Il canone Rai, la bolletta elettrica e lo sviluppo degli italiani
22 - 08 - 2013Giuseppe PennisiAveva ragione John Maynard Keynes: le vecchie idee di economisti defunti non muoiono mai ma trovano sempre qualcuno pronto a farle proprie nonostante il rischio di farsi affibbiare l’etichetta di “zingarellaniamente ignorante” (da Zingarelli, il dizionario della lingua italiana più utilizzato nelle scuole secondare superiori.
Dopo un lustro, nonostante si pensasse che fosse stata abbandonata per sempre, torna la proposta (redatta da un dirigente pubblico su commessa di Mamma-Rai) di includere nella bolletta elettrica il canone Rai, la tassa più odiata dagli italiani a causa del pessimo servizio pubblico che ne ottengono i cittadini (a grandi costi per i contribuenti ed a grandi benefici per schiere di dipendenti, fornitori, nani, ballerine e via discorrendo).
La Rai è nell’occhio del ciclone. Nonostante richiami ed ispezioni, il tasso di evasione è il 30%; alcune indagini (e le campagne lanciate da alcune testate) indicano che, se potesse, il 70% degli italiani lo eviterebbe perché non crede che il servizio offerto sia un “corrispettivo” adeguato al costo del canone. Se la Rai facesse una cura dimagrante, e diventasse bella e scattante, ciò cambierebbe. Ma non sembra che l’azienda voglia perdere peso. C’è un nuovo management; è probabile che sarà esso ad alzare “bandiera bianca” dato che il “partito Rai” ha già affibbiato ai suoi componenti il nomignolo di “precari” e conta di far sì che diventino presto “esodati”.
Il canone è, tecnicamente, una “tassa di scopo” varata quando l’Italia era un Impero malconcio tra una guerra e l’altra (Africa, Spagna, conflitto mondiale) ed aveva un sistema tributario primitivo basato su Ige e imposta di famiglia. Pure allora gli specialisti di Scienza delle Finanze non amavano affatto le “tasse e le imposte di scopo” perché discorsive e tali da ingabbiare il bilancio pubblico in una ragnatela. Inoltre, “tasse ed imposte di scopo” sono regressive: non si paga “secondo la propria capacità contributiva” ma il magnate con reddito da favola paga lo stesso canone delle vecchietta con la pensione al minimo.
Oggi, sono ancora meno apprezzate: di recente, la Banca Mondiale ha suggerito all’Etiopia di eliminare quelle ancora in vigore in quanto non più consone con il livello di sviluppo raggiunto dal Paese africano. Ma per alcuni tecnici diventati politici italiani dovremmo tararci a quella che i nostri nonni e bisnonni chiamavano Abissinia.
Ci sono certamente tecniche più moderne per sovvenzionare la Rai (sempre che si lo ritenga appropriato) – innanzitutto una sovvenzione annua votata dal Parlamento – ma sino a quando la “tassa di scopo” esiste, occorre pagarla. E nessuno vede gli italiani correre con gioia ad assolvere questo obbligo. Si deve, quindi, trovare un sistema per contenere l’evasione – dato che far piantonare ogni famiglia da un vigilante Rai costerebbe più di quanto ciò porterebbe nelle casse della malmessa (e poco stimata) azienda.
Quindi al Ministero dello Sviluppo Economico è stata ripresa la proposta (considerata defunta nel 2009 quando Presidente del Consiglio e Ministero dell’Economia e delle Finanze misero a tacere chi l’aveva formulata) di aggiungere il canone alla bolletta elettrica nell’ipotesi cartesiana “elettricità, ergo Tv”; se hai l’attacco elettrico, ti godi (per così dire) anche la Rai in Tv. Pare che lo facciano in una mezza dozzina al mondo tra cui Grecia e Montenegro – noti, questi ultimi, per profonda e diffusa civiltà tributaria (nel 500 Avanti Cristo).
Ciò sarebbe macchinoso: ci vorrebbe, oltre ad una legge, una rete di accordi con circa centocinquanta aziende elettriche. Inoltre, se non si ha un “canone” per fasce di reddito, ciò aggraverebbe la regressività della misura: la pensionata al minimo pagherebbe una tariffa elettrica “sociale”, ma lo stesso canone rateizzato di Paperon de’ Paperoni. E cosa fare per coloro che non hanno Tv o, inorriditi dai programmi, non guardano mai i canali Rai? Pagherebbero una “tassa di scopo” senza averne un corrispettivo. Sotto il profilo economico, potrebbe avere effetti negativi sull’economia, aggravando i costi d’impresa e contenendo i consumi: a Via Molise dovrebbero cambiare nome in “Ministero del Sotto-Sviluppo Economico”.
Ammesso che le “tasse di scopo” (anche se arcaiche) non devono essere evase, sarebbe più semplice aggiungere una dichiarazione nei formulari dell’imposta sul reddito. Chi dichiara che ha un televisore, paga un’addizionale Rai correlata al proprio reddito. Chi per evadere dichiara il falso, commette un reato di falso in atto pubblico. Perché per raggiungere obiettivi semplici, scegliamo sempre percorsi complicati? Victor Ricciardi, maestro della “behavioral economics”, afferma che occorre chiamare un “neuro-fiscalista” al fine di individuare una terapia appropriata a chi lancia proposte del genere (anche se soltanto a causa di un colpo di sole).
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