Nuova aNtologia
Rivista di lettere, scienze ed arti
Serie trimestrale fondata da
Giovanni Spadolini
Aprile-Giugno 2015
Vol. 614° - Fasc. 2274
le
MonnieR – FiRenze
la rivista è edita dalla
«Fondazione Spadolini nuova
antologia» – costituita
con decreto del presidente della
Repubblica, Sandro pertini,
il 23 luglio 1980, erede universale di Gio‑ vanni Spadolini, fondatore
e presidente a vita – al fine di «garantire attraverso la conti‑ nuità della testata,
senza fine di lucro, la pubblicazione della rivista nuova antologia, che nel
suo arco di vita più che secolare
riassume la nascita,
l’evoluzione, le conquiste, il tra‑ vaglio, le sconfitte e le riprese
della nazione italiana, nel suo inscindibile nesso coi liberi ordinamenti» (ex art. 2 dello Statuto della Fondazione).
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giovanni zanfarino
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S o
M M a
R i o
Giovanni Spadolini, Brindisi per i miei sessant’anni (1985), a cura di Gabriele
paolini..................................................................................................................................... 5
Cosimo Ceccuti, «Nuova Antologia» fra ’800
e ’900: dai fratelli Protonotari
a Maggiorino Ferraris......................................................................................................... 11
Francesco
leone, Energia: perché non possiamo continuare ad estrapolare
il passato............................................................................................................................... 22
1.
lo scenario del futuro,
p. 22; 2. dalle «Sette
Sorelle» all’opeC p. 24; 3. il petrolio oltre i 40 US$/bbl,
p. 26; 4. l’europa e l’italia,
p. 29; 5. le energie rinnovabili, p. 33;
6. Conclusioni, p. 38.
Francesco
Magris, Politiche migratorie selettive e flussi
migratori in uscita....................... 39
antonio zanfarino, Austerità,
crescita, tutela........................................................................... 55
1. problemi di modernità, p. 55; 2. Scelte e imposizioni, p. 56; 3. Mutamenti e democrazia liberale,
p. 58; 4. valori e mediazioni costituzionali, p. 60.
Giuseppe ottavio armocida,
Eutanasia. Una questione diversamente
problematica nella storia della medicina.......................................................................... 62
alberto Signorini, Spinoza e Nietzsche..................................................................................... 67
antonio patuelli, Per la pubblicazione in «Nuova Antologia» delle Conversazioni della guerra di Olindo Malagodi 82
arturo Colombo, Il progetto della «Pan-Europa» di Coudenhove-Kalergi........................... 85
enzo Scotto lavina, Due carteggi e quattro personalità nella seconda metà del Novecento: Ugo Spirito ed Eugenio Garin, Roberto Cerati
e Giulio Einaudi................................................................................................................... 93
ermanno paccagnini, Lettura,
letteratura e manicomi.......................................................... 102
Luigi Russo: il «Belfagor» della critica. Duello rusticano con Giuseppe
L. Messina, a cura di Maurizio Sessa............................................................................ 121
Stefano Folli, Diario politico................................................................................................... 132
Fabrizio Gifuni, Un Amleto contemporaneo, intervista a cura di Caterina
Ceccuti................................................................................................................................ 150
Giuseppe
pennisi, Opera (e non solo)
tra monarchie, imperi
e repubbliche
nella Francia dell’Ottocento............................................................................................. 161
premessa, p. 161; l’assetto organizzativo del teatro musicale
francese, p. 163; prima della Rivoluzione – Gluck,
p. 164; dalla
Rivoluzione all’impero – auber e Spontini, p. 166; dalla Monarchia di luglio al Secondo impero – Meyerbeer, Berlioz, offenbach, p. 168; la Terza Repubblica dell’industrializzazione trionfante – Bizet e Massenet, 173;
Un cenno alla cameristica – onslow, p. 176.
Giorgio Giovannetti, Antonio Paolucci, il laico che custodisce il tesoro
del papa.............................................................................................................................. 178
Giuseppe
Muscardini, Ricordo «trasversale» di Giorgio Bassani
nel centenario
della nascita........................................................................................................................ 183
antonio Motta, Leonardo Sciascia: passeggiate e conversazioni.......................................... 194
nota, p. 194; nel partito comunista
clandestino di Caltanissetta, p. 195; Sciascia
maestro,
p. 196; Carlo levi presenta Il giorno della civetta, p. 200; Il giorno della civetta, cin‑ quant’anni dopo, p. 201; Conversazione col Capitano Bellodi,
p. 205; Una lettera minato‑ ria, p. 207; Incontro con lo «zio di Sicilia», p. 209; «Sicilia inverosimile». Conversazione sulla mafia, p. 210; nei paesi della grande sete, p. 212; Un documentario su Gela, p. 214; Una poesia per Joan Miró, p. 215; il maestro
col soprabito senape.
Conversazione con Federica
Galli, p. 215; Sciascia intervista de Chirico, p. 217; Un disegno per Porte aperte,
p. 220; Quella copia dell’«Unità», p. 221; Quelli che
tornano, p. 224.
Rita panattoni, 1865-1870:
Firenze e l’Europa. Giuseppe
Mengoni e il sistema
dei nuovi mercati della città............................................................................................ 226
paolo Bonetti, Le nuove culture
politiche della sinistra...................................................... 238
la fine delle «magnifiche sorti e progressive», p. 238; la sinistra incatenata, p. 243; la sinistra fra radicalismo e populismo, p. 246.
Gian luigi
Rondi, Il primato
di Nanni Moretti...................................................................... 250
Maurizio naldini, Dagli zombie
alle divinità....................................................................... 262
paolo Bagnoli, Filippo Burzio e la Grande
Guerra............................................................... 271
Umberto Cecchi, Per il volontario sedicenne Kurt Sukert la Grande Guerra
iniziò un anno prima........................................................................................................ 278
ennio Grassi – Mariangela landi,
Caro Pascoli,
Caro Panzini........................................... 287
Riccardo Campa, Riflessioni
su Calamandrei e la Costituzione.......................................... 305
Romano paolo Coppini, Guerra e rivoluzione. Letture
della seconda
Restaurazione.................................................................................................................... 310
Fabio Bertini, Maria Malibran voce della modernità
femminile europea............................ 327
da Mademoiselle a diva, p. 327; d’itala
mente, mirabile nel canto e nell’azione, p. 332; Maria Felicita, isabella
e la modernità della donna europea, p. 340.
Stefania Magliani, Emilio Visconti Venosta e Anselmo
Guerrieri Gonzaga:
da Parigi a Madrid
pensando a Roma............................................................................ 345
Tito lucrezio
Rizzo, Clelia Pellicano, scrittrice della
«Nuova Antologia»......................... 360
Clara Castelli, Valdo Zilli: uno storico per la Russia........................................................... 366
l’incontro con la Russia,
p. 368; dall’inferno al limbo, p. 369; l’intellettuale e lo storico,
p. 371; dinanzi alla morte, p. 372.
rassegne.................................................................................................................................... 373
piero Roggi, Sul libro Cristiani ed uso del denaro di don
Leonardo Salutati, p. 373; andrea Ricciardi, Sulla Vita di Giorgio Agosti di paolo Borgna,
p. 377.
reCensioni.................................................................................................................................... 383
Lettere da Costantinopoli (1914-1915). Carteggio familiare
di Bernardino Nogara, a cura di Bernardino osio, di arturo Colombo p. 383; enzo Scotto lavina, Il cantiere televisivo italiano. Progetto
struttura canone, di Gloria dagnino, p. 384; arrigo Colombo, La nuova utopia, di arturo Colombo, p. 385; Fabrizio Rossi, i Regolamenti del Senato Regio (1848- 1900). Storia, norme e prassi, di Giovanni
Corradini, p. 387.
