Cosa insegna la storia delle unioni monetarie ad Atene e Bruxelles
19 - 06 - 2015Giuseppe Pennisi
Al termine di un fine settimana inconcludente (e in cui le
posizioni delle parti si sono irrigidite, oltre quanto prevedibile) al tavolo
della roulette greca il punto interrogativo è d’obbligo dopo la consueta frase
del croupier –rien ne va plus?-prima della chiusura dei giochi.
In primo luogo, le cronache dei negoziati tra la Grecia, da un
lato, e le istituzioni europee ed internazionali, dall’altro, ci hanno
insegnato che la trattativa è costellata da sorprese. All’Eurogruppo di ieri 18
giugno, non solamente la delegazione di Atene non ha presentato proposte
concrete in materia di pensioni (soprattutto per le fasce alte), Iva,
privatizzazioni e saldo primario delle pubbliche amministrazioni, ma ha alzato
i toni verbali nei confronti delle “istituzioni” che (in nome dei
ricordi liceali dell’età periclea) le hanno fatto credito.
Una riunione straordinaria dei Capi di Stato e di Governo
dell’eurozona è in programma per lunedì 22 giugno a Bruxelles. Gli aùguri
(siamo in una tragedia greca) non sono positivi. E’ possibile che si punti a un
ulteriore rinvio al Consiglio dei Capi di Stati e di Governo dell’Unione
Europea in calendario per il 25-26 giugno (la cui agenda ha già un menu
pensante; ad esempio, l’immigrazione). Tuttavia, il managing director del Fondo
Monetario è stata chiarissimo: se Atene non paga entro il 30 giugno quanto deve
al Fondo (1,6 miliardi di euro) sarà tecnicamente (e politicamente) “insolvente”
dal primo luglio e non può essere più ammessa a programmi di aiuti
internazionali.
In secondo luogo, le due parti hanno fortemente sovrastimato (o
esagerato a fini tattici) il costo dell’insolvenza, e della uscita (volontaria
o meno) della Grecia dall’unione monetaria. Negli Stati Uniti, ad esempio,
Stati dell’Unione, Contee, Comuni hanno dichiarato bancarotta (portando i libri
in tribunale) ma, dopo una cura rigorosa e pluriennale (analoga a quella
proposta per la Grecia) sono tornati solvibili e prosperi: il vero nodo è la
bassa produttività della Repubblica Ellenica, le cui esportazioni sono pari a
appena il 12% del Pil e che non si è mostrata capace di attirare capitali
dell’estero (ma al contrario da anni esporta i propri risparmi all’estero). Senza
un programma di riassetto strutturale profondo, monitorato per numerosi da una
“missione permanente”, residente ad Atene, delle istituzioni
internazionali. Occorrono non solo aiuti ma soprattutto incentivi e
disincentivi per indurre a lavorare meglio e di più, penalizzare le rendite
corporative e modificare la specializzazione produttiva di un’economia oggi
basata su agricoltura, servizi poco efficienti, turismo e noli (protetti da
vaste esenzioni tributarie). E’ un lavoro di lungo periodo che il governo greco
non sembra in grado di iniziare.
Senza dubbio, un’uscita della Grecia dall’eurozona, e dall’unione
europea, avrebbe effetti negativi sul resto d’Europa. Non tanto – come
illustrato su questa testata il 17 giugno – sui mercati finanziari (a ragione
delle paratie e difese introdotte in questi ultimi quattro anni), quando
sull’economia reale, sempre pronta a rallentare a fronte dell’incertezza.
La responsabilità non è solo dei greci ma anche di coloro che
hanno cercato di “europizzarli” contro le loro più profonde intenzioni. Il
Presidente della Commissione all’epoca in carica, Romano Prodi, era stato
avvertito dal direttore generale dell’Eurostat che si trattava di “missione
impossibile”: il dirigente venne rimosso e la Grecia ebbe un seggio al tavolo dell’eurogruppo
che ai soli contribuenti italiani potrebbe costare 40 miliardi di euro.
A volte, seguendo anche l’ultima Enciclica di Papa Francesco,
l’Unione europea e l’unione monetaria dovrebbero dare prova di umiltà. Proprio
nei mesi in cui si consumava la tragedia greca, era in corso il riassetto della
East African Community (Burundi, Kenya, Ruanda, Tanzania , Uganda). Occorre
ricordare che un’East African Community (Kenya, Tanzania , Uganda) era uscita
dal periodo coloniale ed aveva anche non solo un’unione monetaria ma anche
società comuni di telecomunicazioni, ferrovie, trasporti su laghi e fiumi, e
l’università. A molti di queste SpA la Banca mondiale aveva concesso prestiti
(con la garanzia in solito dei tre Governi delle Comunità). Nel 1974, la Comunità
andò a gambe all’aria perché i tre Paesi avevano preso strade divergenti (dal
capitalismo del Kenia, al socialismo comunitario della Tanzania. Nel 1975 feci
parte della delegazione di tre componenti della Banca mondiale per rinegoziare
il “recupero” dei “nostri” crediti.
Da allora molo tempo è passato. E’ stata creata nel 2000 una nuova
Comunità, con sede ad Arusha in Tanzania, istituzioni comuni (anche una banca
di sviluppo e SpA di servizi in comune, oltre a Corte di Giustizia ed Assemblea
parlamentare). L’obiettivo è di giungere a una Federazione Politica nel 2030 ed
ad un’unione monetaria nel 2024 seguendo un percorso a tappe determinate
analogo a quello che venne definito per l’euro.
Un saggio di William Mills della W.Frank Baton School of Business,
diramato per osservazioni il 2 giugno a colleghi economisti, tratta della
probabile indolore uscita del Ruanda dalla East African Community o quanto
meno dagli accordi monetari. I modi dell’uscita (e i costi) sono stati
stimati utilizzando un modello di sincronizzazione del ciclo economico di cui
dispongono anche le istituzioni europee e il Fondo monetario. Forse, l’UE
ha qualcosa da imparare dagli Stati “associati” dell’Africa.
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