Nostalgie d’America, Bob Dylan
conquista Caracalla
GIUSEPPE PENNISI
ROMA
Con Bob Dylan alle Terme di
Caracalla, in una serata davvero speciale, il cowboy musicale per antonomasia
della seconda metà del ventesimo secolo è giunto, con la sua band, nelle più
grandiose rovine romane. La sera e la notte romana hanno accarezzato il
cantante ed i suoi collaboratori; serata calda ma ingentilita dal ponentino; un
tramonto bellissimo mentre stava per iniziare lo spettacolo e tre quarti di
luna sorridente al termine attorno a mezzanotte; cavea piena (circa 4000
spettatori entusiasti, dato che sono state aggiunte file di poltrone nella buca
d’orchestra); discesa attorno al palco alle ultime canzoni, seguita da
ovazioni. Era il secondo concerto di questa breve tournée italiana (nell’ambito
del “never ending tour” internazionale) iniziato a San Daniele nel Friuli e con
le prossime puntate a Lucca ed a Torino, il primo ed il due luglio.
Sul palco gli stessi musicisti che
lo accompagnano da diversi anni: il bassista Tony Garnier che suona con lui dal
1989, il batterista George Recile, i chitarristi Stu Kimball e Charlie Sexton e
il polistrumentista Donnie Herron (banjo, mandolino, pedal stele). Un ensemble
molto raffinato, capace di passare da tinte jazz a quelle blues, suonando come
le vecchie band degli anni 40 e 50. Bob Dylan ha suonato il pianoforte ed in
diversi brani è stato al centro del palco cantando e accompagnandosi solo con
l’armonica che suona come un vero virtuoso. Sono stati eseguiti circa venti
brani tra i più noti del suo repertorio: Things Have Changed ha aperto
il concerto seguito da She Belongs To Me, Beyond Here Lies Nothing, Tangled
Up in Blue, Blowin’ in The Wind e l’omaggio a Frank Sinatra (ed Edith Piaf)
con
Autumn Leaves. In breve un’antologia dei suoi più
noti successi. Sarebbe stato utile fornire un programma con i testi o, meglio
ancora, proiettarli sui lati del palco. L’aspetto saliente è come Dylan ha
gestito la propria vocalità. Ricordo, per motivi molto personali la sua voce negli
Anni Sessanta: il primo ottobre 1966 studiavo negli Usa e partecipai alla
marcia sul Pentagono contro la guerra in Vietnam organizzata dagli Students for
a Democratic Society, mentre dagli altoparlanti si ascoltavano le canzoni
raccolte da Dylan nell’album Bringing it Back Home. Aveva un voce
vellutata tra il tenore lirico ed il bari tenore. Ora è chiaramente un
baritono. Ha forse perso il velluto ma a 74 anni compiuti ha un’intonazione, un
fraseggio ed un legato da fare invidia. Pochi cantanti (un raro esempio è Anja
Silja) hanno gestito il proprio strumento in modo così abile.
Dato che si è scelta un’antologia
pop-folk per un tour internazionale, mancavano dal programma due aspetti
importanti del contributo musicale di Dylan. Il primo è quello dei “diritti
civili” (non solo il “pacifismo”) che ha contrassegnato diversi anni del suo
repertorio: un tema vivo ed importante come non mai, testimoniato da tragici
episodi di cronaca avvenuti di recente negli Usa. Il secondo è la sua musica
spirituale e religiosa in senso lato ed ecumenico: dalle canzoni che in qualche
modo rispecchiano le sue simpatie per la Jewish Defense League a quelle del
periodo in cui Dylan e sua moglie parteciparono al movimento dei New Born
Christians. Sono dimensioni poco note al pubblico europeo (ed a quello non
americano in generale). Proprio per questa ragione sarebbe stato utile svelarlo
nello splendore delle Terme di Caracalla.
© RIPRODUZIONE RISERVATA Il menestrello del rock a Roma
ripercorre la sua incredibile carriera. Un repertorio di hit storiche da cui
purtroppo mancano la fase dedicata ai diritti civili e la sua musica spirituale
CANTAUTORE. Bob Dylan
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