Commercio mondiale a rischio inciampo
La Wto ipotizza un brusco stop per lo smaltimento scorte
DI GIUSEPPE PENNISI I n Europa si respira aria di ripresa, o meglio di «ripresina». Per l’Italia, tuttavia, potrebbe essere difficile agganciarla se non ripartono anche i consumi interni, visto che iniziano suonare alcuni campanelli d’allarme sul commercio internazionale e quindi sull’export che, finora, ha garantito quanto meno un freno alla recessione.
Nel secondo trimestre 2013, dunque, la Germania ha segnato un aumento del Pil dello 0,7% e la Francia dello 0,5%. Anche il piccolo, e malconcio Portogallo ha messo a segno un incremento del Pil (nell’arco dei tre mesi) dell’1,1%. Alcuni, Italia inclusa, battono ancora la fiacca. Complessivamente, in ogni caso, per l’Eurozona il secondo semestre viene considerato quello dello svolta. O meglio: della «svoltina». Come può l’Italia salire sul treno, per quanto lento si muova? Numerosi analisti puntano ancora una volta sull’export, che negli ultimi mesi ha fatto segnare crescenti surplus alla bilancia commerciale (marcatamente in deficit, invece, per buona parte del 2012). Senza sminuire il ruolo del commercio internazionale, e specialmente dell’export, in alcune categorie merceologiche, è lecito nutrire qualche dubbio che l’Italia possa tornare al modello di crescita trainata dalle esportazioni, pur caratteristica non solo dell’ormai lontano «miracolo economico» ma anche della strategia che negli Anni Ottanta permise di ridurre drasticamente l’inflazione mantenendo buoni tassi di sviluppo.
Ciò per ragioni sia interne sia internazionali. A metà agosto, partendo da queste ultime, l’Annual Review of Economics ha diramato un saggio il cui titolo fa accapponare la pelle: «The Great Trade Collapse» («Il Grande Tracollo del Commercio»). Ne sono autori Rudolfs Bems (Fondo monetario e Bce), Robert Johnson (Darmouth Colle) e Key Mu Yi (Federal Reserve Bank di Minneapolis), tre «autorità» del ramo. Individuano la principale determinante del «collasso» nella riduzione delle spese aggregate per beni durevoli oggetto di commercio internazionale e in un aggiustamento «massiccio» delle scorte accumulatesi in questi anni. E Il 18 luglio scorso preoccupazioni simili venivano espresse (in linguaggio più elegante) nel rapporto annuale dell’Organizzazione mondiale per il commercio ( Wto). Sul fronte interno, anche il ministero dello Sviluppo economico esprime preoccupazioni: nonostante abbiamo filiere di eccellenza nell’agroalimentare e nell’alta moda, negli ultimi dieci anni la nostra quota del commercio mondiale si è quasi dimezzata. Specialmente a ragione della contrazione (e della perdita di competitività) dell’industria manifatturiera: nel 2008-2010, la produzione industriale ha subito una riduzione, in valore, del 24%; dopo una stasi nel 2010, è ricominciata una caduta dal 2011 che sembra a ruota libera. Rispetto al 2007, all’ultima conta la produzione industriale ha segnato una diminuzione del 26% . Settori e aziende che negli Anni Settanta erano «casi di successo » nelle migliori business schools americane ed europee oggi corrono ai tavoli dell’unità di crisi in funzione presso il ministero dello Sviluppo: Indesit, Candy, Ignis e Zanussi nel comparto degli elettrodomestici e delle apparecchiature per la casa un tempo marchi ricercati dalla stessa Regina d’Olanda. Anche sulla moda meglio non farsi illusioni: l’output del settore tessile è diminuito del 35% in cinque anni. In breve, se il manifatturiero in senso lato non ritrova lo slancio competitivo di un tempo difficile pensare che l’export possa fare da catena di trasmissione ad una «ripresina » di cui comunque sapranno trarre vantaggio alcuni comparti specifici. In effetti, come hanno argomentato quattro anni fa, Paolo Guerrieri e Pier Carlo Padoan (vice-segretario Generale dell’Ocse) nel saggio «L’Economia Europea tra Crisi e Sfide Mondiali» è sulla domanda interna (e, quindi, sul potere d’acquisto interno) che occorre puntare (oltre che su miglioramento di produttività e di competitività). Per questo si rendono sempre più urgenti interventi in materia di politica industriale, cuneo fiscale-contributivo, produttività e competitività. Altrimenti l’Italia rischia di stare in panchina a guardare la «ripresina» altrui.
