Riccardo
Muti riporta a Roma “I due Foscari”
26 - 02 - 2013Giuseppe Pennisi
Chi
si reca in pellegrinaggio a Bussetto, luogo natale di Giuseppe Verdi, trova,
accanto al municipio (dove è racchiuso un minuscolo ma mirabile teatrino), un
albergo stile anni ‘50, con armature medievaleggianti in ferro battuto ed
imitazioni di mobilio veneziano. Si chiama “I due Foscari” e lo ha gestito per
decenni una delle grandi voci verdiane Carlo Bergonzi (classe 1924). È
difficile capire perché tra i tanti titoli delle 27 opere di Giuseppe Verdi,
Bergonzi abbia scelto proprio “I due Foscari”, una dei melodrammi meno noti del
compositore, come nome per l’albergo. “La Traviata” od “Otello” forse sarebbe
potuti sembrare un po’ equivoci; “Falstaff” troppo lepido; “La forza del
destino” – lo sappiamo – è menagramo. Ma “Trovatore” sarebbe potuto sembrare
perfetto per un albergo di provincia: un titolo noto, accattivante, con un
sapore di mistero ed un’aura sentimentale-romantica?
Perché
allora “I due Foscari”? E’ l’opera più breve ed una delle meno rappresentate di
Verdi, ignorata addirittura per circa cinquanta anni sino a quando non venne
“riscoperta” da Giulini per una delle memorabili esecuzioni della Rai. Venne
ripresa sotto l’egida di Francesco Siciliani per il Maggio fiorentino e
definitivamente rilanciata da Bruno Bartoletti a Roma nel 1968 in un
allestimento magico che approdò al Metropolitan e preparò i veri e propri. E’
un’opera cupa, tratta da un poema ancor più cupo di Byron. In scena non avviene
nulla in quanto tutto è avvenuto prima ed i fatti di rilievo che succedono
durante i tre atti si verificano, in gran misura, dietro le quinte. Ha solo tre
personaggi di rilievo; dato che segue quasi le regole dell’unità aristotelica
(tutto in giorno, nel Palazzo Ducale e dintorni), anche lo sviluppo psicologico
dei protagonisti è limitato.
Ildebrando
Pizzetti, che ne adorava lo spartito e ne promosse la rappresentazione scenica
del 1968, ne vedeva un dramma in musica modernissimo. In effetti, anche se “I
due Foscari” appartiene agli “anni di galera” di Verdi (e come tale viene
eseguita, ad esempio, nella versione concertata da Maurizio Arena nell’edizione
discografica Nuova Era del 1984), è una tragedia lirica, per alcuni aspetti
agganciata alla prima metà dell’Ottocento e per altri già rivolta alla fine del
secolo, ove non al Novecento; pezzi chiusi, naturalmente, ma pochi, intercalati
da brevi intermezzi, enfasi sul declamato ed un continuo orchestrale denso di
mezze tinte (pur nella cupezza generale dell’opera).
Non
è solo una tavolozza di “Simon Boccanegra”, uno dei lavori più sentiti da Verdi
(ci lavoro per quasi tre lustri), nonché più commoventi. È un piccolo, scarno
capolavoro imperniato sull’amor filiale (tema centrale della vita e dell’opera
di Verdi); ciò spiega il successo degli ultimi anni con edizioni in Italia ed
all’estero.
Dalle
scene del Teatro dell’Opera di Roma manca del 2001, quando riapparve dopo 33
anni; allora Bruno Bartoletti regalò un’esecuzione magica rivolta ad illuminare
i toni scuri del lavoro. Renato Bruson, con 40 anni di palcoscenico sulle
spalle, era ancora un grandissimo Francesco Foscari; la voce ha, senza dubbio,
perso lo smalto che aveva nell’edizione del Regio di Torino di 17 anni prima,
ma la sua presenza scenica è inconfondibile, non solo nel tragico finale del
lavoro. Darina Takova era una Lucrezia dolente più che appassionata, Ivan
Momirov un Jacopo Foscari sofferto ma dall’ampio registro. Pierluigi Pizzi (che
aveva allestito il lavoro alla Scala nel 1979) dipingeva una Venezia grigia su
cui si stagliano i costumi rossi del Consiglio, l’oro del manto di Francesco,
l’azzurro di Lucrezia ed il nero funereo di Jacopo. Uno spettacolo, quindi, da
vedere.
L’opera
si vedrà di nuovo a Roma dal 6 al 16 marzo in un’edizione (che andrà in
Giappone) fortemente voluta da Riccardo Muti. La regia di Werner Herzog e le
scene ed i costumi di Maurizio Balò ci portano in una Venezia fredda e
glaciale, quasi spettrale. Luca Solari è Francesco Foscari, Francesco Meli
Jacopo, e Tatiana Serjan (in alternanza con Csilla Borross Lucrezia. Da non
perdere.
Nessun commento:
Posta un commento