DEBITO E INFLAZIONE: IL RUOLO
DELL’INFORMAZIONE
Giuseppe Pennisi
Vi ricordate la newsmetrica? Ossia la
disciplina che misura come e quanto l’informazione , quindi le news , incidono sull’economia. Una
quindicina di anni fa, ebbe una certa attenzione anche in Italia grazie ad un
libro di Massimo Tivegna e Patrizia Chiofi su news e tassi di cambio (l’euro era ancora nel grembo degli Dei).
Successivamente due volumi editi dalla Scuola Superiore della Pubblica
Amministrazione, editi tra il 2003 ed il 2005, esaminarono, il primo, come
le news
influissero sulle politiche del lavoro e sul funzionamento della domanda ed
offerta di personale ed il secondo l’impatto dell’informazione giornalistica
sui prezzi negli anni della sostituzione della lira con l’euro. I due volumi,
curati da me e da Giuseppe De Filippi del TG5,
suscitarono un certo dibattito nel 2005-2006. Successivamente, però, la
newsmetrica parve finita in soffitta. Da un lato, c’erano pressanti problemi di
politica economica e di finanza pubblica. Da un altro, l’industria dei media in
generale cominciava ad essere travagliata da una crisi sempre più strutturale –
e sempre più severa.
Ora la disciplina sta ricevendo una
nuova ondata d’attenzione. A fine 2012 – inizio 2013 Anton Braun della Federal
Reserve Bank of Atlanta e Tomoyuki Nakajima dell’Università di Kyoto, hanno
presentato in varie banche centrali nazionali dell’eurozona la prima puntata di un lavoro diretto a comprendere
perché in numerosi Paesi, e specialmente in unioni monetarie, c’è sovente un
lungo lasso di tempo (molto più lungo di quanto preconizzato dalla teoria) tra
un forte aumento del debito pubblico (in rapporto al Pil) ed una spinta
inflazionistica. Non solo, quando la spinta si verifica diventa presto
un’impennata. In aree come l’eurozona, dove in un certo qual modo, l’inflazione
effettiva è mascherata dall’armonizzazione dei prezzi al consumo nell’ambito
dell’unione monetaria, il fenomeno si traduce in differenziale dei
differenziali di tassi d’interesse sul debito pubblico (lo spread) : nonostante l’Italia abbia da sempre un rapporto debito
pubblico:PIL molto più elevato della media dell’eurozona, soltanto nel 2011 lo spread è aumentato. E, quando, lo ha
fatto, ciò è avvenuto rapidamente. Eppure un alto debito pubblico rispetto al
reddito nazionale, se non curato con un forte aumento della pressione fiscale
ed una parimenti forte riduzione della spesa pubblica, comporta, prima o poi,
un default o implicito (tramite
inflazione che spinge all’ingiù il valore dei titoli) o esplicito (allungamento
forzoso delle scadenze, consolidamento).
Braun e Nakajima hanno costruito un
modello econometrico dell’impatto dell’aumento dello stock del debito pubblico
sul comportamento degli investitori – divisi, per semplicità, in due categorie
–gli ottimisti (i quali ritengono che il Paese se la caverà e i pessimisti i
quali, pensano invece che affonderà). Il modello – la cui lettura è ovviamente
per specialisti – è corroborato da una vasta gamma di analisi empiriche: studi
del nesso tra debito ed inflazione in 29 Paesi emergenti tra il 1993 ed il
2006, di un campione di Paesi Ocse tra il 1970 ed il 2009, dell’andamento
comparato in Corea e Giappone, da un lato, in Grecia e Germania, da un altro,
negli Stati Uniti e Canada, da un altro ancora. E via discorrendo.
La conclusione è che , in aggiunta ad
elementi tecnici (il grado di frizioni nel funzionamento del mercato
finanziario, i metodi utilizzati dai Tesori per il collocamento dei titoli), la
determinante principale sono le news .
Per una fase spesso piuttosto lungo i media non diffondono consapevolezza del
crescente problema del debito pubblico: Quando lo fanno e gli operatori (anche
gli ‘ottimisti’ ) ne prendono
consapevolezza, i prezzi e/ o lo spread si
muovono in a dramatic way.
Lasciamo tirare le somme a chi scrive
di economia e finanza.
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