martedì 5 novembre 2013

Perchè non riduciamo le entrate per ridurre la spesa? in Lindro 5 nobembre



Opinionihttp://www.lindro.it/wp-content/themes/editorial/images/freccia-categoria.jpgItaliahttp://www.lindro.it/wp-content/themes/editorial/images/freccia-categoria.jpgEconomia
Se si provasse a ridurre il carico tributario per costringere Ministri, Ministeri ed autonomie locali a comprimere le spese?
http://www.lindro.it/wp-content/uploads/2012/12/BANNER-CLUB-LINDRO-300X250.jpg
http://www.lindro.it/wp-content/uploads/2013/11/pubblica-amministrazione-670x223-1383654214.jpg
http://www.lindro.it/wp-content/plugins/post-font-resizer/zoom_in.pnghttp://www.lindro.it/wp-content/plugins/post-font-resizer/zoom_out.pngDownload PDF
     
http://www.lindro.it/wp-content/plugins/wti-like-post/images/pixel.gif
http://www.lindro.it/wp-content/plugins/wti-like-post/images/pixel.gif
  

Giuseppe Pennisi
Martedì 5 Novembre 2013, 11:18

Tags:
pubblica amministrazionespesa pubblica
- See more at: http://www.lindro.it/economia/2013-11-05/106676-perche-non-riduciamo-le-entrate-per-ridurre-la-spesa#sthash.tnPK5mnD.dpuf
Da decenni è sempre la stessa storia: con la legge finanziaria si aumenta -di riffa, di raffa o di baracca-  il carico fiscale perché le entrate rincorrono, con affanno, le spese. E se si provasse a fare il contrario: ossa a ridurre il carico tributario (ormai giunto a livelli leggendari) per costringere Ministri, Ministeri ed autonomie locali a comprimere le spese? Dovrebbe essere il primo passo di una buona spending review, anche se pare che il buon Carlo Cottarelli segua altre strade senza ancora sapere dove portano.
La storia dei tagli fiscali mostra che hanno avuto successo quando sono stati preceduti da prese di posizione teoriche e da forti campagne politiche. Non solo o principalmente dal lamento del Presidente del Consiglio di essere stato ‘lasciato solo’ a volere la riduzione delle imposte. Forse per aiutarlo ad uscire dalla solitudine può servire la ricerca di un più solido fondamento analitico al progetto. Tanto più che in Italia non si propone più un ragionamento analogo a quello della ‘curva di Laffer’ di circa un quarto di secolo fa quando, sulla base delle ipotesi dell’economista Arthur Laffer, Ronald Reagan e Margaret Thatcher ridussero scaglioni ed aliquote argomentando che ne sarebbe risultato un impulso all’economia tale da più che recuperare, nell’arco di pochi anni, la perdita temporanea di gettito. L’assunto, ma non è detto che chi governa la pensi così, potrebbe essere ben differente. E potrebbe riassumersi nel proposito un po’ crudo di ‘affamare la bestia’ (ossia la macchina pubblica) allo scopo di ridurre il disavanzo. E così permettere un calo sostenibile delle imposte. L’espressione ‘affamare la bestia’ la dobbiamo a Jonathan Baron, professore di psicologia alla University of Pennsylvania, e Edward J. McCaffery, docente di economia applicata al California Institute of Technology. La troviamo in un loro saggio (‘Starving the beast: the psychology of budget deficits’- ‘Affamare la bestia: la psicologia dei deficit di bilancio’).
Baron e McCaffery appartengono ad un filone relativamente nuovo della finanza pubblica, quello che coniuga economia quantitativa e psicologia. Nel lavoro citato non hanno solamente elaborato un elegante modello per mostrare con una serie di algoritmi come riducendo il gettito si finisce con fare dimagrire la macchina della spesa pubblica, hanno anche effettuato due esperimenti con la complicità del web. La grande maggioranza degli intervistati si è detta ben lieta di tagli alla pressione fiscale ed alla spesa pubblica in modo, però, che complessivamente i conti quadrassero; non è stata, però, in grado di esprimere quali programmi di spesa tagliare. Di conseguenza, argomentano Baron e McCaffery, se l’elettorato è in favore di conti pubblici in regola (ipotesi che forse non corrisponde a quella dell’elettorato italiano), una strategia basata sul ridurre le razioni di cibo al pachiderma può avere successo. E’ una ricetta che potrebbe avere esiti positivi in Italia, dove si è avvezzi non solo ai disavanzi pubblici ma anche alla crescita dello stock di debito senza curarsi troppo di chi lo pagherà e quando?
