Pensioni,
consigli non richiesti a Letta e Giovannini per non impantanarsi
31 - 08 - 2013Giuseppe Pennisi
In Italia e non solo il tema delle pensioni è quello che causa maggiori
fibrillazioni nell’opinione pubblica, nei governi e nei mercati. A Bruxelles,
tornati alle loro scrivanie dopo il consueto letargo estivo, sono preoccupati
non tanto perché l’operazione Imu-Iva non avrebbe tutte la coperture necessarie
ma perché il Ministro del Lavoro ed uno dei vice ministri dell’Economia
starebbero per porre sul piatto di governo, Parlamento ed opinione pubblica una
nuova riforma delle pensioni. E’ noto che ciascun ministro del Lavoro vuole
associare il proprio nome ad una riforma e non potendo mettere ordine nella
normativa sul mercato del lavoro (metà della coalizione ‘di servizio’
insorgerebbe) pensa ad un riassetto globale della previdenza in nome
dell’equità. Ha anche trovato Padri Nobili che di pensioni si intendono.
Sin da quando nel1995 è stata varata la “riforma Dini” si sapeva che il
nuovo sistema “contributivo” di calcolo dei trattamenti sarebbe stato molto
meno favorevole del sistema “retributivo”: il compianto Ornello Vitali, a lungo
alla guida del Dipartimento Analisi Quantitative per le Scelte Pubbliche, ha
pubblicato riguardo nel 1996, ne “La Rivista di Politica Economica”, calcoli
accurati e mai smentiti In Svezia, dove si varava una riforma analoga
alla nostra, si prevedeva un periodo di transizione solo di tre anni proprio al
fine di attutire le disparità. In Italia, Governo e parti sociali negoziarono
una transizione di 18 anni proprio per garantire il ‘retributivo’ proprio a
coloro che erano attorno al tavolo ed ai loro referenti.
Oggi, la “riforma Giovannini” se mai si farà (e se non causerà la fine del
Governo prima dell’inizio dell’iter parlamentare, mira a un riequilibrio
all’interno del sistema (già benedetto dal Presidente dell’INPS) a carico dei
“pensionati d’oro”. In una nota , l’economista Stefano Micossi ricorda che “non
c’è trippa per gatti”.
Secondo i dati Inps, i veri pensionati d’oro (quasi interamente a causa di
una leggina speciale per i dipendenti del settore elettrico e telefonico,
allora unitamente in monopolio) sono 540; pur applicando un taglio del 70% alle
loro pensioni (ed ammettendo che i tribunali lo consentano) si otterrebbe ben poco
anche perché – ma questo Micossi non lo sa o non dice) circa 300 dei 540 hanno
superato i 75 anni. Pur ammesso che grasse pensioni allungano la vita, c’è pur
sempre un limite.
Ci sono – è vero – i “pensionati d’argento” con un trattamento superiore ai
5000 euro al mese (tra i140.000 ed i 190.00 mila; dall’INPS sono uscite
differenti cifre). Ammesso che non abbiano altri redditi, si tratterebbe di un
netto mensile di 3000 euro; pur togliendo mille euro dal lordo, si otterrebbe
quasi o nulla in termini di conti Inps e di giustizia sociale. Ammettendo che
questa volta i tribunali, che hanno già bocciato tre “contributi di
solidarietà”, questa volta cambino idea. Altra idea sarebbe quella di
intervenire bloccando le indicizzazioni a chi pensioni superiori ai 5000 euro
al mese; in 25 anni, coloro che non muoiono, perderebbe circa un terzo del
potere d’acquisto. Non soltanto si tratterebbe di misura discriminatoria (e,
quindi, di dubbia costituzionalità) ma si impoverirebbero gli ottantenni ed i
novantenni quando hanno maggior bisogno di cure.
Ove ciò non bastasse, la misura avrebbe una parvenza di equità se le
pensioni “di tutti” venisse ricalcolate secondo il nuovo metodo “contributivo”
(come avvenuto in Svezia nel 1995-99), ma per i dipendenti pubblici non esistono
dati prima del 1996 e per i dipendenti privati i dati sono carenti. Ad
aggiungere complicazione, la legge del 1995 consentiva ai dipendenti pubblici
di andare in pensione con il contributivo); molti lo hanno fatto perché più
favorevole (conosco ad esempio il caso di una persona con 45 anni di anzianità,
di cui 30 come dirigente di prima fascia, a cui il “contributivo” ha voluto
dire un aumento del dieci per cento rispetto al trattamento che avrebbe avuto
con il ‘retributivo’). Cosa fare in questi casi? Ricalcolare le pensioni di
tutti e compensare (retroattivamente) coloro che , spesso perché non informati
o poco avvezzi alla matematica attuariale) non hanno fatto la scelta a loro più
conveniente.
Il “pasticciaccio brutto” è ancora maggiore perché pare diretto contro i
manager aziendali e quei corpi dello Stato (alta burocrazia, Forze armate,
magistrati, specialmente quelli amministrativi, della Corte dei Conti e del
Consiglio di Stato) che dovrebbe collaborare a definirla e attuarla. Al
Consiglio di Stato, in barba al fatto che alcuni loro colleghi facciano parte
del “Gabinetto Giovannini” si stanno già predisponendo bozze di ricorsi. Pare
anche diretta contro tutti coloro che hanno ritardato il pensionamento, anche
se su pressante invito dei Governi che da vent’anni si succedono. Quindi
screditerebbe Governo e Parlamento.
Tutto ciò non vuol dire che il problema dell’equità previdenziale non c’è o
che non debba essere affrontato. Nel 2001, una Guida alla riforma della
previdenza predisposta da un gruppo di specialisti indicava un tracciato che in
parte è stato seguito. Si può ancora operare su alcuni istituti della
(complessa) normativa in vigore per porre rimedio al problema. In primo luogo,
occorre abbassare il vesting, il numero di anni/mesi/settimane in cui si sono
versati contributi per avere titolo a previdenza. Nel gennaio 1993 è stato
alzato da 15 a 20 anni, suscitando critiche (ufficiose) dell’Organizzazione
internazionale del lavoro, poiché in gran parte dei paesi membri si
richiedevano tra 10 e 15 anni. Inps e Ragioneria Generale dello Stato
dovrebbero effettuare simulazioni quantitative per individuare un numero di
anni per un vesting compatibile con le ristrettezze di finanza pubblica. Oggi
chi lavora 19 anni e 11 mesi paga contributi che sovvenzionano le pensioni
altrui. Si tratta di milioni di uomini di uomini e soprattutto donne non di 540
o 140-190.000.
In secondo luogo, occorre operare sull’assegno di solidarietà per gli
anziani incapienti (ossia privi di mezzi), re-introducendo qualcosa di analogo
all’integrazione al minimo previdenziale. In terzo luogo, occorre lanciare un
vasto programma di alfabetizzazione finanziaria-previdenziale. Un tempo, almeno
per i funzionari pubblici, tali programmi venivano effettuati dalla Scuola
nazionale di Pubblica amministrazione, ora sembrano spariti. In quarto luogo,
occorre riformare, con incentivi e disincentivi, la previdenza complementare
per ridurre il numero dei fondi pensione dagli attuali circa 700, spesso
lillipuziani (non in grado di attirare risparmi né piccoli, né grandi).
A Bruxelles, convinti che l’Esecutivo Letta non reggerebbe ad uno “scossone
previdenziale”, ricordano che il tema non è né tra quelli delle raccomandazioni
dell’UE né tra quelli del programma di governo.