L’Italia è stata uno dei rari Paesi al mondo dove il teatro in musica “alto” – l’opera, in parole povere – è stato un’intrapresa commerciale (ossia fornita non da Re e da Principi ma da impresari che operavano per profitto risultato a sua volta degli incassi resi possibili dal pubblico pagante). Ciò è avvenuto due volte. Sempre per motivi politici. Nella Venezia della Controriforma (dove il bigottismo ufficiale imperava), l’opera commerciale mostrava un mondo lascivo, peccaminoso e corrotto (quello per intenderci dei lavori di Cavalli & soci). E nell’Ottocento sino al primo scorcio del Novecento dove l’opera era strumento per fare l’Italia, prima, e per fare gli italiani, poi. Dal 1921 quando Toscanini rese le chiavi della Scala al Sindaco di Milano l’opera è diventata un’intrapresa che vive grazie a sovvenzioni. E’ afflitta dal “morbo di Baumol che prende il nome da un economista americano, William Baumol, il quale lo ha teorizzato, nel lontano 1961, in un libro scritto a quattro mani con il collega Willian Bowens (“Perfoming Arts: the Economic Dilemma”). Il libro (considerato una pietra miliare nel settore) riguardava le arti sceniche e sosteneva l’esigenza economica di supporto pubblico per impedire che a noi, e soprattutto, alle prossime generazioni ne sia vietata la fruizione. Le arti sceniche – non soltanto la lirica di cui Baumol e sua moglie sono appassionati ma anche la sinfonica, la cameristica ed il teatro di prosa – sono a tecnologia fissa: ci vogliono oggi gli stessi musicisti per un quartetto di Haydn, una sinfonia di Beethoven ed l’opera considerata da Adorno come l’espressione più completa del genio occidentale (“I maestri cantori di Norinberga” di Wagner) di quanti ce ne volevano quando vennero realizzate. Non potendo, quindi, fruire della riduzione di costi di produzione connessa al progresso tecnologico perderebbero sempre più competitività e verrebbero spiazzate da muse meno bizzarre e meno altere, più tecnologiche ma meno appassionanti. Con tale spiazzamento – dice, e modellizza, Baumol – si perde il nesso con il nostro passato. Ed una parte importante di quanto si può e si deve lasciare in eredità ai nostri figli e nipoti.
Baumol non è un socialdemocratico e probabilmente neanche un “liberal”- i suoi testi profumano d’amore per il mercato. Documenta, però, come senza l’intervento pubblico, il “morbo” che da lui prende il nome comporti la morte di mal sottile della lirica, della sinfonica, della cameristica ed anche di buona parte del teatro di qualità. Si sarebbe rimasti in mondo di “vaudeville”, di “isole dei famosi”, di giochi a premio. Alla lunga anche il rock ed il pop “d’arte” (si pesi al mirabile jazz di Shostakovic) sarebbero stati contagiati e travolti. Nel 1993, Baumol è tornato sul tema con un altro librone “The Next 25 Years of Public Choice” in cui analizza come il “morbo” non riguardi solamente o principalmente le arti sceniche ma tutte le forme di produzione di servizi – come la sanità e l’istruzione- in cui c’è alta intensità di lavoro ed una forte componente relazionale (si guarisce meglio con il medico con cui c’è un rapporto umano, si apprende di più dal docente carico di empatia). Anche in questi casi , sostiene Baumol, l’intervento pubblico è essenziale perché sanità ed istruzione impartite unicamente da macchine (oggi è fattibile) non avrebbero ingredienti (la carica relazionale) tali da raggiungere gli obiettivi più veri e più profondi.
La nuova commissione di un’opera italiana, da parte non di una delle maggiori Fondazioni Liriche ma da un’Accademia d’antiche tradizioni, creata all’inizio del XIX secolo da un gruppo di aristocratici anche allo scopo di mettere in scena, opere che sarebbero state vietate dalla censura papalina, ha aspetti che superano la valenza dello spettacolo e pongono domande sul presente e sul futuro del teatro lirico “nostrano”.