L’avvisatore librario, di aglaia
paoletti langé....................................................................... 394
IMPERI E REPUBBLICHE
NELLA FRANCIA
DELL’OTTOCENTO
Premessa
Questo articolo
nasce da due motivazioni principali, una di lungo pe- riodo ed una quasi contingente. Quella di lungo periodo riguarda interro- gativi che mi pongo da anni: la musica francese
dell’Ottocento, soprattutto quella per il teatro, ha avuto un elemento unificante al pari di quello pre- sente in Italia ed in Germania, in ambedue i casi, i movimenti di unità na- zionale?
Oppure si è adattata ai cambiamenti della società man mano che il sistema
politico cambiava da Monarchia a Prima Repubblica, da Impero a Restaurazione, da «Monarchia di Luglio» a Seconda Repubblica, da Se- condo Impero e a Terza Repubblica? E man mano che la struttura econo- mica mutava da feudale e rurale a industrializzazione tardiva,
ma trionfan- te, nonché facilitata da un vasto e ricco impero coloniale?
A questi
interrogativi si aggiunge
la frequentazione recente
del Centre per la Musique
Romantique Française creato
e sostenuto a Venezia da una fondazione svizzera, la Fondazione Bru: da Palazzetto Bru Zane dove ha la sede ed una bella
sala da concerto. Il Centre produce,
a Venezia ed altrove in Europa, circa 100 serate di concerti
ed opere liriche l’anno, a volte in collaborazione con partner; nel 2014-2015
si è giunti a ben 164, di cui circa
la metà a Venezia ed il resto
in Francia ed in numerosi
Paesi europei. Dal
2009, quando è stato istituito, alla fine del 2014, il Centre ha prodotto 118 registrazioni (diffuse
da alcune delle maggiori case discografiche) e 28 libri. Nel Veneto ha avviato, nel 2013, un progetto didattico
sulla musica romantica francese che coinvolge
832 alunni e 41 classi e che ha compor- tato
41 laboratori didattici. Il costo annuale
di queste attività
sfiora i quat- tro milioni di euro, di cui l’80% è coperto dalla Fondazione Bru ed il resto
dai ricavi della vendita di attività musicali, libri e dischi
e dalla biglietteria. Sta, quindi, compiendo un’attività di ricerca, di approfondimento e di di- vulgazione molto importante. Infatti,
pur se sulla musica e sul teatro in musica francese esiste una letteratura ricchissima, le occasioni di ascoltarla dal vivo sono per varie ragioni poco frequenti.
Per trattare di Romanticismo francese, occorre innanzitutto stabilire alcune date – quando inizia e quando termina
– pur tenendo conto che vari generi e stili si accavallano. Nelle
conversazioni avute a Palazzetto Bru Zane, il direttore scientifico del Centre, Alexandre
Dratwicki, mi ha rac- contato un aneddoto: secondo Hector Berlioz
(che pur si considerava un
«classico», non un «romantico»), il Romanticismo francese
inizia con Chri- stoph Willibald Gluck, ovviamente con il Gluck francese, in particolare con il Gluck di Iphigénie en Tauride, raramente messa in scena in Italia (si può gustare in questo 2015 al Festival
di Salisburgo).
Più difficile dire quando termina:
la Francia non ha un’esplosione neo- romantica a partire dagli anni Settanta
del secolo scorso, come la hanno l’Italia (ad esempio, Marco Betta, Michele Dall’Ongaro, Lorenzo Ferrero, Marco
Tutino) e soprattutto gli Stati Uniti d’America (quali William Bol- com, Thomas Pasatieri). Durante la Prima guerra mondiale il Romanticismo francese sparisce dalle «prime»
dei teatri e delle sale di concerto
– è il momento ed il mondo del «Gruppo dei Sei» Darius Milhaud,
Arthur Ho- negger, Francis Poulenc, Germaine
Tailleferre, Georges Auric e Louis Durey e dalla
loro «musica oggettiva» – per riapparire come un fiume
car- sico, però, nella
musica da film. Qualcosa del genere si verificò in Germa- nia
con musicisti tardoromantici (pensiamo a Korngold
– vedi «Nuova Antologia», n. 607, 2011) i quali,
di fronte al nazismo, si esiliarono ad Hollywood dove conquistarono un Premio Oscar
dopo l’altro per la loro musica da film tardoromantica.
Non ho la pretesa
di aggiornare le storie della musica o le monografie sulla musica
francese che trattano
di questo lungo
periodo, ma di eviden- ziare come i cambiamenti politici
e sociali accelerano i tempi lunghi,
spes- so lunghissimi, dei mutamenti di stili e gusti musicali. Naturalmente non ho neanche la pretesa di essere esauriente.
In questo
articolo, inizio da Gluck e da Iphigénie en Tauride, quando Luigi XVI e Maria Antonietta
si consideravano saldi sul trono, e giungo alle soglie di Debussy
e del suo particolare espressionismo quando la Terza Repubblica stava per correre alla Marna, anche in taxi,
al fine di difendere le frontiere dall’offensiva di quelli allora
chiamati Imperi Centrali. Tratterò unicamente alcuni autori
collegati a specifici
mutamenti politici e sociali.
L’assetto organizzativo del teatro musicale
francese
L’Ottocento è l’epoca del teatro in musica anche per le masse, mentre la sinfonica si afferma unicamente
in pochi Paesi (Germania, Austria ed Europa centro-orientale)
e la cameristica è destinata
principalmente ai salotti privati oppure ad associazioni di «Amici della musica» di stampo locale. Il teatro in musica francese
ha molte caratteristiche che sono lega- te all’evoluzione della politica e della società
e, quindi, non di facile ap- prezzamento da parte di chi non conosce la storia e la cultura
della Francia. Ciò ne ha in parte frenato la diffusione. Inoltre,
mentre sino agli anni im- mediatamente precedenti la Seconda guerra
mondiale si usava mettere in scena il teatro
in musica «nella lingua del teatro», quindi
in traduzioni ritmiche, è gradualmente invalso l’uso di utilizzare la lingua originale (spesso supportata da soprattitoli). La lingua francese
non è fonetica ed ha flessioni ed intonazioni molto difficili da apprendere; in effetti, solo un numero limitato di cantanti non francesi riesce a padroneggiarla come ri- chiesto e dovuto. Ricordo ancora un Faust di Charles Gounod che, a mio avviso, sembrava cantato in lessico sconosciuto e, non essendo ancora prassi l’impiego dei soprattitoli, era di fatto non comprensibile. La situa- zione sta migliorando ma ancora oggi pochi titoli (e sempre gli stessi) entrano nei repertori dei grandi teatri.
