Moderato elogio
del reddito minimo a 5 stelle proposto da Grillo
In una visione ‘laica’ della politica occorre evitare
di non dare attenzione alle proposte che vengono da soggetti che, per un motivo
o per l’altro, sono considerati “anti sistema”. Dei circa 3000 emendamenti
presentati al disegno di legge di stabilità, uno dei più intelligenti viene dal
Movimento 5 Stelle (M5S). E’ doveroso darne atto. Lo ha già notato Maurizio
Ferrera sul Corriere della Sera del 10 novembre. Ferrera è
studioso attento dello Stato sociale e veterano di Commissioni governative per
riformarlo. Ferrera, però, non ne coglie tutte le implicazioni, politiche e di
finanza pubblica. Quindi, è opportuno aprire un dibattito.
L’emendamento è quello relativo al “reddito di
cittadinanza”, nome assolutamente non appropriato in quanto l’emendamento
(molto dettagliato) riguarda il reddito minimo per i poveri e gli incapienti.
E’, in effetti, una radicale modifica in senso liberale della spesa sociale.
Accantonare l’emendamento perché presentato dall’opposizione vorrebbe dire
buttare via il bambino con l’acqua sporca. Si farebbero due gravi errori. In
primo luogo, si perderebbe l’occasione di tendere un ramoscello d’ulivo per
portare il M5S nell’arco “parlamentare tradizionale”: obiettivo
importante in quanto nessun soggetto politico può governare l’Italia senza
l’apporto di un movimento che rappresenta un quarto dell’elettorato. In secondo
luogo, la proposta può essere il grimaldello per riorganizzare lo Stato sociale
secondo linee anticipate da Tittmus già negli Anni Settanta, oggetto di un
vasto studio (a cui partecipò l’allora giovane Ferrera) dell’Istituto
universitario europeo negli Anni Ottanta e riprese dall’Alta commissione
dell’Unione Europea sull’esclusione sociale di cui feci parte negli Anni
Novanta (nome roboante ma poteri nulli).
In breve, la scuola “welfarista” che ha portato
all’attuale configurazione dello Stato sociale e della spesa pubblica ad esso
attinente – ed alle caratteristiche ‘particolaristiche-clienterali’ di quello
italiano, secondo uno studio ancora fondamentale che Ferrera pubblicò alla metà
degli Anni Ottanta – ha creato un sistema che favorisce non i poveri e gli
incapienti ma varie categorie del ceto medio, dissipando, sovente, risorse.
La proposta M5S (non priva di dettagli tecnici
discutibili) ha il merito di proporre un approccio non welfarista ma rawlsiano
(dal nome del filosofo di Baltimora, grande docente a Harvard, John Rawls).
Ossia di rovesciare il metodo: applicare il concetto (e l’equazione matematica)
di “maximin” (massimizzare il benessere di chi è effettivamente più debole ed
in maggior stato di bisogno) e lasciare il resto della società al funzionamento
del mercato. E’ un approccio, al tempo stesso, radicale e liberale che alcuni
economisti hanno proposto anche per la valutazione economico-sociale dei
maggiori comparti di spesa pubblica a cominciare da quelli in conto capitale.
Speriamo che Carlo Cottarelli ne tenga conto nella spending revew.
Il “reddito minimo” per i più poveri (questo è il vero
contenuto della proposta M5S) può prendere varie guise: da imposta negativa sul
reddito a vouchers a chi è al di sotto di quello che gli economisti chiamano
‘il livello critico di consumo ’ (i consumi della fasce che non ricevono
sussidi né pagano imposte e tasse oppure i cui consumi equivalgono al pagamento
di tasse ed imposte).
La proposta M5S va in questa direzione e dovrebbe
essere presa in seria considerazione sia dal Parlamento sia dall’Alleanza
contro la povertà in Italia che nasce a Roma l’11 novembre, promossa dalle Acli
e da una ventina di associazioni di soggetti pubblici, privati e del terzo
settore.
L’articolato presentato ha numerosi difetti (regole
d’accesso che tengono conto del reddito ma non del patrimonio,
un’amministrazione macchinosa e farragginosa, un costo eccessivo). Rappresenta,
però, la prima proposta nella “giusta direzione” (direbbero gli anglosassoni)
che giunge in Parlamento dall’inizio degli Anni Novanta (tentativi in questo
senso vennero fatti , senza esito, negli Anni Ottanta).
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