Perché Atene non potrà fare come
l’Argentina
Mentre si dipanano gli eventi, analizziamo le possibili
conseguenze di un’uscita della Grecia dall’Eurozona. Detto senza troppi giri di
parole: il rischio è che per Atene si passi da anni 'duri' ad anni 'durissimi'.
L’esempio più immediato è il default dell’Argentina nei
confronti del Fondo monetario internazionale. Una vera e propria catastrofe per
il Paese latino- americano, alla settimana insolvenza dalla sua indipendenza
nel 1816: svalutazione massiccia, moti popolari, fallimenti di banche e di
imprese. L’Argentina, però, fu in grado di rimettersi in cammino perché dotata
di enormi risorse naturali, di una popolazione altamente qualificata (41
milioni di cittadini) e di un Pil di oltre 600 miliardi di dollari nel 2013.
Oltre a questo, fruì pure di un importante vantaggio congiunturale: il boom di
Cina e Brasile e la forte domanda di materie prime da lei prodotte. Rimborsò in
questo modo il Fmi nel 2005 e tornò ad ottenere prestiti sui mercati
internazionali. La Grecia, con una popolazione di 11 milioni di persone e un
Pil prima della crisi pari ad un terzo di quello dell’Argentina è in condizioni
nettamente peggiori. Soprattutto se prevale la tesi secondo cui uscita
dall’euro (dove si è entrati volontariamente e 'massaggiando', diciamo così, i
conti) vuole anche dire espulsione dall’Unione Europea. Non sarebbe solamente
la Grecia a soffrirne. In primo luogo, le inevitabili tensioni sui mercati
potrebbero frenare i barlumi (tremuli) di ripresa in Europa. Da un altro, c’è
il rischio di graduale sgretolamento dell’Unione. Lo temono soprattutto Paesi
neo-comunitari entrati da pochi anni nel club, essenzialmente per avere un
certificato di rispettabilità economica (Bulgaria e Romania in particolare).
Altri neo-comunitari (Repubbliche Baltiche, Cechia, Slovenia) si stringerebbero
attorno al nocciolo duro di Germania, Austria e Benelux per dar vita a
quell’euro aureo (di prima classe, cioè) di cui si parla da tempo. E Italia,
Spagna, Portogallo? Il destino pare essere quello di un euro in classe
standard, collegato con quello aureo da un accordo sui cambi con fluttuazioni
del 15% in più o meno attorno alla parità centrale. A Bruxelles si dice che la
reazione alla proposta italiana sull’immigrazione è un’indicazione eloquente.
La Francia? La finanza pubblica la pone in classe standard (per proseguire nel
linguaggio ferroviario), ma il debito e il potenziale economico in 'executive'
o quasi. Resta la speranza di un accordo in extremis, anche dopo il referendum.
In ogni caso la ferita è profonda: saranno necessari anni per rimarginarla e
tornare a un buon livello di fiducia comune.
Giuseppe Pennisi
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