È utile fare un riferimento all’assetto essenzialmente stabile che ha dominato l’organizzazione del teatro in musica francese
nell’Ottocento e che sostanzialmente lo caratterizza ancora oggi in questo primo scorcio di XXI secolo. In Italia, in America e sostanzialmente anche nel mondo ger- manico, il teatro in musica era in gran misura privato, con teatri costruiti da cooperative di «palchettisti» (o dai poteri
politici locali) ed affidati in gestione a impresari privati,
e sul medesimo palcoscenico potevano
rappre- sentarsi generi differenti. Invece, in Francia esisteva, ed in buona misura esiste tuttora, una forte dose di centralismo, di rigorosa correlazione tra generi operistici e luogo della rappresentazione, tra privilegi «sovrani»
(ora nazionali) e luogo della rappresentazione.
La rigida separazione tra generi derivava, e deriva, da normative e pras- si del Settecento, di cui solamente Gluck ed i gluckisti italiani riuscirono all’epoca a non tenere conto, trasformando gradualmente così la tragédie lyrique settecentesca in grand opéra o opéra historique, mentre la tradizione nazionale restò ancorata all’opéra-comique (che trattava anche argomenti altamente drammatici – si pensi a Carmen di Georges Bizet). L’opéra-comi- que era più consona alla separazione tra musica ed azione teatrale; ciò cor- rispondeva non solo a razionalismo,
ma anche, come si
è detto, alla difficol-
tà (non soltanto per coloro che non sono di madrelingua francese) a
cantare in francese. L’opéra-comique,
a sua volta, si distingueva in varie sottocate- gorie: opéra avec ariettes, opéra bouffon, mélodrame, drame, drame-fanta- stique, vaudeville, opéra-bouffe, opérette. Tali ripartizioni dell’opéra-comique restarono sostanzialmente immutate sino a Pelléas et Mélisande di Claude Debussy (1902). Ciascuna tipologia aveva il proprio teatro deputato (e sov- venzionato).
L’evoluzione della società, e la graduale affermazione della borghesia, fece gradualmente evolvere il grand opéra (ed i
suoi sottogeneri, come l’opéra-ballet) in opéra lyrique. C’erano ovviamente teatri, pur sov- venzionati, legati a
repertori specifici come il Théâtre
des Italiens (dove si rappresentavano opere italiane) e teatri puramente commerciali – in parti- colare dalla seconda metà dell’Ottocento il Théâtre
Lyrique che ospitava un repertorio nuovo ed in cui invalse
gradualmente la prassi di trasformare l’opéra-comique in opéra, mettendo in musica le sezioni dialogate.
È importante tenere in mente che questo assetto rigido,
e conservatore, restò in vita in tutto il lungo periodo in cui la musica cambiava e si succe- devano regni, imperi e repubbliche. Un freno amministrativo-organizzativo a rivoluzioni ed innovazioni. Ciò incideva sulla sinfonica (che non ha avuto per decenni un luogo deputato) ma non sfiorava
la cameristica.
Prima della Rivoluzione – Gluck
Nella storia
della musica la «riforma gluckiana» è intesa generalmente come il tentativo di rinnovamento dell’opera seria italiana
portato avanti, nella seconda metà del Settecento, dal compositore e librettista Ranieri
de’ Calzabigi con l’incoraggiamento ed il sostegno
determinante del direttore generale degli
spettacoli teatrali della
Corte asburgica Conte
Giacomo Du- razzo. Come gli stessi autori indicheranno esplicitamente nella prefazione-
dedica-manifesto dell’opera Alceste, la riforma
era diretta contro
«tutti quegli abusi [...] che hanno per troppo tempo deformato l’opera italiana e reso ridicolo
e seccante quello che era il più splendido degli spettacoli», e si proponeva
«di ricondurre la musica al suo vero compito di servire la poesia per mezzo della sua espressione, e di seguire
le situazioni dell’intre- cio, senza interrompere l’azione
o soffocarla sotto inutile superfluità di ornamenti». Parte dell’accademia musicale
francese reagì alla riforma con una ripresa di quella che era stata chiamata La Querelle des Bouffons (1720- 1754), innescata dalla tournée a Parigi di una compagnia
italiana che por- tava
opere in linguaggio semplice ed al di fuori dei generi canonici,
come La Serva Padrona
di Pergolesi. Lo spirito di queste «battaglie» – così veni-
vano chiamate da circoli letterari e musicali – va però inquadrato nel con- testo dell’Illuminismo e, quindi, del ruolo della natura intesa
come «ragio- ne», «naturalezza», «logica», «verità». Nella riforma gluckiana, la poesia era vista come rivelazione della verità e non più come raffinato
esercizio intel- lettuale, anche se il pubblico
a cui ci si rivolgeva
era ancora sostanzialmen- te colto, ma non più unicamente aristocratico. Sia Gluck sia Calzabigi sentivano la loro attività
come un dovere nei confronti della cultura stessa e della società alla quale si rivolgevano. Non per nulla, Jean-Jacques Rousseau, fervente sostenitore dei riformatori (poi diventati, in buona parte, rivolu- zionari), scrisse di proprio pugno un’opera, Le Devin du Village, modellata su La Serva Padrona.
Trasferitosi in una Parigi in cui nei salotti e nei teatri
era infuriata quel- la Querelle des Bouffons
di cui c’erano ancora i postumi
e si avvertivano già i prodromi di quella che sarebbe diventata la Rivoluzione del 1789, Gluck non solo adattò la propria riforma
teatrale agli stilemi
francesi, man- tenendone i cardini:
un nuovo rapporto
tra aria e recitativo, un sistema per ridurre al minimo il contrasto tra pezzo «chiuso»
e pezzo «aperto», l’enfasi sul carattere descrittivo della musica, una rinnovata veste in funzione dram- matica dell’orchestra. Storici
della musica quali
Paolo Gallarati considera- no Gluck come riconducibile al Romanticismo in quanto ribelle ante literam. Penultima delle sue opere francesi Iphigénie en Tauride (1779) a cui i «tra- dizionalisti» contrapposero un’opera sullo stesso argomento
e con libretto analogo (avevano ambedue le radici in Racine e Euripide) di Niccolò Pic- cinni (che ebbe modesto
successo). Iphigénie en Tauride è quella che più mostra il cambiamento, tanto che nell’Ottocento divenne un cavallo
di battaglia della
grande cantante wagneriana Wilhelmine
Schröder-Devrient e a fine secolo Richard
Strauss in persona
ne fece una «propria» trascrizio- ne. L’elemento romantico
non è solamente nella descrizione della ostile natura nella aspra terra dei feroci Tauri (ed il ricordo di quella, ben diffe- rente, dell’Ellade) ma nella figura della protagonista, con i suoi tormenti interni, il suo coraggio – una protofemminista che, si dice, affascinò all’epo- ca
la regina Maria Antonietta. Altro aspetto importante è la rapidità
e concisione con cui evolve l’azione e la fluidità dell’azione musicale. Non per nulla, quando l’opera venne riproposta
in Italia, al Maggio Musicale
Fio- rentino del 1957 (con Maria Callas
come protagonista), la regia di Luchino Visconti e la concertazione di Nino Sonzogno
le diedero un’impronta se non romantica
almeno protoromantica.
