Fa bene vedere, in un freddo martedì di gennaio, un grande teatro padano (Il “Regio di Parma) strapieno per una delle opere più “patriottiche” di Giuseppe Verdi , quella de “I Lombardi alla Prima Crociata” il cui coro – diceva la poesia del Giusti – “tanti petti ha scosso ed inebriati” ma che appare saltuariamente nei cartelloni delle maggiori fondazioni lirico-sinfoniche (nonostante sia di repertorio in Europa Centrale – e dire che intendeva essere un inno alla libertà contro l’Impero Austro Ungarico”!).
“I Lombardi” è la prima del gruppo di opere “patriottiche” di Verdi. Nel 1843, un anno dopo lo strepitoso successo del “Nabucco”, Verdi, pur fedele suddito del Granducato di Parma e Piacenza, cominciava a frequentare i salotti dell’illuminismo milanese, specialmente quello della Contessa Clara Maffei dove la polizia austro-ungarica tollerava, facendo finta di non avere né occhi né orecchie, conversazioni dal tono tra l’eretico e l’irredentista; tra un cioccolato caldo ed un sorbetto, l’Italia veniva vista come espressione politica, non solo geografica (nel lessico del Barone Metternich), da portare verso l’unità.
Attenzione, pochi biografi verdiani e studiosi seri avvalorano la leggenda secondo cui “Nabucco” sarebbe stata concepita come opera patriottica. Alle rappresentazioni alla Scala nel 1842 , l’opera ebbe ovazioni , ma “Va pensiero” fu accolto tiepidamente, mentre le mani si spellarono al coro a Dio nel finale (il compositore era ateo ma il pubblico quasi bigotto). Solo anni più tardi, man mano che il Risorgimento si affermava, “Va pensiero” venne inteso come inno alla Patria lontana ed oppressa. Mentre “O Signore dal tetto natio…” de “I Lombardi” venne concepito come tale sin dall’inizio. In effetti, fu il successo di “Nabucco” , e l’interpretazione che se ne dava nei salotti insofferenti a Vienna, a convincere l’impresario a puntare su romanzaccio in versi fare sì che il mediocre librettista scrivesse un fellieutton: guerre fratricide (tra lombardi), parricidio per errore (si tentava un, non molto più nobile, fratricidio), conversioni (da cristiani “cattivi” a mussulmani sadici, e da mussulmani “buoni” a cristiani), luoghi storici (la basilica di Sant’Ambrogio, i castelli lombardi, Antiochia, il Negev e Gerusalemme dipinta sullo sfondo del quarto e ultimo atto).
Altra leggenda metropolitana da sfatare: quella degli “anni di galera” (di cui i “Lombardi” sarebbe frutto); Verdi sarebbe stato costretto a comporre in modo frenetico per guadagnarsi il pane. Nella sua vita coniugale a Milano, il nostro aveva momenti di difficoltà finanziarie ( di liquidità piuttosto che di solvibilità), ma erano sempre parati dal provvidente suocero , un possidente e commerciante di rango della borghesia emergente di Busseto. Dal “Nabucco” in poi, Verdi fu dapprima un benestante e successivamente ciò che si definisce un ricco. Negli “anni di galera” compose mediamente un’opera ogni nove mesi, una media ben inferiore a quanto facevano allora musicisti, anche affermati, di teatro in musica (si pensi alle 23 opere l’anno che nello stesso periodo sfornava Donizetti).
