Domani primo febbraio, in una tranquilla e nebbiosa domenica invernale, si riuniscono, nel freddo glaciale di Toronto, gli esperti a livello tecnico del G20 sulle questioni economiche e finanziarie. E’ una riunione di dirigenti di Ministeri economici e di Banche centrali che precede quella a metà marzo dei Ministri dell’Economia e delle Finanze – a sua volta preliminare all’assise dei Capi di Stato e di Governo in calendario a Londra il 2 aprile. E’ probabile che prima di allora (e forse ancora prima della riunione finanziaria ministeriale in calendario tra 6 settimane), ci potrà essere, a Berlino, un vertice straordinario dei Capi di Stato e di Governo- dedicato specificatamente ai derivati; lo hanno anticipato, un po’ sornionamente, Silvio Berlusconi e Nicolas Sarkozy. L’Italia ha un ruolo particolare perché in questo anno di grazia 2009, è il Presidente di turno del G8. Sarkozy è l’iper-Presidente che, se non ha un ruolo, se lo prende sol che gli piaccia.
Tutto ciò indica che il vertice convocato da George W. Bush a metà novembre a Washington non è stato, come molti pensavano, inutile o peggio ancora (uno sfoggio mediatico d’un Presidente al termine del proprio mandato e dopo una severa sconfitta elettorale del suo partito). Il G20 sul Potomac ha messo in moto una macchina. Ora è cruciale che resta sulla corsia giusta e porti risultati concreti entro aprile.
Alla riunione, saranno esaminati documenti dei gruppi di lavoro sui criteri di patrimonializzazione delle banche, sulle proposte del Financial Stability Forum, sulle riforme della Banca mondiale e del Fondo monetario. I rapporti sono ovviamente riservati e non si sa se e quando saranno resi pubblici (in forma più o meno integrale). E’ bene che restino coperti da uno spesso velo di discrezione data la delicatezza delle materie trattate. Tuttavia, i corridoi hanno orecchie. E gli stessi British (il mini-segretariato del G20 è a Londra ed è dotato di personale preso in prestito dal Tesoro di Sua Maestà) non sono sempre “gentlemen”: nell’ultimo fascicolo di “The Economist” ben 14 pagine sono dedicate a “the future of finance”, “il futuro del sistema finanziario”. E’ verosimile che ancora una volta (come quando la testata tratta di Banca Mondiale) il settimanale abbia avuto qualche soffiata.
La sezione speciale di “The Economist” non sfiora però quella che sembra essere la preoccupazione centrale dei gruppi di lavoro: il paradosso di un mondo in cui (nonostante le difficoltà di numerosi istituti di credito) la liquidità è abbondante (pure a ragione degli interventi pubblici a sostegno delle banche e dei bassissimi tassi d’interesse di riferimento) ma non arriva né ai settori che producono né alle famiglie ed agli altri soggetti che consumano. Questa è la caratteristica della crisi in atto. All’origine del paradosso c’è la mancanza di fiducia all’interno del settore finanziario: ciascuna banca non ha contezza di quanti titoli tossici sono nel portafoglio delle sue consorelle ed anche nei suoi propri forzieri. In questo clima, il credito viene razionato non perché non c’è liquidità o perché non si hanno dati adeguati sui propri clienti ma perché non si ha fiducia né negli altri istituti e neanche in se stessi. Inoltre, il cavallo (ossia imprese, famiglie) non beve perché, temendo tempi peggiori e percependo che le banche non si fidano le une delle altre), mette sotto il materasso ciò che, alla fine del mese, riesce a risparmiare.
Come uscirne? Senza ricorrere alla “neuroeconomics” (“neuroeconomia”) od alla speranza (molto prossima ad un’illusione) che il cambiamento di Governo negli Usa abbia effetti miracolistici cerchiamo di vedere cosa può essere fatto sotto il profilo tecnico perché il G20 resti sulla corsia giusta e non pensi che Obama possa essere il Padre Pio della finanza internazionale.
Il nodo immediato si è detto è il paradosso tra disponibilità di liquidità e restrizioni. Si può in parte curarlo rimuovendo dubbi sulla solidità delle banche. Tre sono i metodi correnti: a) garanzie pubbliche (ma in Gran Bretagna hanno fatto cilecca); b) creazione di “bad banks” (dove collocare i titoli tossici) da liquidare a spese dei contribuenti (percorso seguito in passato in Corea e Giappone); c) nazionalizzazioni temporanee (come fatto negli Anni 90 in Svezia ed in Giappone) ma in molti Paesi tenderebbero e diventare permanenti. Nessuno di questi metodi – lo sappia il G20- è particolarmente brillante. Meglio viaggiare verso un miglioramento della regolamentazione e della vigilanza sia nazionale sia internazionale senza farneticare su “bad banks” mondiali e quella novella Lourdes che sarebbe un’ipotetica nuova Bretton Woods . Non mancano proposte sul tappeto. Al contrario ce ne è una vera e propria pletora. Hanno quasi tutte un difetto: riguardano esclusivamente o quasi il credito (alcune si estendono alle assicurazioni) ignorando del tutto il mercato mobiliare che con credito ed assicurazioni è strettamente connesso. Lo dice bene uno studio di Luigi Zingales (Chicago Booth School of Business Research Paper n. 08-27) che si riferisce – è vero- agli Usa ma meriterebbe di essere letto in Italia. La Consob (e le sue cugine nel resto del mondo) paiono essere le grandi assenti: mettiamole in pista perché la ri-regolamentazione dovrebbe riguardare anche loro. Ancora una volta non ci saranno grandi esiti di breve periodo. Jan-Pieter Krahen dell’Università di Francoforte e Günter Franke dell’Università di Costanza hanno appena messo on line un lavoro interessante (CFS Working Paper No 2008/31) sul futuro della finanziarizzazione dell’economia; la ripresa sarà lenta; è probabile che soprattutto negli Usa gli utili del settore finanziario (passati dal 10% di tutti i settori economici nel 1980 al 40% nel 2007) ed il ruolo nella capitalizzazione di Borsa (dal 6% al 23% nello stesso arco di tempo) facciano marcia indietro. E’ desiderabile – affermano Daron Acemoglu ed il Premio Nobel Edund Phelps – che la finanza sia maggiormente in linea con l’economia reale e che la regolazione serva anche a questo scopo.
Può essere utile a questo fine una riforma delle istituzioni finanziarie internazionali (Banca Mondiale, Fondo monetario) e in questa architettura quale ruolo dare al Financial Stability Forum? Su questi temi si sta scrivendo molto e stanno nascendo molte ambizioni. A mio parere, sono questioni importanti ma da affrontare dopo i nodi del paradosso (liquidità abbondante ma che resta in cassaforte) e della nuova regolazione. Gli organigrammi, e le poltrone, tendono a portare su corsie sbagliate. A volte, pure ad andare contro mano.
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