È interessante raffrontare l’incisione dal vivo della Iphigénie Callas- Sonzogno-Visconti non solo con le tragédie lyrique francesi (spesso di au- tori
italiani, ad esempio Ermione di
Rossini) degli anni che
precedettero ed
in parte accompagnarono la Rivoluzione (quando si tagliavano le teste ma i teatri
continuavano a funzionare) quanto con i canti rivoluzionari prodot- ti in due bei CD dal Centre veneziano menzionato nella premessa: si avver- tono
analogie tanto nelle parti strumentali quanto nei cori.
Gluck, stanco delle beghe parigine (principalmente in seguito a Iphigé- nie), tornò a Vienna dove morì nel 1787 (quindi
prima delle date paradig- matiche della Rivoluzione ed ebbe, per sua richiesta,
un grande funerale cattolico, non un ‘rito alla dea Ragione’). Aveva, però, seminato molti più germi
della rivoluzione musicale
di quanto non apparisse.
Alcuni suoi allievi (come Étienne Méhul), pochi decenni dopo Iphigénie ed in piena epoca napoleonica, portarono il Romanticismo al di là di pre- sagi ed anticipazioni, trovando ispirazione, ad esempio per Uthal, in rac- conti ossianici
con un’orchestrazione priva di violini proprio
al fine di creare
atmosfere dense di brume scozzesi.
Dalla Rivoluzione all’Impero – Auber e Spontini
Nel periodo
dalla Rivoluzione al Primo Impero (quello per intenderci di Napoleone il Grande), il genere che ebbe maggior
successo fu proprio l’opéra-comique nelle sue varie declinazioni. Solamente quasi in coinciden- za con il Direttorio ed il periodo
napoleonico, arrivarono i successi delle opere di Gaspare Spontini,
un genere nuovo con forti contenuti etici
ed anche espliciti
riferimenti alla politica.
Dalla nativa piccola
Maiolati nelle Marche (dove era nato e dove, dopo una lunga vita all’estero, morì) e da Napoli (dove aveva studiato),
Spontini portò – prima a Parigi e poi a Ber- lino
– quella che possiamo chiamare
(ma all’epoca nessuno
la denominò così) opéra impérial.
Nel campo della
opéra-comique, il nome di Daniel
Auber è noto in Italia perché anni fa è stata riproposta
a Macerata la sua Manon Lescaut (lavoro tardivo del 1856) e di recente si è vista a Bari La Muette de Portici (1828) – un lavoro ispirato dalle vicende di Masaniello, guardando alla ri- voluzione di fine Settecento e preparando, per certi aspetti,
quella del 1830 che portò alla cosiddetta
«Monarchia di Luglio» con la fine dei Borbone e l’assunzione del Regno da parte di Luigi Filippo d’Orléans – non un mero cambiamento di casati
ma la sostituzione di aristocrazia (e clero) con la borghesia alle leve del potere. Almeno importante quanto Auber è François- Adrien
Boïeldieu la cui Dame Blanche (1825) ebbe ben mille e cinquecen- to repliche solamente
all’Opéra Comique di Parigi (ed almeno altrettante nel resto della Francia)
e, nonostante abbia avuto una modesta circolazione
in Italia, venne
considerata in tutta Europa, soprattutto in Germania dove ebbe ampia diffusione in traduzione ritmica, come l’esempio migliore dell’opera «nazionale» francese. È infatti caratterizzata da alternanza di parti dialogate e «numeri musicali», un intreccio complicato tratto dalla fusione di due romanzi di Walter Scott (scrittore romantico per eccellenza), con numerosi personaggi (e l’opportunità di fare valere
le loro abilità a molteplici cantanti-attori), frequenti cambiamenti di scena ed una partitura che
sottolinea i lati pittoreschi di una Scozia
immaginaria. Boïeldieu era già anziano quando compose La Dame Blanche; si era in piena «restaurazione» politica, una «restaurazione» che, però, non comportò il ritorno né al clas- sicismo pre-Gluck
né tanto meno al barocco alla Rameau.
Il repertorio di opere tra fine Settecento
ed inizio Ottocento
è ricchis- simo, con prevalenza di opéra-comique a carattere, però, drammatico piut- tosto che leggero, o sentimentale, o chiaramente comico e buffonesco. Prese anche piede il genere delle opéra-comique à sauvetage, opere «a sal- vataggio» il cui argomento (spesso imperniato su un signorotto
o burocra- te crudele da cui riescono a salvarsi
i protagonisti quando «arrivano i nostri»), poteva andare bene sia all’aristocrazia perseguitata dai giacobini sia ai ri- voluzionari che rivendicavano nei «nostri» i loro sodali. Di gran successo Léonore ou l’Amour
Conjugal di
Pierre Gaveaux del 1798 (con un libretto molto simile
a quello utilizzato da Ludwig Van Beethoven per le varie ver- sioni
di Fidelio) e Lodoïska di Luigi Cherubini
del 1796 – ambedue scritte quando già si avvertivano i rulli dei tamburi rivoluzionari. Mentre la prima è sparita
dai cartelloni, la seconda è stata riproposta con successo anche in Italia. Negli anni più prettamente violenti e sanguinosi della Rivoluzione, il lungo elenco di autori e di opere messe in scena privilegia temi ironici op- pure quelle che oggi chiameremmo «commedie
borghesi»; si andava a tea- tro anche per dimenticare la ghigliottina.
Il favore degli argomenti e della musica leggera continua anche nel Direttorio e in
epoca
napoleonica,
quando Spontini arriva a Parigi,
aven- do nella sua valigia solo qualche opera buffa italiana. Produce due deli- ziose piccole opere in francese, Julie ou le pôt de fleurs e Minton (riprese anni or sono al Festival
Pergolesi-Spontini a Jesi), ma soprattutto in Fran- cia acquista dimestichezza con le opere francesi di Gluck, che non erano all’epoca circolate in Italia. Venne letteralmente folgorato da Iphigénie, che veniva rappresentata
anche nel periodo del Terrore (l’opera metteva in scena pure sacrifici umani e era quindi in linea con le circostanze). Spontini si propose di riprendere la tragédie-lyrique dell’ultimo Gluck e divenne, con tre capolavori, il traghetto verso il grand opéra con un rigo- re stilistico che i maggiori autori del grand opéra non riuscirono mai ad
eguagliare: La Vestale
(1807), Fernand Cortez (1809) e Olympie (1819). Sono lavori oggi raramente
rappresentati – al pari di quelli composti suc- cessivamente
per la
Corte
di Prussia
– a ragione dello sforzo
organizzati- vo e del costo che comportano: grande orchestra (con impiego di stru- menti mai prima
utilizzati ed a volte progettati
e costruiti all’uopo), dop- pio coro, coro di voci bianche, grandi voci, effetti scenici speciali. Hanno forti contenuti etici, pur strizzando un occhio alla politica (Fernand Cor- tez è senza dubbio un inchino alla campagna di Spagna lanciata da Napo- leone ed allora in corso). I suoi lavori avevano un linguaggio musicale perentorio e tagliente con poche idee fondamentali ma di prepotente pla- sticità ritmico-tematica con cui costruire edifici così complessi che sola- mente, e più tardi, Hector Berlioz avrebbe tentato di replicare con suc- cesso. Vere opere imperiali quasi plasmate su Napoleone e la sua Corte
– quasi
un’Austerlitz operistica. Occorre
essere grati al Théâtre des
Champs Elysées che nel 2013 ha riportato in scena La Vestale. Purtroppo le recite programmate
a Jesi e Trieste sono state cancellate per ragioni di costo. Il Théâtre des Champs Elysées, in collaborazione con il Centre veneziano, metterà in scena Olympie nel 2016. Eventi di grande interesse non solo per i musicologi ma per tutti coloro che si interessano al periodo napoleo- nico.