Torniamo a “I Lombardi”. L’intenzione era ripetere il successo di cassetta di “Nabucco”. Per questa ragione, il librettista, Temistocle Solera, è il medesimo dell’opera precedente. Dato il clima che si cominciava a respirare a Milano, gli occhi di Verdi e di Solera caddero su un romanzo in versi di Tommaso Grossi che aveva tutti gli ingredienti per coniugare una complicata vicenda privata (lotte tra fratelli, un parricidio, pentimenti, tradimenti, conversioni, battaglie) con un affresco storico (le Crociate) in cui era possibile inserire riferimenti al tempo stesso discreti ed eloquenti (la censura era tanto severa quanto cretina) alle istanze pre-Risorgimentali. Verdi e Solera ebbero mano libera dall’impresario della Scala; costruirono, quindi, un’opera in quattro atti (nove quadri) in cui ciascun atto è sia aperto sia chiuso dal coro (in modo che i cambi di scena avvenissero a sipario chiuso e con il coro sul boccascena). Verdii non poteva, però, prescindere dei cantanti di cui si disponeva. La protagonista sarebbe stata Erminia Frezzolini, caratterizzata da una vocalità molto diversa da quella di Sophie Lowe (per la quale era stato scritto il ruolo di Abigaille in “Nabucco” e che avrebbe successivamente impersonato la Elvira di “Ernani” e la Odabella di “Attila”); al posto della inusuale combinazione di forza (da “soprano drammatico spinto”) ed agilità (da “soprano da coloritura), la Frezzolini proveniva dal “belcanto” belliniano (era stata “Beatrice di Tenda”) e donizzettiano (aveva impersonato “Lucrezia Borgia”) e si collocava, dunque, molto più su una tessitura lirico leggera. Il soprano, Giselda, è il personaggio chiave de “I Lombardi”, l’unico effettivamente tridimensionale e con un vero sviluppo psicologico, mentre gli altri sono bidimensionali e senza una vera evoluzione drammatica nell’arco dei quattro atti. Questi aspetti, tra lo storico ed il tecnico, servono a spiegare per quale motivo “I Lombardi”, dopo una fase di successo sino al 1870 o giù di lì, è quasi sparito dai cartelloni fino a tempi relativamente recenti. Da un lato, con l’unità d’Italia la sua funzione “patriottica” si era esaurita (e con l’avvicinarsi del verismo il gusto era distante anni luce da quello del primo melodramma verdiano). Da un altro, c’erano proprio difficoltà tecniche a dare voce alla protagonista. E la Frezzolini: grande giocatrice di Borsa diventò in un primo momento ricchissima a Wall Street ma poi, sempre a New York, perse tutto e finì a cantare qualsiasi cosa le se offrisse in teatri secondari americani (anche del Far West).
Bene ha fatto il Regio di Parma ad aprire la stagione 2009 con un allestimento de “I Lombardi” già visto nel 2003 al Festival Verdi e che , si spera, riprenda a viaggiare, in Italia ed altrove. E’ molto differente dalla lettura “pacifista” data al lavoro da Paul Curan in una messa in scena vista a Firenze nell’ottobre 2005. L’orpello è il rondò del “finale secondo” quando Giselda, convinta che l’”infedele” Oronte (di cui è innamorata), sia stato ucciso dai Crociati nell’assalto ad Antiochia, intona “No, giusta causa non è d’Iddio , la terra spargere di sangue umano”. Tuttavia, nel quarto atto è la stessa Giselda a lanciare l’appello all’assalto finale per la liberazione del Santo Sepolcro al grido di “Sì, guerra, guerra , s’impugni la spada , affrettiamoci, empiamo le schiere , sulle bende la folgore cada, non un capo sfuggire potrà”. Un invito, quindi, a non fare neanche prigionieri. Ma soprattutto, pur ancorata alle convenzioni del melodramma del 1840 (cavatine, cabalette, rondò, concertati), la partitura scritta da Verdi per “I Lombardi” non solo è innovativa (una tavolozza che accoglie le tonalità in bemolle e largheggia addirittura nei Sol, nei Fa, nei La e nei Do cominciando spesso nel modo minore per chiudere nel maggiore) ma è forse la più guerrafondaia composta dal nostro. Soltanto il “Si ridesti il leon di Castiglia!” di “Ernani” è parimenti bellicoso.