“Freud, Freud, I Love You” di Luca Mosca, su libretto di Gianluigi Melega, prestata al Teatro Olimpico di Roma il 154 gennaio, è un’opera da camera che richiede un piccolo organico, tre cantanti, un mimo e dura circa 40 minuti. Il libretto tratta della passione d’Oskar Kokoschka per Alma Mahler e di come il pittore ricorra alle cure di Freud, senza però trarne gran beneficio. Lo “scherzo musicale” ha una premessa: “Bergasse 19, Una Serata in Casa Freud” (tra le due parti non c’è intervallo) in cui ci s’immagina una soirée musicale privata nella Vienna della “secessione”: brevi pezzi di Anton Webern, i quattro Lieder di Alma Mahler, i cinque Rückert Lieder di Gustav Mahler ed quattro pezzi per clarinetto e pianoforte di Alban Berg. L’ascoltatore scivola dal concerto allo “scherzo” quasi senza accorgersi che si è quasi ad un secolo di distanza. Mosca, però, non rifà solamente il verso alla complessa ed elegante scrittura della Vienna della secessione, ma v’ironizza, specialmente nella parte vocale in cui arie, duetti e terzetti (poco il declamato) sono un vero e proprio gioco tra due secoli. Semplice, ma efficace la regia e l’allestimento scenico (agevolmente trasferibile in altri teatri). Eccellente l’Ensemble. Buone le tre voci, tra cui spicca quella di Roberto Abbondanza.
E’, però, un lavoro intellettualistico, più per addetti che per un folto pubblico pagante, un po’ come la deliziosa “Postcard from Marocco” di Dominick Argento, concepita però per essere rappresentata nel teatrino del Peabody Conservatory della Johns Hopkins University di Baltimora. Il raffronto con Argento è puntuale in quanto la vocalità pur insistendo sul declamato del “chiacchierar cantando” affida un arioso a ciascuno dei protagonisti vocali. Raffinata la scrittura orchestrale, caratterizzata da eleganti contrappunti timbrici degli strumenti a corda agli archi.
Siamo, però, agli antipodi di ciò che offre l'opera contemporanea negli Usa, in Francia e Germania- Ed anche in Italia: si pensi a "Il tempo sospeso nel volo" di Nicola Sani.
Sarebbe utile aprire un dibattito su Il Velino. Negli ultimi anni , oltreoceano, e in molti Paesi europei, si è riportato il pubblico in teatri d’opera per lavori d’autori viventi tramite una nuova ondata di "Literarturoper". Penso a “The bitter tears of Petra von Kant” (“Le lacrime amare di Petra von Kant”) di Gerald Barry, “Thyeste” di Jan van Vljimen, a “Pan”di Marc Monnet. A”Sophie’s Choice” (“La scelta di Sofia”) di Nicholas Maw ed al delizioso “Seven attempted escapes from silence” (“Sette tentativi di fuga dal silenzio”), un libretto di Jonathan Safran Foer messo in musica da sette giovani compositori di Paesi e scuole musicali differenti. Tutti lavori tratti da una base letteraria spesso resa nota dalla trasposizione cinematografica o televisiva e trasformati in teatro in musica tramite un linguaggio al tempo stesso accattivante ed elegante e soprattutto tale da portare pubblico pagante in teatro. Perché in Italia abbiamo importato unicamente "A Streetcar Named Desire" di Previn e “The death of Klinghofer” di Adam tra i lavori di questo genere? E perché non siamo in grado di svilupparne uno autonomo - l'opera di Sani su Borsellino è un'eccezione ed è tratta dalla cronaca non da un romanzo, quella di mio cugino Francesco su L'Isola Ferdinandea era tratta da una breve novella elegante e troppo calligrafica per viaggiare oltre il Teatro Olimpico, la biennale e poche altre sedi specializzate in contemponeità sfrenata.
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