In un altro lavoro, McCaffery, questa volta a quattro mani con Joel Slemrod della Michigan Business School, tracciano un vero e proprio manifesto per una finanza pubblica coniugata con la psicologia per affrontare i maggiori nodi di politica economica; in società dove poco peso si è sempre dato alle quadrature dei bilanci pubblici (e non solo), affamare la bestia può essere una strategia tutt’altro che appropriata.
Altro testo da considerare  è un classico francese che ha avuto diverse edizioni ‘L’arbitraire fiscal di Pascal Salin. Il saggio distrugge l’idea stessa di imposta progressiva sul reddito; mostra come le imposte di successione siano un virus che minaccia la famiglia e la tassazione societaria un peso sulla competitività delle imprese. Salin propone uno Stato minimo ed un’aliquota unica (o al massimo due) da applicarsi principalmente sulle transazioni. L’opposto del sistema tributario che gli italiani imputano a Visco, ma che ha provocato una crisi tale di rigetto da potersi ormai profilare all’orizzonte una riforma alla Salin. Eloquente il lavoro ‘Fiscal Interactions Among European Countries: Does the EU Matter?’ (‘Interazione tributaria tra i Paesi Europei: l’Ue conta qualcosa?’ di Michela Redoano della Università di Warwick) da cui si deduce che, anche se i Paesi di piccole dimensioni seguono quelli di maggiore taglia e maggiore popolazione nella definizione delle loro politiche tributarie, in molti casi si è passati dall’interdipendenza tributaria alla indipendenza, proprio al fine di attirare capitali ed investimenti (dal resto del mondo e da altri Paesi Ue).
Si potrebbe, poi, ricordare il lavoro di Graziella Bertocchi della Università di Modena (la rossa): ‘The Vanishing Bequest Tax: The Comparative Evolution of Bequest Taxation in Historical Perspective (‘La fine dell’imposta di successione: evoluzione comparata del tributo in prospettiva storica’), il saggio di Wojcech Kopzuk (Columbia University) e Joseph Lupton (Federal Reserve Board) ‘To Leave or Not to Leave: The Distribution of Bequest Motives’ (“Lasciare o non lasciare: la distribuzione dei motivi dei lasciti) pubblicato nella  Review of Economic Studies elo studio giuridico (i suoi primi amori) più economico di Jeffrey Cooper  ‘Interstate Competition and State Death Taxes: A Modern Crisis in Historical Perspective (‘Competizione tra gli Stati e imposta di successione: una crisi moderna in prospettiva storica’) apparso nella Pepperdine Law Review. Chris William Sanchirico della Università della Pennsylvania dimostra che le troppe tasse sul lavoro creano fannulloni nel lavoro ‘Progressivity and Potential Income: Measuring the Effect of Changing Work Patterns on Income Tax Progressivity’ (‘Progressività e reddito potenziale: gli effetti della progressività tributaria sulle abitudini di lavoro’).
Un’indicazione indiretta si ha dalle riforme condotte iniziate negli Anni Ottanta in alcuni Paesi dell’America Latina e negli Anni Novanta estese a molti altri: privatizzazioni più o meno parziali delle imprese un tempo pubbliche e  dei sistemi previdenziali, liberalizzazioni, apertura all’economia internazionale. Nonostante la crescita abbia ricevuto un’accelerazione e in molte casi siano diminuite le disparità di reddito, un saggio di Eduardo A. Lora e Ugo G. Panizza (ambedue al Banco Interamericano per lo Sviluppo) e Myriam Quispe-Agnoli (Banca Federale di Atlanta) sottolinea come si avvertano i sintomi di un vero e proprio ‘affaticamento da riforme’. Gli stessi beneficiari, in breve, ne sarebbero stanchi e stufi. Li si vedono anche da noi? Prima ancora che le riforme più importanti siano state fatte?
- See more at: http://www.lindro.it/economia/2013-11-05/106676-perche-non-riduciamo-le-entrate-per-ridurre-la-spesa#sthash.tnPK5mnD.dpuf

Nessun commento: