venerdì 29 novembre 2013

Perché la Legge di stabilità è un segno del declino italiano in Formiche 29 novembre



Perché la Legge di stabilità è un segno del declino italiano
29 - 11 - 2013Giuseppe Pennisi Perché la Legge di stabilità è un segno del declino italiano
Il 31 ottobre scorso, su Formiche.net, ho scritto che il disegno di Legge di stabilità, quale inviato da Palazzo Chigi al Senato, mi ha sconcertato per la sua lunghezza e disorganicità e perché dava adito a un vero e proprio assalto alla diligenza da parte di interessi particolaristici (anche se legittimi).
UN PROVVEDIMENTO COMPLESSO
Leggo il testo licenziato dal Senato (per essere esaminato alla Camera) con un sentimento ambivalente: da un lato, la strana amarezza di chi ha avuto ragione troppo presto; da un altro, lo stupore che sono state superate anche le mie previsioni più fosche. Il testo, basato in gran misura sul maxi-emendamento presentato dal governo, contiene un articolo con 525 paragrafi (sotto un profilo strettamente giuridico, i commi sono ancora di più). Ci sono state “leggi finanziarie” più disarticolate: nel 2007 quella firmata dal Governo Prodi contava 1364 commi. Ma, da un governo “di servizio”, nato con il compito di tenere dritta la barra della finanza pubblica e di effettuare riforme (a iniziare da quella della legge elettorale), ci si aspettava qualcosa di più e di diverso.
SEGNALI POCO INCORAGGIANTI
Non solo in Italia ma anche all’estero, dove di recente al presidente del Consiglio sono stati negati colloqui con importanti leader con la giustificazione che l’interlocutore aveva già un calendario troppo impegnativo. Sarà pure vero, ma i due seminari sul caso Italia (vedi Formiche.net del 25 novembre) ed un duro articolo del Washington Post, in cui ci si chiede se l’Italia è alla ricerca della stabilità o della tomba non sono certo segnali incoraggianti. Parte del problema può risalire all’inesperienza di chi nei lavori al Senato rappresentava il governo. Probabilmente, una determinante più fondamentale sono le difficoltà di una coalizione diventata più piccola e di cui il partner apparentemente più piccolo ha in mano il “potere di coalizione”, come descritto nei lontani Anni Sessanta dal politologo americano Stanley Hoffmann nel saggio Gulliver’s Troubles.
Tra le chicche, c’è la norma in base alla quale sui pensionati il cui trattamento supera i 130mila euro l’aliquota tributaria marginale passa dal 43% al 61% – norma chiaramente discriminatoria e quindi incostituzionale, ma tale da causare una vera e propria opposizione.
LE TEORIE DEL DECLINO
Soprattutto, l’aumento della pressione tributaria dimostra che l’Italia si pone come “Stato estrattivo” nella definizione data da Darun Acemoglu e James A. Robinson nella definizione illustrata su Formiche.net del 25 novembre. Occorre aggiungere che Acemoglu e Robinson stanno approntando, con altri economisti e politologi americani, un nuovo quadro teorico in cui l’economia e la politologia vengano coniugate per poter meglio comprendere le implicazioni politiche di decisioni economiche, i nuovi equilibri che si possono creare e le tecniche per minimizzare effetti controproducenti di scelte economiche che sembrano corrette (sotto il profilo della disciplina). In Italia, temi di questa natura vengono echeggiati solo nella giovane Rivista di Politica, ma non vengono neanche accennati in riviste professionali di economia. Eppure è proprio questa la materia su cui indagare per comprendere la nostra scarsa capacità adattiva alle trasformazioni dell’economia mondiale, le ragioni del nostro declino e le leve per cercare di rimettersi a crescere. Per una corretta interpretazione di queste determinanti meta-economiche, occorre, a mio parere, soffermarsi su due lavori che hanno suscitato un notevole dibattito nel mondo accademico anglosassone ma non sono citati nei “quaderni di storia economica” della Banca d’Italia e non appaiono nel dibattito italiano. I due libri esaminano, in modo differente, temi simili: si tratta di “Why Nations Fail: The Origins of Power, Prosperity and Poverty” (“Perché le Nazioni falliscono: le origini del potere, della prosperità e della povertà” di Daron Acemoglu e James Robinson (Crown Business, 2012) e “Pillars of Prosperity; The Political Economy of Development Clusters” (“I pilastri della prosperità: l’economia politica dei bacini di sviluppo”) di Timothy Besley e Torsten Persson (Princeton University Press, 2011).
UNA RISCOSSA NECESSARIA
Sono due lavori differenti. Il secondo scritto per studenti in corsi magistrali; il primo rivolto al grande pubblico e per mesi in testa alla classifica dei best seller. Meritano di essere esaminati con grande cura nel predisporre politiche di crescita. È bene farlo gradualmente. Nei limiti di questa nota per la discussione, è importante rilevare sulla base di regressioni statistiche per un vasto campione di Paesi (Besley e Persson) e di una narrativa che parte dalle civiltà antiche, ambedue giungono alla conclusione che “non esiste un’ingegneria economica per la crescita” e che le “determinanti meta-economiche più significative sono quelle politiche”. Per Acemoglu e Robinson si può crescere se la politica fornisce “un assetto istituzionale inclusivo” (in cui si incoraggia la partecipazione e quindi la equa suddivisione di costi e benefici); se resta al palo con “un assetto istituzionale estrattivo” che “arricchisce chi decide a spese del resto della società”. Un “assetto istituzionale estrattivo” non significa istituzioni che estraggono risorse (ad esempio “minerarie” di “beni comuni” per il soddisfacimento di pochi ma anche istituzioni che “estraggono gettito tributario” per spesa pubblica improduttiva o poco produttiva. E proprio quello che pare il fare il testo che sta approdando alla Camera.
Deputati, sveglia! Evitateci il collasso.

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