Consentono di meglio comprendere una società, quella dell’Impero, che uscita dalla Rivoluzione e non ancora tornata, per un breve periodo, al passato con la Restaurazione, ha un grande senso dei propri valori a cui
si considera radicata
– valori che, con più di una punta di presunzione, considera superiori a quelli del resto del mondo.
Dalla Monarchia di Luglio al Secondo Impero
– Meyerbeer, Berlioz, Offenbach
Il Regno di
Luigi Filippo d’Orléans
– nato dalla Rivoluzione del luglio
1830, ben descritta da Victor Hugo ne Les Misérables – non rappresentò unicamente la fine del sogno restauratore dei Borbone ma fu caratterizzato da un turbinio
di governi, contrassegnati di tanto in tanto da moti popola- ri. Riuscì bene o male a riportare ordine in una società che dalla fine del
Settecento passava da convulsione a convulsione. Come si è anticipato, non fu solamente un
cambiamento di regime politico (con una forte
svolta ver- so il parlamentarismo) ma denotò un profondo cambiamento sociale, to- gliendo più rapidamente di quanto si pensasse le leve del potere dall’aristo- crazia agraria e da quel che era rimasto del clero per darle alla borghesia
–
una borghesia di servizi (specialmente finanziari), professioni e commer-
cio più che di industria manifatturiera (la Francia è un Paese classificato «di tarda industrializzazione»).
Nei teatri più «alti» dove avevano dominato la tragédie lyrique e l’opéra impérial entrava di gran forza il grand opéra. Negli altri, restava l’opéra- comique ma nell’ambito del genere diminuivano i titoli di argomento dram- matico mentre aumentavano quelli a carattere
leggero ai confini
tra l’opera buffa settecentesca e quella che sarebbe diventata l’operetta.
Una figura su tutte dominò il grand opéra, Jacob Meyerbeer, ebreo te- desco che aveva
avuto un moderato successo in patria
(da dove importò in Francia l’opéra-comique L’Etoile du Nord), aveva soggiornato a Parigi ma vi ritornò
proprio nel 1830 per restarvi
sino alla morte nel 1864, diventan- do dominatore assoluto dell’Académie Royale de Musique e dell’Opéra, che all’Académie succedette. Le sue opere parigine – Robert le Diable
(1831), Les Huguenots (1836), Le Prophète (1849) e L’Africaine (rappresentata postuma nel 1865) sono raramente riprese
a ragione del costo che compor- tano le loro produzioni in termini di apparato scenico,
corpi di ballo, cori e quant’altro. Per anni, in numerose storie
della musica, Meyerbeer
è stato trattato come un affarista dedito a soddisfare
i gusti più biechi di un pub- blico di nouveaux riches e ne è stata messa in dubbio anche l’appartenenza al Romanticismo. Uno dei maggiori
storici della musica, Friedrich Blume (che peraltro
non ha in grande simpatia
il Romanticismo, ed in particolare quello francese) considera Meyerbeer poco più di un mestierante alla ricer- ca di un pubblico ricco ma essenzialmente poco colto.
In effetti,
come ricordò anni fa Claudio Casini, c’era una stretta
coin- cidenza tra le esigenze
del pubblico e le opere meyerbeeriane, riprese per decenni non solo a Parigi
e non solo in Francia.
In effetti, Meyerbeer operò una fondamentale trasformazione del teatro musicale europeo influenzando i maggiori compositori anche di altri Paesi (come lo stesso Verdi):
l’elabo- razione musicale era predisposta allo scopo di affidare ad ogni parte della macchina teatrale
disponibile un ruolo che, in determinati momenti,
diven- tava primario. In certi casi, tale ruolo
apparteneva all’orchestra, in altri al virtuosismo vocalistico, in altri ancora al balletto,
ed infine anche ai cam- biamenti di scena (spesso accompagnati da intermezzi
sinfonici). Le opere di Meyerbeer sono musicalmente deboli
se comparate con quelle del suo quasi coetaneo
Berlioz. Tuttavia, riescono ancora
oggi ad avere grande presa sul pubblico:
rispolverato negli anni Settanta del secolo scorso dal Metropolitan, Le Prophète è rimasto in cartellone per diversi anni. Les Huguenots è stato riproposto nel 2002 al Festival di Valle d’Itria,
ma in un’edizione così povera sotto tutti i punti di vista da non poter esprimere un giudizio (ne fa fede il DVD improvvidamente messo in commercio).
L’Africaine, vista ed ascoltata a La Fenice nel 2013, è un lavoro affascinan- te (anche se di difficile
realizzazione). In Meyerbeer le forme musicali hanno compiti decorativi rispetto all’azione in quanto il dramma, elabora- tissimo, ha interesse primario.
Tale scissione si ha anche nei suoi allievi francesi (come Fromental Halévy la cui Juive ha ancora un tremendo suc- cesso) ed anche nei meyerbeeriani italiani
(la scuola chiamata
del grand opéra padano, come Stefano Gobatti, Filippo Marchetti, Amilcare Ponchiel- li, Lauro Rossi).
Ovviamente non sfiora
le opere di Verdi (Jérusalem, Les vêpres siciliennes, Don Carlos) più influenzate da Meyerbeer, le quali inve- ce amalgamano perfettamente musica e drammatizzazione.
Quasi coetaneo di Meyerbeer, Hector Berlioz,
oggi considerato uno dei maggiori, ove non il maggiore, esponente del Romanticismo francese (pur se, come
detto in precedenza, non si considerava tale), ebbe una
vita arti- stica totalmente scollata
dalle preferenze del pubblico. La sua Symphonie Fantastique (1830), primo grandioso esempio
e del sinfonismo romantico francese
e dei poemi sinfonici, creò una disputa
tra critici musicali
ma ebbe poco più di un successo
di stima. Fato simile per Harold en Italie.
