RIFORMA PENSIONI/ Il dossier che mette a rischio il Governo Letta
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lunedì 26 agosto 2013 - Ultimo aggiornamento: lunedì 26 agosto 2013, 10.16
Enrico Giovannini
(Infophoto)
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NEWS LAVORO
Lo abbiamo anticipato, su questa
testata, a
luglio e lo
abbiamo analizzato con un certo grado di dettaglio ad
agosto: la vera
mina che potrà far saltare il Governo Letta (che potrebbe essere seguito da un
esecutivo di scopo Letta-2 mirato a una nuova legge elettorale) saranno, ancora
una volta, le pensioni, tema che già in passato ha spesso innescato crisi di
governo. Pochi giorni dopo la nascita del Governo Letta, diversi colleghi
economisti e amici personali hanno raccomandato al ministro del Lavoro e delle
Politiche sociali, Enrico Giovanni, di non toccare il “dossier” sulla
previdenza, limitandosi, al massimo, a fare qualche aggiustamento per i
cosiddetti “esodati”. Invece, pare che ci si avvii verso una nuova riforma
della previdenza, prendendo lo spunto dalle “pensioni d’oro” e dalle “pensioni
d’argento” per rimettere in discussione l’intera impalcatura che si è messa in
atto faticosamente dalla riforma Dini del 1995.
Per di più ci sta imbarcando in
questa avventura senza avere le statistiche di base, senza avere effettuato una
stima dei costi e dei benefici, senza avere calcolato l’impatto distributivo e
dopo più di una sentenza della Corte Costituzionale secondo cui occorre tenere
conto (a qualsiasi fine, ma soprattutto a scopi perequativi) del reddito (e se
si vuole del capitale) complessivo, non soltanto del trattamento previdenziale.
Un personaggio di “Edipo Re” di Sofocle afferma: “Gli dei accecano coloro che
vogliono perdere”. Ci si sta mettendo, a occhi bendati, in un vicolo cieco.
Nel 2001, a sei anni dalla riforma
Dini, un gruppo di economisti (tra cui Mauro Maré, che ha lavorato molto
strettamente con Giuliano Amato) aveva previsto (in una “Guida” alle riforme
delle pensioni) che il sistema previdenziale contributivo avrebbe prodotto una
divergenza tra le pensioni di quanti erano ancora titolari del regime
retributivo e le giovani generazioni. La “Guida” aveva anche formulato una
serie di proposte da attuarsi speditamente. Numerose sono state realizzate, ma
tardivamente e spesso rendendo più complesso il sistema, ma anche più
flessibile. È comunque già in atto un riordino complessivo che potrebbe in gran
misura essere migliorato riducendo il numero di anni necessari per avere titolo
a un trattamento (il “vesting”). I miglioramenti essenziali sono stati già
indicati su questa testata.
Le quattro proposte di legge
presentate in Parlamento non sembrano, però, tenerne conto. Alcune sono
demagogia pura (e tentativi di intese tra Pd, Sel e M5S per giungere a
“maggioranze” differenti dall’attuale). La proposta formulata da Scelta Civica
può essere una buona base di partenza: colpirebbe le “pensioni d’argento”,
oltre che quelle d’oro con un contributo di solidarietà progressivo e
temporaneo, tale da ridurre il differenziale tra trattamenti previdenziali e
contributi effettivamente versati in vita lavorativa. Non precisa ancora né
l’entità del contributo, né il numero di anni per cui si dovrebbe versare. E,
soprattutto, non prevede nulla per il vesting. Si scontra con due serie difficoltà
tecniche, cui si aggiunge un ostacolo politico di non poco conto.
n primo luogo, per i dipendenti pubblici si può fare il ricomputo dei
versamenti solo dal 1996 (per i privati si può andare molto più in là): ciò
rende oggettivamente impossibile un calcolo di quella che sarebbe l’eventuale
“pensione contributiva” da utilizzare come parametro per correggere, con il
contributo di solidarietà, il trattamento retributivo. Inoltre, dal 1995, il
trattamento non ha più un “tetto” a quello che si avrebbe dopo 40 anni di
contributi, ma quanto più tardi si va in pensione (e più contributi si versano)
tanto più alto è il trattamento previdenziale. In pratica, molti alti
funzionari dello Stato e alti gradi delle Forze armate già ricevono pensioni
“contributive” non “retributive”. Anche molti lavoratori in fasce meno elevate
della scala dell’impiego hanno optato per restare più a lungo in impiego: ciò
spiega il graduale ritardo nell’età media effettiva di andata in pensione
verificatosi in questi anni.Il pasticcio è enorme anche perché - questo è il punto politico - la proposta pare diretta proprio contro quei corpi dello Stato (alta burocrazia, Forze armate, magistrati, specialmente quelli amministrativi, della Corte dei Conti e del Consiglio di Stato) che dovrebbe collaborare a definirla e attuarla. È, però, anche diretta contro tutti coloro che hanno ritardato il pensionamento, anche se su pressante invito dei Governi che da vent’anni si succedono.
La dinamite è proprio là: può un Governo oggettivamente debole andare allo scontro con le alte sfere dei corpi dello Stato di cui ha bisogno per governare? Può andare contro quella “maggioranza (sinora) silenziosa” che ha ritardato, anche per senso civico, il proprio pensionamento? Mentre - come già detto - il tema stesso delle pensioni solleva fibrillazioni in tutta la società.
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