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Sarebbe una tegola per la «ripresina» italiana di fine anno ancora orientata all’export
La Wto ipotizza un brusco stop per lo smaltimento scorte
DI GIUSEPPE PENNISI I n Europa si respira aria di ripresa, o meglio di «ripresina». Per l’Italia, tuttavia, potrebbe essere difficile agganciarla se non ripartono anche i consumi interni, visto che iniziano suonare alcuni campanelli d’allarme sul commercio internazionale e quindi sull’export che, finora, ha garantito quanto meno un freno alla recessione.
Nel secondo trimestre 2013, dunque, la Germania ha segnato un aumento del Pil dello 0,7% e la Francia dello 0,5%. Anche il piccolo, e malconcio Portogallo ha messo a segno un incremento del Pil (nell’arco dei tre mesi) dell’1,1%. Alcuni, Italia inclusa, battono ancora la fiacca. Complessivamente, in ogni caso, per l’Eurozona il secondo semestre viene considerato quello dello svolta. O meglio: della «svoltina». Come può l’Italia salire sul treno, per quanto lento si muova? Numerosi analisti puntano ancora una volta sull’export, che negli ultimi mesi ha fatto segnare crescenti surplus alla bilancia commerciale (marcatamente in deficit, invece, per buona parte del 2012). Senza sminuire il ruolo del commercio internazionale, e specialmente dell’export, in alcune categorie merceologiche, è lecito nutrire qualche dubbio che l’Italia possa tornare al modello di crescita trainata dalle esportazioni, pur caratteristica non solo dell’ormai lontano «miracolo economico» ma anche della strategia che negli Anni Ottanta permise di ridurre drasticamente l’inflazione mantenendo buoni tassi di sviluppo.
Ciò per ragioni sia interne sia internazionali. A metà agosto, partendo da queste ultime, l’Annual Review of Economics ha diramato un saggio il cui titolo fa accapponare la pelle: «The Great Trade Collapse» («Il Grande Tracollo del Commercio»). Ne sono autori Rudolfs Bems (Fondo monetario e Bce), Robert Johnson (Darmouth Colle) e Key Mu Yi (Federal Reserve Bank di Minneapolis), tre «autorità» del ramo. Individuano la principale determinante del «collasso» nella riduzione delle spese aggregate per beni durevoli oggetto di commercio internazionale e in un aggiustamento «massiccio» delle scorte accumulatesi in questi anni. E Il 18 luglio scorso preoccupazioni simili venivano espresse (in linguaggio più elegante) nel rapporto annuale dell’Organizzazione mondiale per il commercio ( Wto). Sul fronte interno, anche il ministero dello Sviluppo economico esprime preoccupazioni: nonostante abbiamo filiere di eccellenza nell’agroalimentare e nell’alta moda, negli ultimi dieci anni la nostra quota del commercio mondiale si è quasi dimezzata. Specialmente a ragione della contrazione (e della perdita di competitività) dell’industria manifatturiera: nel 2008-2010, la produzione industriale ha subito una riduzione, in valore, del 24%; dopo una stasi nel 2010, è ricominciata una caduta dal 2011 che sembra a ruota libera. Rispetto al 2007, all’ultima conta la produzione industriale ha segnato una diminuzione del 26% . Settori e aziende che negli Anni Settanta erano «casi di successo » nelle migliori business schools americane ed europee oggi corrono ai tavoli dell’unità di crisi in funzione presso il ministero dello Sviluppo: Indesit, Candy, Ignis e Zanussi nel comparto degli elettrodomestici e delle apparecchiature per la casa un tempo marchi ricercati dalla stessa Regina d’Olanda. Anche sulla moda meglio non farsi illusioni: l’output del settore tessile è diminuito del 35% in cinque anni. In breve, se il manifatturiero in senso lato non ritrova lo slancio competitivo di un tempo difficile pensare che l’export possa fare da catena di trasmissione ad una «ripresina » di cui comunque sapranno trarre vantaggio alcuni comparti specifici. In effetti, come hanno argomentato quattro anni fa, Paolo Guerrieri e Pier Carlo Padoan (vice-segretario Generale dell’Ocse) nel saggio «L’Economia Europea tra Crisi e Sfide Mondiali» è sulla domanda interna (e, quindi, sul potere d’acquisto interno) che occorre puntare (oltre che su miglioramento di produttività e di competitività). Per questo si rendono sempre più urgenti interventi in materia di politica industriale, cuneo fiscale-contributivo, produttività e competitività. Altrimenti l’Italia rischia di stare in panchina a guardare la «ripresina» altrui.
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Sarebbe una tegola per la «ripresina» italiana di fine anno ancora orientata all’export
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