Nella versione di Paul Curan, il primo quadro non è nella piazza di Sant’Ambrogio ma a “Ground Zero” in una New York in ricostruzione dopo l’attacco alle Torri Gemelli. I Crociati vestono le tute mimetiche delle truppe Onu. Il Sultano di Antiochia Acciano assomiglia a Saddam Hussein; il suo harem fa shopping da Gucci. I Crociati non sono proprio stinchi di santi in quanto brutalizzano i prigionieri catturati alla conquista del Santo Sepolcro. Pagano (il fratello cattivo, successivamente redento) guida un commando di terroristi. Tuttavia, la gestualità dei cantanti e del coro e soprattutto l’orchestra dicono a tutto tondo chi sono “i nostri”. A chi non fosse chiaro, il concertato e coro finale spiegano tutto: “Te lodiamo gran Dio di vittoria, Te lodiamo invincibil Signor, Tu salvezza, Tu guida, Tu gloria sei de’ forti che t’aprono il cor!”. Poco astuta la idea di vestire le signore in tailleur o tunichette e calzoni; i soprani sono spesso robusti.
Questa chiosa, basta sui ricordi del 2005, è utile per spiegare per quale motivo ho apprezzato la produzione (a Parma sino al 25 gennaio e,poi, in vari teatri) di Lamberto Pugelli (regia), Paolo Bregni (scene), Santuzza Calì (costumi). E’ una scena fissa dove si combatte, si vive, si ama e si muore. Anche se in un paio di momenti, appare sul fondale “Guernica” di Picasso, siamo decisamente attorno al 1100 (un 1100 un po’ straccione e poco sontuoso , come doveva essere all’epoca); con giochi di luce e proiezioni passiamo dalle nebbie padane, al muro del pianto, al deserto, a morbide notti mediterranee da dove appare la visione della Città Santa. Quindi, spettacolo che coniuga tradizione con punte di innovazione. La messa in scena efficace e facilmente trasportabili su palcoscenici di dimensioni differenti, anche a ragione del ritmo cinematografico e della buona recitazione che rende quasi credibile il complicato libretto. In tempi magri per lo spettacolo questi sono aspetti apprezzabili.
Corretta, ma non travolgente, la direzione musicale di Daniele Callegari; eccellente, e giustamente chiamato alla ribalta, il primo violo nell’intermezzo “a solo” nella seconda parte. Di grande spessore il coro guidato da Martino Faggiani (apre e chiude ciascuno degli otto quadri). Di grande rilievo, la prestazione del ventottenne Francesco Meli, nonostante il pessimo trucco che ne cela l’avvenenza; lanciato giovanissimo in ruoli donizettiani e rossiniani, sta diventato uno dei rari tenori “verdiani” in circolazione (non soltanto in Italia). Sino ad ora ha scelto con cura i ruoli e questo è l’ingrediente maggiore dei suoi risultati – da porlo come uno dei candidati alla successione di Luciano Pavarotti a livello internazionale. Non tenti anzitempo parti non ancora per la sua vocalità. Il ruolo di Oronte (ne “I Lombardi”) è relativamente breve ma molto difficile; meritatissimi gli applausi a scena aperta. Di rilievo anche l’altro tenore richiesto dalla partitura, Roberto De Biaso , vocalità un po’ “spinta” , impostata sul centro. L’applauditissima Dmitra Theodossiou (letteralmente coperta di fiori, al termine della “prima”, dal pubblico di Parma) ha un ruolo terrificante: ma la voce le si è ispessita rispetto a quando interpretò l’opera a Cremona e a Firenze e, di conseguenza, eccede negli acuti e dà meno rilievo del dovuto agli abbandoni lirici. Ricordiamo che in Scala il ruolo è stato affidato alla Dimitrova (soprano drammatico, molto distante anche lei dalla vocalità della Frezzolini). Nelle edizioni in cd in commercio, ci azzeccano unicamente Gavazzeni (con la Scotto) e Levine (con la Anderson). Michele Pertusi è di grande presenza scenica e vocale, ma non ha più l’agilità di un tempo. E’ il “genius loci”; quindi, ottiene ovazioni.
Iscriviti a:
Commenti sul post (Atom)
Nessun commento:
Posta un commento