Fra
quotate e non, una «torta» da 50 miliardi Gli immobili dello Stato ne valgono
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DI GIUSEPPE PENNISI L a nuova stagione delle privatizzazioni sembra dunque essere dietro l’angolo. Il Consiglio dei ministri del 29 ottobre aveva del resto reso «permanente» il comitato per le privatizzazioni, presieduto dal direttore generale del Tesoro e composto da quattro esperti «di riconosciuta professionalità ed esperienza». La volontà politica c’è, ma la strada resta in salita. Basti pensare che l’unica privatizzazione decretata dal governo Monti – quella dell’Unione nazionale degli ufficiali in congedo d’Italia (Unici) con 35.000 iscritti e una manciata di dipendenti – non è andata in porto perché il pertinente decreto legge non è stato convertito a ragione dello scioglimento delle Camere.
Non mancano tuttavia analisi e stime. Secondo l’agenzia Bloomberg, il governo intenderebbe mettere sul mercato una quota del 4% dell’Eni, operazione che sarebbe in cima al programma. La quota di Eni in mano pubblica è suddivisa tra Tesoro e Cassa Depositi e Prestiti (Cdp). Il Tesoro detiene una quota del 4,34%, mentre la Cdp ne ha una del 25,76%. Agli attuali corsi di Borsa, la vendita del 4% frutterebbe circa 2,6 miliardi di euro . Non ci sarebbe invece al momento l’intenzione di cedere, a breve, partecipazioni in Enel e Finmeccanica. Sul tavolo del ministro dell’Economia c’è sicuramente un documento preparato dalla Fondazione Astrid («Valorizzazione e Privatizzazione del Patrimonio Pubblico) che fornisce stime interessanti: la quota Snam detenuta dalla Cdp potrebbe valere attorno a 2,9 miliardi di euro, quella di Terna 1, 5: un totale, quindi, di 4,4 miliardi. Aggiungendo l’Eni si arriverebbe a 17 miliardi.
Se si volesse operare alla grande ed il mercato recepisse anche aziende non quotate – come ad esempio Anas, Enav, Eur, Ferrovie, Invitalia, Istituto Poligrafico e Zecca dello Stato e Poste Italiane, nonché una percentuale della stessa Cdp – si potrebbero aggiungere altri 30 miliardi e sfiorare i 50 miliardi (oltre 90 considerando anche le municipalizzate e le società regionali).
Inoltre, ci sono voci insistenti sulla privatizzazioni della Rai (non inclusa tra le aziende privatizzabili del documento Astrid). Se ne parla dal 2002: con il vasto numero di canali del digitale terrestre è difficile giustificare tre reti e vari canali specializzati pubblici, mentre altri Paesi Ue hanno di norma un unico canale pubblico. È altresì complicato fare una stima del valore di un’azienda da anni in perdita. Ancora più arduo individuare chi potrebbe essere interessato anche solo potenzialmente all’acquisto pure solo di una partecipazione.
Non mancherebbero investitori invece per il cosiddetto «capitalismo regionale e municipale», una selva vastissima di circa 370 imprese con 200.000 addetti. Alcune imprese sono di grandi dimensioni (si pensi a Hera, Iride, Gesac, Aem-Asm, Acea) e risultano da un processo di aggregazione degli ultimi venti anni. Accanto ai 'giganti' c’è poi una miriade di piccole e medie aziende. Complessivamente, formano oltre l’1% del Pil nazionale, ma in alcune Regioni rappresentano il 6% del valore aggiunto prodotto in loco. Tuttavia, si è fuori dal perimetro dello Stato. La «privatizzazione» di parte di questo patrimonio spetta a Regioni e Comuni. Intromissioni da parte del governo solleverebbero delicati problemi costituzionali. Naturalmente si progetta ancora una volta di valorizzare e privatizzare il vasto patrimonio dello Stato (ad esempio la caserme non più utilizzate) e degli enti locali (ad esempio le case popolari). Le analisi, tra cui lo studio Astrid, dimostrano che i ricavi possibili variano in maniera significativa a secondo delle modalità di valorizzazione e cessione. Secondo un’analisi dell’Istituto Bruno Leoni (dicembre 2012), il valore atteso dalle parte libera degli immobili pubblici eventualmente dismessi supera i 40 miliardi di euro, a cui si potrebbero aggiungere 13 miliardi considerando anche gli immobili occupati da attività della Pubblica amministrazione e addirittura gli 80 miliardi dell’edilizia residenziale pubblica. Le esperienze precedenti in Italia, nonché di Paesi come la Francia, suggeriscono in ogni caso molta cautela nelle stime del gettito e soprattutto della tempistica.
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Non mancherebbero investitori per il cosiddetto «capitalismo regionale e municipale», una selva di circa 370 imprese con 200mila addetti che vale 50 miliardi
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