mettere in campo
riforme mirate direttamente alla crescita della produttività. In questo senso,
un’analisi recente del Fondo monetario internazionale parte da differenze
settoriali di produttività nei principali comparti dell’economia e ne raffronta
gli andamenti per i principali Paesi industriali utilizzando tecniche
innovative. Senza entrare in questi aspetti, è importante sottolineare che in
quasi tutti i comparti (e nella produttività multifattoriale) l’Italia ha quasi
sempre la maglia nera. La parte innovativa è che le tecniche econometriche
utilizzate mostrano come il comparto più serio è quello dei servizi e che la
scarsa produttività che li caratterizza deriva da quanto poco è stato fatto in
materia di liberalizzazioni.
Ce lo ha detto l’Ocse e ce lo ripete
proprio in questi giorni il volume Liberalizzazioni: un’incompresa
necessità dell’Associazione società libera. Il lavoro del Fmi si
distingue da questi per la drammaticità e la chiarezza: senza una forte
liberalizzazione dei servizi, il resto serve poco. Tanto più che da noi
imprenditori innovativi, pronti a rischiare capitali propri, pare non nascano
più.
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