La Dam- nation de Faust (1828), che venne
considerata uno strano
oggetto; non si sapeva se concepita per la sala da concerto
o per la scena (in quanto non rispondeva ad alcun genere
e canone preciso). Il gigantesco Requiem sem- brò troppo costoso
e troppo decorativo. La sua grande
opera autobiografi- ca Benevenuto Cellini (1838) fu un insuccesso clamoroso all’Académie Royale de Musique, dopo che la versione con
parti dialogate era stata rifiu- tata dall’Opéra Comique. Timidi successi
a Londra ed in Germania
(in traduzione) sino al buon
esito nel piccolo
teatro di Weimar dove arrivò
nel 1856 su insistenza di Franz Liszt;
alcuni manuali francesi
di storia della musica anche
oggi non si curano di menzionarla così
come non menziona- no quel capolavoro romantico-esistenzialista che è Lélio ou le Retour à la Vie, messo in scena al Teatro dell’Opera di Roma nel 2003. L’opéra-comique Béatrice et Bénédict venne commissionata dal Theater der Stadt di Baden- Baden dove fu rappresentata nel 1862; venne messa in scena a Parigi, all’Opéra Comique,
solo nel 1966. Ebbero un certo successo
il sensuale Roméo et Juliette e L’Enfance du Christ. Solo nella seconda
metà del No- vecento è stato apprezzato Les Troyens (di cui si è vista una bella edizione alla Scala nel 2014 ed una discutibile al Comunale di Firenze circa dieci anni prima), che Berlioz considerava il suo figlio
prediletto e, per quanto contenesse
concessioni al grand opéra, venne
giudicato irrappresentabile: troppo lungo per una serata nella versione integrale
in cinque atti; se diviso in due opere
per due serate,
ciascuna sarebbe stata
troppo breve; troppi personaggi; troppe scene;
troppe marce; troppe
danze. In breve,
la seconda
parte con il titolo di Les Troyens
à Carthage arrivò al Théâtre
Lyrique nel 1863 senza riscuotere un vero successo. L’integrale venne eseguita in forma di concerto a Karlsruhe nel 1890. A Parigi arrivò,
in versione molto taglia- ta, nel 1921. Solo nel 1969, a Londra il Covent Garden rappresentò per la prima volta la versione integrale
in forma scenica.
Forse il maggior
succes- so
di Berlioz in vita fu la rielaborazione di Orphée et Eurydice
di Gluck presentata nel 1859
all’Opéra (e di cui nel
2014 si è vista ed ascoltata una superba edizione al Teatro Massimo di Palermo). Un vero paradosso; Orphée et Eurydice era stata composta dal primo «romantico» Gluck per la Corte
prima della Rivoluzione, veniva rielaborata per il Secondo
Impero nel pie- no del suo fulgore in stile «romantico» da un Berlioz che tale non si consi- derava. Era gradita
però dal pubblico,
a Parigi ed in provincia.
Il pubblico
borghese voleva anche, e soprattutto, divertirsi. Quindi, le varie forme di teatro musicale comico, la cui produzione e circuitazione non era
diminuita neanche nei momenti più bui della Rivoluzione e del Terrore, ebbero
un’enorme fioritura, spesso anche in teatrini costruiti
con materiale facilmente trasportabile da un luogo all’altro, con palcoscenici che conte- nevano al massimo tre cantanti-attori, e con minuscole
buche d’orchestra per organici elementari.
Sul teatro comico in musica francese ed in particolare sull’operetta, anche se meno nota di quella austro-ungarica, esiste una letteratura enor- me.
Purtroppo è un repertorio in gran misura
perduto, specialmente al di fuori
della Francia. Anni fa, il tentativo di riprendere in Italia alcune
ope- rette di Jacques Offenbach, che ne compose oltre cento, ebbe un successo mediocre: solo un Orphée aux Enfers, presentato a La Fenice
nel Carne- vale
1985 in una produzione di lusso, e La Grande-Duchesse de Gérolstein presentata con una regia di Jérôme Savary al Teatro dell’Opera
di Roma, più o meno nello stesso periodo, richiamarono pubblico ed ebbero critiche positive. Il tentativo di proporre, in tournée in
varie città, M. Choufleuri restera chez lui e La Belle Hélène fu
un fiasco totale.
In effetti, si tratta di lavori molto legati alla satira sociale e politica del tempo in cui vennero concepite, un aspetto
che oggi ha poco mordente
in quanto manca di un contesto di riferimento. Tuttavia, l’ultimo
lavoro di Offenbach
(Les Contes d’Hoffmann) è un grandissimo successo,
per quanto incompiuto; ciascuno dei suoi tre atti è un breve racconto
indipendente, incorniciati da un pro- logo ed un epilogo e da un tema comune – l’impossibilità o l’incapacità del protagonista di comunicare con la donna
di cui è di volta
in volta innamo- rato. Si è visto di recente non solo nei teatri maggiori ma anche in quasi tutti i «teatri
di tradizione». Spigliato, divertente, ironico (nei confronti di temi non solo collegati
al tempo in cui è stato scritto ma universali e,
quindi, atemporali), intriso di malinconia, sembra corrispondere a pieno ad
un’Europa da anni in crisi.
E pare riecheggiare la concezione intimisti- ca di Lélio di Berlioz.
Per fare conoscere l’operetta francese, collegandola con un evento
corrente (l’Expo internazionale di Milano), il Centre veneziano ha avuto un’idea brillante:
dato che il tema dell’Expo è il
cibo e che la borghesia di Luigi Filippo
e del Secondo Impero creò il mito della buona tavola, ha proposto, a Venezia, Milano, Parigi ed in autunno in giro per l’Europa, un interessante spettacolo che illustra
bene il nesso tra musica, da un lato, e società civile e politica, dall’altro: Le Ventre de Paris. Arnaud Marzorati e Florent Siaud
(gli
autori) hanno concepito lo spettacolo
scegliendo arie, duetti, terzetti, quartetti
e musiche di compositori notissimi come Bizet, Hervé, Offenbach, Ambroise Thomas, Spontini (gran buongustaio e gran cantore dei buoni vini), ma anche meno conosciuti come Antonin Aula- gnier, Charles Lecocq,
Edmond Audran, Raoul
Ponchon, Bugnot, Vincent Hyspa, di un teatro in musica considerato «minore» unicamente perché differente dal grand opéra e frequentato anche dalla piccola borghesia (vi ricordate il film di Marcel Carné, Les Enfants du Paradis?) che riempiva i loggioni per prendere in giro l’ingordigia (non solamente di cibo, vini e belle donne) dei potenti.
Le Ventre de Paris ha un unico legame, molto labile, con il trucido ro- manzo
di Émile Zola del 1873: il titolo. La storia di Zola si svolge intera- mente alle Halles,
i mercati generali
di Parigi costruiti
tra il 1854 e il 1870. In effetti, al di là delle intricate
e intrecciate vicende,
Le Ventre de Paris è una metafora che fa riferimento all’abbondanza di cibo nel quartiere
dei mercati generali e alla bellezza
di donne «grassocce», ma anche alla miseria nei bassifondi e nelle periferie. Nulla di ciò nello spettacolo veneziano. In primo luogo, si basa sull’operetta e sulla musica
popolare, dalle canzonette ai canti d’osteria. Quindi non si mangia e non si beve per tessere intrighi (come avviene
di frequente nel grand opéra),
ma solo per il piacere
del gusto
(associato a quello dell’eros). Si inizia con chiacchiere salottiere
(sul tema
comunque della gastronomia), per passare agli aperitivi (una vera e propria cerimonia) e, una volta a tavola, agli elogi delle varie pietanze a base di carne (al manzo, al maiale, ai vari tipi di agnello);
allora la cena diventa davvero carnale, con una sensualità sempre più esplicita. Ma la Francia ottocentesca è anche bacchettona: non manca La canzone
del ver- me solitario
sino a un coro finale in cui si prega il Signore: se si deve mori- re, ciò avvenga a stomaco pieno di buone vivande e con il palato profuma- to di grand cru. Nella mise en espace di Florent Siaud, in un ipotetico fine Ottocento, due coppie (il soprano Camille Poul, il mezzosoprano Caroline
Meng, il tenore David Ghilardi,
il baritono Arnaud Marzorati) si danno appuntamento per un convivio. Li accompagna un piccolo ensemble: Danier Isoir al pianoforte, Isabelle Saint-Yves al violoncello, Mélanie Flahaut al flagioletto e al fagotto. Forse il modo migliore per comprendere e lo spirito dell’operetta e quello che Luis Buñuel
chiamò Il fascino discreto
della bor- ghesia in un film che fece epoca.
