venerdì 22 novembre 2013

La Germania ha costruito il successo sull’aumento della produttività i Avvenire 23 novembre



La Germania ha costruito il successo sull’aumento della produttività
DI GIUSEPPE PENNISI L’ eurozona segna, all’ultima conta, un disavanzo con l’estero pari al 2% del Pil dell’area, ma il Paese più importante (la Germania) ha un attivo equivalente al 7% del reddito nazionale. In base a uno dei numero­si protocolli intergoverna­tive con cui si stanno inte­grando i trattati sull’unio­ne monetaria, la Commis­sione europea ha aperto u­na procedura di «analisi ap­profondita » che, al limite, potrebbe portare a una sanzione (un deposito in­fruttifero) nei confronti di Berlino.

Tale sanzione sarebbe tut­tavia controproducente: la Bundesbank rispondereb­be con freni monetari che, piaccia o non piaccia alla Banca centrale europea, si riverbererebbero su tutta Europa. Rallentando so­prattutto il passo dei Paesi più deboli.

In effetti, il problema di co­me evitare squilibri troppo accentuati nei conti con l’e­stero fu una delle preoccu­pazioni principali di John Maynard Keynes alla con­ferenza di Bretton Woods, come mostra il carteggio con Roy Harrod. Lo con­clusione fu che la sola «san­zione » può essere erogata dal mercato apprezzando il cambio (il prezzo di tutti i prezzi) del Paese con un at­tivo eccessivo. Keynes ab­bandonò la sua idea di una moneta unica mondiale (il «bankor») per sposare quel­la di cambi sostanzialmen­te fissi, ma variabili entro margini stretti e se del caso aggiustabili (con rivaluta­zioni e svalutazione) in se­guito a decisioni collegiali sulla base di analisi del Fon­do monetario. Ciò sarebbe stato possibile se fossero ancora in vigore gli accordi europei sui cam­bi (giornalisticamente chiamati Sistema moneta­rio europeo, Sme), ma non lo è nell’ambito di un’unio­ne monetaria. Gli attivi ed i passivi all’interno dell’u­nione rappresentano quel­le che gli economisti chia­mano «fiscal devaluation» e «fiscal appreciation», mu­tamenti al ribasso o all’in­sù dei tenori di vita che ri­specchiano, principalmen­te differenziali di produtti­vità e competitività.
I due grafici in pagina mo­strano come dal 2000 al 2011 i salari italiani in parità di po­tere d’acquisto siano stati a lungo stagnanti (e siano di­minuiti negli ultimi anni, a ra­gione dell’aggravarsi del cu­neo fiscale), mentre quelli di Germania e Francia (nonché la media Ocse) crescevano. Alla contrazione dei salari i­taliani è corrisposta una fles­sione dei consumi. I dati ri­specchiano la perdita di com­petitività.

Nel 2010 la paga mediana, in Germania, era di 15,4 euro l’ora, contro 13,7 euro in Francia, 11,9 euro in Italia. I­noltre , il titolo di studio pa­ga, in Germania, più che in I­talia e, in Italia, più che in Francia, il Paese dove la strut­tura salariale appare più e­gualitaria e compressa. Per chi si è fermato alla scuola media inferiore, la paga (me­diana) è più o meno la stessa in Germania e in Italia: circa 10 euro l’ora (11,4 euro in Francia). Ma, mentre i diplo­mati italiani e francesi si fer­mano a 12,6-12,7 euro, quel­li tedeschi arrivano a 15,1. La vera impennata, comunque, arriva dopo. Rispetto al di­plomato, il salario del laurea­to tedesco aumenta del 66%, a 25 euro, mentre quello ita­liano cresce solo del 50 %, a 19,5 euro (17,6 euro per il lau­reato francese). In Germania i titoli di studio non hanno valore legale come da noi. Eu­rostat definisce bassi i salari pari o inferiori ai due terzi del salario mediano (dunque, grosso modo 10 euro l’ora in Germania, 8 in Italia). Questi salari bassi sono il 12, 4% del totale in Italia, nelle aziende con più di 10 dipendenti, il doppio della quota francese. Ma molto meno di quanto ac­cada in Germania, dove i bas­si salari sono oltre il 22 %, più di un quinto del totale. Ciò documenta che, per essere efficace in termini di aumen­to della domanda interna, l’aumento dei salari in Ger­mania dovrebbe riguardare quelli bassi (come chiede il partito socialdemocratico nel negoziato per la formazione della grande coalizione).

Ciò non avrà effetti di rilievo, però, se non accompagnato da un vasto programma di in­vestimenti pubblici. Tra il 1991 ed il 2012 la Germania ha tagliato del 20% la propria spesa per infrastrutture. Da anni non completa nuove o­pere pubbliche e la manu­tenzione di quelle esistenti spende l’1,5% del Pil rispetto ad una media europea del 2.5%. Le autostrade sono in­golfate; ad esempio, il ponte che collega Colonia con la re­te autostradale è stato co­struito per una capacità di 85mila auto al giorno, ma de­ve far fronte a un traffico di 120.000. In termini di reti a fi­bra ottica, la Germania ha u­na copertura, in proporzione alla popolazione inferiore a quelle della Estonia, della Li­tuania, della Romania e del­la Bulgaria. Un grande pro­gramma infrastrutturale po­trebbe causare problemi di saldi spesa pubblica, essere neutralizzato da misure re­strittive della Bundesbank e soprattutto nel medio perio­do accelererebbe ulterior­mente produttività e com­petitività nella Repubblica federale.

Insomma, per ridurre il sur­plus tedesco dobbiamo di­ventare più produttivi e più competitivi. Tertium non datur.

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Per essere efficace in termini di aumento della domanda interna, l’aumento dei salari tedeschi dovrebbe riguardare quelli bassi
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