martedì 23 giugno 2015

chaikovsky, la sua "Dama di Picche" a Roma: cupa e inquietante in Il Sussidiario del 23 giugno



OPERA/ Tchaikovsky, la sua "Dama di Picche" a Roma: cupa e inquietante
Pubblicazione: martedì 23 giugno 2015
Foto di Yasuko Kageyama Foto di Yasuko Kageyama
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La Dama di Picche è il capolavoro estremo di Tchaikovsky. Giunge a 13 anni dall’altro capolavoro del maestro russo che più guardava all’occidente: Oneghin. Mentre Oneghin è la riflessione amara di un giovane sui ventisei-ventisette anni in merito alle occasioni perdute, La dama è la tragica meditazione sui rapporti tra uomo e destino (riassunto nelle “tre carte” che in “tre atti” portano alla dissoluzione spietata dei “tre protagonisti”). E’ opera tra due secoli: a quadri, e musiche, ispirati a Bizet e Massenet (quelli più spettacolari e corali) si alternano quadri e musiche (specialmente quelli demoniaci) caratterizzati dalla scrittura frammentata che anticipa l’espressionismo e conduce, da un lato, a Shostakovic e, dall’altro, a Janacek. Numerose le differenze rispetto al rimando di Puskin, di cui è tratta, sono molteplici; in primo luogo l’ambientazione (da metà Ottocento a Settecento) al fine di permettere le evocazioni (da parte della Contessa) di una Parigi pre-rivoluzionaria, la festa e pantomina del secondo atto e l’arrivo di Caterina La Grande al termine sempre del secondo atto.
Il Teatro dell’Opera di Roma ha fatto bene a non proporre una nuova produzione ma l’aggiornamento di un allestimento, “portatile” (con pochi elementi e siparietti si passa dai giardini di San Pietroburgo, ai palazzi aristocratici, alle alcove, alle caserme ed alle bische), concepito da Richard Jones (regia, ripresa da Benjamin Davis), John McFarlane (scene e costumi) diversi anni fa e che ha molto girato. Ne vidi una messa in scena a Ferrara nel febbraio 2002 con Vladimir Jurowski e Antony Walker che a sere alterne si alternavano sul podio.
Non siamo nel Settecento di maniera Nel libretto, ma in un clima atemporale, in un mondo plumbeo, dove tutto (anche i sentimenti) è cadente. La vicenda è portata alla Russia dell’inizio del secolo scorso, dove una società sta tramontando (il palazzo della Contessa ha pareti scrostate e mobili ‘vecchi’ più che antichi), gli abiti anche dell’aristocrazia hanno un sentore di outlet, le divise degli ufficiali ricordano quelle della prima guerra mondiale. 
In questo contesto scarno ed essenziale ma soprattutto cupo, il ballabile del terzo quadro viene danzato da marionette stilizzate (grande idea registica tale da facilitare, da un lato, la “portabilità” dello spettacolo e da renderne, dall’altro, ancora più severo il rigore) e le stesse feste hanno il sapore delle ultime follie su un Titanic che affonda. La folla (in gran parte in grigio per meglio accentuare il bianco delle amiche di Liza, il rosa di Liza e i broccati Anni Cinquanta della Contessa) è in scena più di quanto non previsto nel libretto; è una folla in continuo movimento, anch’esso stilizzato, anch’essa verso un destino segnato sin dalle prime battute. E’ la fine non solo dei “tre” ad opera delle “tre carte”, nell’arco di “tre anni”, ma di tutto il mondo, mentre del successivo si vedono i presagi solo nella musica. 

La bacchetta di Jurowski incalzava i tempi, tenendo in poco meno di tre ore (intervalli esclusi) la partitura, con una tensione crescente in cui vengono accentuate le dissonanze. Quella di James Conlon invece le dilata; con due brevi intervalli l’opera sfiora le quattro ore. Mentre Jurowski tracciava un  percorso concitato verso un destino che pare predeterminato sin dal canto corale (così innocente ma anche così premonitore) delle voci bianche con cui si apre l’opera, Conlon da enfasi ai sentimenti, specialmente al tormento ambiguo del protagonista (ama Liza? O la fanciulla è unicamente uno strumento per carpire il segreto della Contessa ed avere la ‘tre carte’ vincenti al gioco’).
Ottimo il cast, in particolare Maksim Aksenov con timbro chiarissimo ed un ‘do naturale’ straordinario, Elena Zaremba spettrale e crudele nel ruolo della Contessa, e Oksana Dyka una Liza più dubbiosa e tormentata che dolce. Tra gli altri un ottimo Tómas Tómasson un Conte Tomskij torbido , e Vitallij Billy nell’unico ruolo chi amaramente positivo , quello del Principe Eleckji il cui arioso ha meritato un applauso a scena aperta.
Nonostante l’ora tarda (perché lo spettacolo non è iniziato alle 19 come Aida Nozze di Figaro?) , dieci minuti di applausi, ma parte del pubblico è corso all’ultimo autobus.


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