La Terza Repubblica dell’industrializzazione trionfante – Bizet e Massenet
Dopo la débâcle, la battaglia di Sedan nella guerra
contro la Prussia
(il cui
re venne incoronato imperatore tedesco proprio
a Versailles), molte cose
cambiano. In politica,
in economia ed in musica. Nasce la Terza Re- pubblica la cui politica interna
fu caratterizzata da governi molto instabili, a causa di
maggioranze divise o poco superiori di numero alle
opposizioni. Il disorientamento per la grave sconfitta subita
e l’instabilità politica
favo- rirono vari scandali finanziari (Canale di Panama, Stavisky), tentativi
di colpi
di Stato a volte degni di opéra-comique (Boulanger) ed episodi
di antisemitismo come l’affaire Dreyfus. Il forte nazionalismo di alcuni am- bienti militari
alimentò scontri. Non mancarono, tuttavia,
vaste riforme sociali, alcune di stampo apertamente anticlericale. La politica
estera fu caratterizzata dall’espansionismo coloniale,
dal sentimento di rivalsa nei confronti della Germania e da un isolamento relativo
che perdurò fino a quando Russia e Gran
Bretagna non riscontrarono nella
Germania un pe- ricolo maggiore. La politica
economica era fortemente interventista con un marcato accento
sull’industrializzazione. Al pari della Germania,
e poi dell’Italia, la Francia è un Paese di tarda industrializzazione ma la crisi dell’agricoltura, dopo la guerra
con la Prussia, spinse a dare la priorità all’industria pesante,
alla meccanica e al tessile, al riparo di forti barriere commerciali e favorendo cartelli. Come gli altri due principali Paesi europei di tarda industrializzazione, la Francia ebbe l’opportunità di cogliere i frut- ti di periodi
e fasi di sperimentazione della Gran Bretagna, primo Paese a scegliere la via dell’industria manifatturiera. Quindi, alla borghesia di ori- gine agraria e commerciale, un nuovo ceto sostituì il pubblico di spettacoli costosi ed istituzionali come l’opera: gli imprenditori ed i manager dell’in- dustrializzazione trionfante
ed i banchieri che li finanziavano spesso con denaro proveniente da Stati ed aree dove l’antisemitismo era ancora più diffuso e radicato che in Francia.
Quasi
in parallelo, proprio
subito dopo la débâcle, venne fondata
la Société Nationale de Musique
da Romain Bussine
e Camille Saint-Saëns, i
quali ne condivisero la presidenza, e fra i primi soci figurarono César Franck, Ernest Guiraud,
Jules Massenet, Jules Garcin, Gabriel
Fauré, Alexis de Castillon, Henri Duparc, Théodore
Dubois, e Paul Taffanel. Essa venne concepita in reazione
alla tendenza indirizzata prevalentemente alle com- posizioni operistiche rispetto alla musica
per orchestra (in contrapposizio- ne a quanto
avveniva in Germania) ma anche per portare il sinfonismo nella lirica (come aveva fatto Wagner oltre Reno). Soprattutto la Societé era
un’iniziativa privata di artisti e professionisti, al di fuori della rigorosa ripartizione per generi che abbiamo visto in precedenza. Nasce una fase che alcuni musicologi francesi
chiamano «Académisme». È la fine del Roman- ticismo oppure, come oltre Reno, inizia un tardoromanticismo che meta- bolizza nuove conquiste
e nuove tendenze?
Propendo per la seconda
ipotesi, anche in quanto gli autori (ancora popolari nei cartelloni, non solamente in Francia)
si agganciano spesso ad argomenti e stili
che avevano tipizzato i decenni
del passato recente. Pen- siamo, ad esempio, a Ambroise Thomas, le cui opere sono ispirate a Sha- kespeare, od a Charles Gounod, i cui lavori più noti si basano su testi di Goethe
e Shakespeare (affiancandoli ad una ricca produzione di musica sacra), oppure a Ernest Reyer, il cui Sigurd ha
il chiaro sapore
di imitazione wagneriana (il più romantico
tra i romantici) e nella vicenda e nella musica o a Lèo Delibes,
la cui esotica Lakmé è inconcepibile senza
il precedente de L’Africaine od al brillantissimo Camille Saint-Saëns, il cui Samson et Dalila del 1877 si collega al grand opéra, pur se con un’orchestra di dimen- sioni wagneriane
e tessiture vocali differenti (un tenore con un registro di centro e un mezzosoprano in grado di scendere ad un registro
da contralto come protagonista, come stava per avvenire nel verismo italiano).
In questo contesto, si situa Georges Bizet (che, al pari di Bellini, ebbe vita molto breve e, quindi, è impossibile speculare
quale percorso avrebbe preso e con quali esiti). Dopo qualche escursione nell’operetta, e tre lavori ancora oggi spesso
in scena (Les Pêcheurs
de Perles, La Jolie Fille de Perth, Djamileh) in stile
di opéra-comique ma sostanzialmente influenzati anche loro dal Meyerbeer
de L’Africaine, irrompe con un lavoro del tutto insolito, nonostante la forma
di opéra-comique, che un musicologo come René Lei- bowitz (non certo incline ad essere attratto dalla musica popolare)
consi- dera
come l’antesignano di Wozzeck di
Alban Berg: Carmen. Il debutto andò in scena pochi giorni prima della morte di Bizet, amareggiato per le stroncature della critica.
Il grande successo
esplose a Vienna con Carmen trasformata in opéra lyrique con i dialoghi
parlati musicati da Ernest Gui- raud. Carmen è diventata, con La Traviata, l’opera che si contende ogni anno, nelle statistiche di OperaBase (il maggior sito operistico internazio-
nale) la palma di opera più rappresentata al mondo da quando si dispone di dati affidabili su allestimenti e recite. Rispecchia molti aspetti della Ter- za Repubblica. Senza
dubbio, non solo Alban Berg,
ma anche Igor Stravin- sky, Darius Milhaud e altri pescarono
a piene mani nella scrittura
musicale di Carmen. L’opera
mostra, come pochi lavori dell’epoca (forse si dovrebbe paragonare con il visivo di Egon Schiele alcuni decenni più tardi in Austria), i lati più crudi della
Terza Repubblica. Appartiene ancora al Romanticismo o, al pari di una tela di Renoir, Manet, Monet e Toulouse-Lautrec, indica che un’altra stagione
è iniziata? È difficile dare una risposta.
