FINANZA/ Il test "di sinistra" che boccia Renzi
Pubblicazione: lunedì 8 giugno 2015
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NEWS Economia e Finanza
È auspicabile che la direzione del
Partito Democratico, convocata per valutare i risultati elettorali alle
regionali, non sia un "regolamento di conti" all'interno del Pd, ma
esamini con ponderazione non solamente se la politica del Governo Renzi sia sul
percorso che porta a raggiungere i risultati annunciati (soprattutto sul piano
economico), ma se sia "di destra" o "di sinistra". Tema
sollevato da numerosi esponenti del Pd medesimo.
Nel mondo post-ideologico è
difficile sostenere se queste due categorie abbiamo ancora le connotazioni che
hanno avuto nel ventesimo secolo. Tuttavia, per semplificare al massimo, si può
chiamare "di sinistra" una politica particolarmente attenta
all'equità tra gruppi sociali nella divisione di costi e benefici della
crescita (o della stagnazione), specialmente in una fase di riassetto
strutturale, e si può, invece, classificare "di destra" una politica
particolarmente attenta all'accumulazione di capitale e ai relativi rendimenti.
In questo contesto, come hanno
affermato, tra gli altri, Alberto Alesina e Francesco Giavazzi in un pamphlet
del 2007, il "liberismo" è "di sinistra" se e quando porta
a un'equa distribuzione dei benefici e dei costi di una politica economica tra
i vari gruppi sociali. Da allievo di università americane considerate "di
destra" e sulla base di numerose pubblicazioni su costi e benefici
"sociali", condivido questo punto di vista.
A mio avviso, è difficile
considerare "di sinistra" la politica economica sinora condotta del
Governo Renzi. Innanzitutto, per una vasta serie di determinanti, molte delle
quali non attribuibili all'attuale esecutivo, negli ultimi dieci anni,
l'Italia, non potendo utilizzare il tasso di cambio, ha subito una fiscal
devaluation, svalutazione interna, del 30% circa (secondo stime della
Commissione europea). Il costo di tale svalutazione è stato addossato quasi
interamente ai pensionati (esentando in parte quelli ai livelli più bassi di
reddito e di consumi), al pubblico impiego (i cui contratti non vengono
rinnovati da sei anni), e ai lavoratori dipendenti in categorie non
dirigenziali (sono state presentate statistiche eloquenti sulle retribuzioni
dei laureati e sull'appiattimento salariale al recente festival dell'economia
di Trento).
In linea con quelle che sono sempre
state le "politiche della destra", quanto meno in Europa, questa
distribuzione asimmetrica dei costi e dei benefici del riassetto
strutturale è stata accentuata da misure di tax and spend che gravano,
tramite le addizioni regionali e comunali, ancora una volta specialmente su
pensioni, pubblico impiego e lavoratori dipendenti. Le addizionali, che hanno
aumentato la pressione tributaria complessiva specialmente sulle categorie
menzionate, sono il frutto di non avere voluto ridurre la spesa pubblica
improduttiva (ma anzi di averla aumentata), nonostante le analisi della
spending review (a lungo secretate) abbiano fornito indicazioni molto
specifiche su cosa fare.
Non si è agito perché, come insegna
la scuola del public choice, dare seguito alle proposte, ad
esempio, del gruppo guidato da Carlo Cottarelli, (come la riduzione e revisione
delle tax expenditures) avrebbe colpito gruppi e categorie,
forse non numerosi quanto i pensionati, il pubblico impiego e il lavoro
dipendente, ma molto "rumorosi" e in grado di incidere là dove la
maggioranza è più traballante. In aggiunta sono state aumentate proprio le voci
di spesa pubblica scarsamente produttiva e in alcuni casi la spesa pubblica
poco produttiva è stata resa del tutto improduttiva: la spesa di parte corrente
continua ad aumentare (specialmente nelle voci dei consumi correnti) nonostante
la riduzione della spesa per il personale. Una tattica comprensibile e
giustificabile se si ha l'obiettivo legittimissimo di restare il più a lungo
possibile nella "stanza dei bottoni", ma non certo "di
sinistra".
I provvedimenti, più di impatto
mediatico che di sostanza, nei confronti della fasce povere, come gli 80 euro
mensili in busta paga, non toccano la vasta area dell'impiego individuale
(colf, badanti, precariato) i cui livelli e i consumi sono o al di sotto della
linea di povertà oppure ai margini della linea medesima. Qualcosa di analogo si
può dire per i provvedimenti sul mercato del lavoro: coniugare le
liberalizzazione delle tutele crescenti con tax
expenditures crea una nuova categoria di "precari triennali"
e un incentivo a cambiare cavalli quando il primo gruppo ha completato il
triennio. Sarebbe stato maggiormente "di sinistra" un contratto
a tutele crescenti senza incentivi a mutare lavoratori dopo i
canonici tre anni. Ragionamenti analoghi si possono fare per la piccola riforma
della scuola, ancora comunque in cantiere.
Una politica economica "di
sinistra" avrebbe preso l'avvio dalle differenze settoriali di
produttività nei principali settori dell'economia, perché l'aumento della
produttività è la leva principale per creare benessere, principalmente per i
più svantaggiati. In quasi tutti i comparti (e nella produttività
multifattoriale), l'Italia ha quasi sempre la maglia nera. Uno studio fresco di
stampa del Fondo monetario mostra come il comparto a più bassa produttività in
Italia è quello dei servizi e che ciò deriva da quanto poco è stato fatto in
materia di liberalizzazioni. Ce lo ha detto l'Ocse e ce lo ripete proprio in
questi giorni il volume Liberalizzazioni: un'incompresa necessità dell'Associazione
Società Libera. Liberalizzare è "di sinistra" se accompagnato da una
regolazione appropriata.
Se questa analisi è corretta,
l'impoverimento dei ceti medio-bassi, in parte causato da politiche che hanno
posto su di loro il costo dell'aggiustamento strutturale dell'economia
italiana, ricorda quello che accompagnò la fine del miracolo
economico. Prepariamoci a un nuovo autunno caldo.
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