È invece
senza dubbio legata
al Romanticismo l’opéra romance
che caratterizza la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento e riflette i lati più
esteriori dell’opulenza dell’industrializzazione trionfante
della Terza Repubblica. Tralasciamo autori
ora raramente rappresentati al di fuori dalla Francia, come Gustave Charpentier e Alfred Bruneau,
per soffermar- ci su Jules Massenet, di enorme successo
all’epoca in cui coniugava l’atti- vità
di professore di conservatorio con quella di libero professionista spe- cialmente nel teatro musicale,
per cui compose
ventitré opere (solo quattro meno di Verdi). Alcune
(Esclarmonde, Hérodiade, Le Cid, Grisélidis, Thaïs, Le Roi de Lahore) adattano il grand opéra ai gusti di una società
salottie- ra, dove l’anticlericalismo veniva
coniugato con genuflessioni ed acqua santa. Difficile, al di fuori del clima della Terza Repubblica, concepire che il debutto di Hérodiade in cui Giovanni Battista canta duetti d’amore con Salomè sia stato un evento internazionale con treni speciali
da Bruxelles e dalla Germania. Altre indulgono nella Literaturoper (opere tratte da testi letterari molto conosciuti nel ceto dominante
dell’industrializzazione trion- fante); si tende alla romance da salotto, risposta
francese al Lied tedesco. È il caso di Manon e Werther, due
dei lavori di Massenet ancora oggi più rappresentati ed apprezzati, soprattutto il secondo
al confine tra Roman- ticismo e nuove tendenze; tali tendenze avevano i capiscuola in César Franck e
nei suoi allievi,
nonché in spiriti
liberi come Emmanuel
Chabrier e Gabriel Fauré, insofferenti ad ogni «scuola».
Nella ricca produzione
di Massenet emergono un’opera a carattere
religioso, di cui ricordo una sola produzio- ne in Italia al Teatro dell’Opera di Roma (Le Jongleur
de Notre-Dame) ed una
sull’invecchiamento (Don Quichotte) in una bella messa in scena de La
Fenice che ha girato in Italia ed all’estero. Si distaccano dalle altre poiché rappresentano introspezioni distanti dalla magniloquenza dell’in- dustrializzazione
trionfante.
In effetti,
Massenet e la sua opéra romance sono
forse l’ultima espres- sione del nesso tra teatro in musica e Terza Repubblica. Gli autori men- zionati nel paragrafo precedente (e numerosi
altri meriterebbero di essere
citati) hanno successo
caduco nel teatro in musica ed il loro merito mag- giore
consiste nell’aver portato
in Francia la grande sinfonica ed il Lied trasformato in romance.
Inoltre, negli anni in cui la Terza Repubblica
volgeva al tramonto e si udivano i primi rulli di tamburo di quella che sarebbe stata la Prima guerra mondiale, il cinematografo nasceva proprio in Francia e soppiantava in buona misura,
se non la musica, quantomeno il teatro in musica come espressione della
società e della
politica.
Un cenno alla cameristica – Onslow
La Francia non è solo Parigi, regina della politica e del teatro in musica. Specialmente nell’Ottocento era anche una smisurata campagna
con capo- luoghi e città storiche. Numerose
disponevano di teatri
dove venivano messi
in scena lavori nati nella capitale. Ma lì fioriva la cameristica che accompagnò rivoluzioni, imperi, repubbliche e regni. Uno scrigno in gran misura da scoprire, soprattutto in Italia.
Un contributo
importante è stato dato questa primavera 2015 dal Fe- stival Onslow, un’iniziativa a vasto raggio
diretta a far conoscere un musi- cista poco noto anche in Francia sino a quando una musicologa, Viviane Niaux, ha riscoperto alcune sue maggiori
partiture e, più di recente,
ha curato un importante volume collettaneo di oltre
400 pagine sull’autore.
Il Festival
include, oltre a dieci concerti
al Centre de Musique Roman- tique Française a Venezia dall’11
aprile al 21 maggio, appuntamenti anche ad Amsterdam, Berlino, Stoccolma, Londra e Parigi
(durante e dopo la manifestazione veneziana).
Chi era André George Louis Onslow, di solito chiamato George Onslow nei manuali di storia della musica? È stato uno dei più importanti composi- tori francesi di cameristica, malgrado il nome tipicamente britannico (tale era suo padre). Obliato per decenni in patria, sia perché non viveva e non operava a Parigi ma nel castello di famiglia a Clermont-Ferrand (era ricchis- simo alla nascita e lo divenne ancora di più
cumulando eredità), sia perché nell’arco della sua vita (1784-1853), quindi da poco prima della Rivoluzio- ne alle soglie del Secondo Impero, si dedicò quasi esclusivamente alla mu- sica
strumentale. Allora, nel settore, dominava
l’opera. Inoltre, Onslow guardava più all’innovazione in Germania (venne soprannominato da alcu- ni appassionati «il Beethoven francese») che a quanto avveniva in patria.
Ad un ascoltatore di oggi che abbia accesso ad una maggiore cono- scenza della musica romantica tedesca, Onslow pare più vicino
a Schubert
ed a Mendelssohn che a Beethoven sia per la lunghezza dei suoi «movi- menti» (nelle sonate arrivano a 15 minuti per movimento)
sia per il ca- rattere intimistico di molta della sua musica. Il Festival,
quindi, non è solo per musicologi: consente di comprendere meglio quella vasta Francia agricola provinciale che, pur scansando Parigi, è in contatto con il resto della cultura europea.
Onslow, che ha sempre
vissuto di rendita
nei castelli aviti ed aveva la fama
di ottimo gestore
del proprio patrimonio (a differenza dei parigini che
spesso si affidavano a amministratori malandrini), quasi snobbando i colleghi (sovente questuanti) che affollavano i salotti della capitale, è sta- to un compositore fecondo; oltre ad un’enorme cameristica, ha composto anche
tre opere (rappresentate in Francia e Germania) e quattro sinfonie. Stimato da critici
e musicologi dell’epoca, ebbe un seguito
significativo (più in Gran Bretagna
e Germania che in Francia),
ma dalla seconda
metà dell’Ottocento il suo nome ed i suoi lavori sono stati coperti da una coltre di oblio, nonostante egli abbia avuto importanti onorificenze in Francia e in Gran Bretagna.
Le ragioni della sua scarsa fama sono molteplici: non solo il predominio del teatro in musica nei gusti del grande pubblico, ma soprattutto la diffi- coltà di eseguire
lavori anche brevi ma molto complessi, destinati
a salotti privati ma che richiedevano musicisti
di grande livello
e non sempre pron- ti a recarsi nella rurale Auvergne. Altro aspetto, il rifiuto della «musica a programma» che cominciava a dominare il panorama musicale
non solo tedesco ma anche francese.
Onslow fa parte di quella visionaria scuola francese che seppe scoprire assai presto
il valore delle conquiste armoniche della musica tedesca.
Sotto l’Impero, infuriava il dibattito tra melodisti (André-Modeste Grétry, François- Joseph Gossec) e cromatisti (Étienne Nicolas Méhul, poi Ferdinand Hérold). Tra i melodisti, Charles-Simon Catel, autore di un Traité d’harmonie (1802), divenuto presto famoso,
era fervente ammiratore di Mozart e sostenitore di un
germanismo moderato. Parallelamente, il giovanissimo Hyacinthe Jadin e pianisti innovatori
come Hélène de Montgeroult e Jean-Louis Adam in- tensificano la propria
scrittura con invenzioni armoniche sorprendenti. Onslow è partecipe di questo dibattito
e di conseguenza di questo slancio
verso la modernità.
Giuseppe Pennisi
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